Dieci anni fa, nel 2009, avevo diciassette anni e come tutti i teenager una forte esigenza di sentirmi diversa, speciale, fuori dal gregge. Per un’adolescente nata e cresciuta nel pieno bombardamento mediatico televisivo a suon di vite basse, extension bionde e tribali sul fondoschiena, l’opposizione a modelli estetici dominanti era quasi una dichiarazione ideologica: io non sono una Barbie californiana abbronzata e stupida, io non sono Christina Aguilera né Britney Spears. Un modo di ragionare piuttosto elementare – cercare un modello al posto di un altro equivale comunque a conformarsi, ma suppongo in certi momenti della vita sia inevitabile – tuttavia comune a molte ragazze millennial che non si trovavano a loro agio nel canone proposto, o meglio imposto. All’epoca, appena dieci anni fa, non si parlava certo di body positivity né di nessun tipo di alternativa all’idea che una velina fosse l’apice della bellezza femminile. Per questo quando si cominciò ad affermare una sottocultura pensata proprio per quelle persone che non si riconoscevano nel modello mainstream sembrava quasi impossibile crederci. Quando andai a vedere al cinema (500) giorni insieme, nell’autunno del 2009, mi sentii come davanti a un’oasi di acqua fresca dopo aver errato per anni in un deserto fatto di completini intimi di Victoria’s Secret. E quello che avevo davanti, in effetti, era un caposaldo del genere rom com, una bellissima commedia romantica diretta da un regista di video musicali, Marc Webb, destinato a diventare sia un cult in senso celebrativo sia paradigma di uno stereotipo cinematografico noto come quello delle Manic Pixie Dream Girl. E chi lo doveva dire alla me diciassettenne incantata dallo stile indie trasognato e stralunato di Zoey Deschanel che la sua frangetta e la sua espressione da “ragazza matta” sarebbero diventati il centro di un dibattito sugli stereotipi di genere?
Si potrebbe affermare che la ricezione del fenomeno Manic Pixie Dream Girl – termine coniato nel 2007 da Nathan Rabin, poi pentitosi di averlo tirato fuori – ha attraversato diverse fasi, molto collegate ai rapidi cambiamenti che l’industria culturale occidentale ha subito negli ultimi vent’anni rispetto ai temi e ai modi in cui affrontarli. Non che prima non esistessero critica femminista o punti di vista più attenti al modo in cui venivano rappresentati i personaggi femminili, ma diciamo che la tendenza recente è proprio quella di problematizzare in modo più acuto questo genere di cose. Personalmente, non credo che le critiche retroattive siano costruttive nel momento in cui condannano e mettono un veto su prodotti culturali o su artisti senza considerare il contesto sociale, economico e storico in cui sono stati partoriti; anzi, credo che sia abbastanza egocentrico – per non dire demenziale – usare i mezzi contemporanei per criticare espressioni artistiche che appartengono al passato credendo che i valori e la morale presente siano sempre stati e sempre saranno il punto più alto della civiltà. Piuttosto, penso che ripescare anche cose recenti come una commedia romantica di successo e di intento alternativo al mainstream da Jennifer Lopez e Matthew McConaughey, quale è stata appunto (500) giorni insieme, e vedere quanto ci siamo distanziati da quel punto in un determinato arco di tempo sia molto più interessante. In realtà, la distanza dal personaggio di Zoey Deschanel era stata presa già pochi anni dopo, visto che già tra il 2012 e il 2014 la rete pullulava di longform in cui si destrutturava la figura della Manic Pixie Dream Girl.
A riguardare il film oggi, infatti, è subito chiaro cosa è invecchiato bene e cosa no. Così come sono chiari gli elementi che fanno sì che un personaggio femminile possa essere annoverato nella lista delle varie Manic Pixie Dream Girl, ossia tutti quegli elementi che pigramente compongono un ritratto senza una vera e propria personalità se non un pacchetto completo e prevedibile di comportamenti e caratteristiche estetiche. Così come nel cinema americano è stato individuato lo “stock character” del cosiddetto Magical Negro, l’uomo di colore che interviene in supporto del protagonista bianco – come Whoopi Goldberg in Ghost o Morgan Freeman in The Dark Knight Rises, per intenderci – allo stesso modo esistono decine di esempi di ragazze matte, lunatiche, “diverse” e con uno stile tutto loro che appaiono a un certo punto della storia rimanendo ben confinate in un ruolo di subalternità narrativa. Le regole del racconto sono sempre le stesse da quando l’uomo narra ciò che lo circonda, quindi millenni, tant’è che esiste anche un testo fondamentale scritto formalista russo Vladimir Propp nel 1928 che chiunque abbia studiato teoria della letteratura avrà in mente, ossia Morfologia della fiaba, in cui si analizzano proprio tutti i ruoli costanti e prototipici della tradizione narrativa occidentale.
Non è strano insomma che esistano sempre un cattivo, un eroe e un aiutante, così come non è strano che in una commedia romantica ci siano delle esagerazioni rispetto a sentimentalismi di vario genere. Il punto piuttosto è un altro: il fatto che siano donne e persone di colore, soggetti entrambi che hanno vissuto e vivono in condizioni di subalternità sociale, a tendere a diventare anche nei racconti co-protagonisti spogliati di personalità e delegati a un ruolo preconfezionato.
Così, la Manic Pixie Dream Girl diventa la controparte di un altro stereotipo, quello del nice guy, dell’inguaribile romantico e sognatore che cerca una donna diversa da tutte le altre, che sappia ridere delle cose che fanno ridere gli uomini ma che sia anche femminile, che si sappia vestire e truccare ma che non perda ore davanti allo specchio. Ma anche una ragazza in cui brilli la scintilla della follia lieve, quella piccola ma fondamentale vena di incontrollabile vitalità, che si traduce in passioni e dettagli eccentrici e unici – sempre Zoey Deschanel, per esempio, in Yes Man tiene corsi di “fotografia dinamica” al parco, mentre Natalie Portman in La mia vita a Garden State indossa un buffo casco per proteggersi dagli attacchi di epilessia. Questa donna, perfettamente imperfetta, diventa così la proiezione di un ideale secondo cui esiste una moltitudine noiosa e conforme dalla quale ci si può distanziare diventando parte di un’altra moltitudine noiosa e conforme, quella delle cose speciali e diverse che si manifestano con caratteristiche tanto uniformi da poter essere individuate a colpo d’occhio. Un po’ come quando al liceo ci mettevamo la maglietta di Che Guevara e le cinture con le borchie per non sembrare quelli che si mettevano le Hogan con la borsa Pinko, col risultato di essere comunque banali e identici a centomila altri adolescenti.
Negli anni sono state stilate liste lunghe e accurate di MPDG nel cinema e nelle serie televisive, e oltre alla regina di questo scaffale di personaggi surgelati che è ovviamente quello interpretato da Zoey Deschanel in 500 giorni insieme, da Kirsten Dunst in Elizabeth Town, Natalie Portman in La mia vita a Garden State, Kate Winslet in Se mi lasci ti cancello sono gli esempi più classici, insieme ad Amelie, ma l’archeologia della MPDG può spingersi molto più indietro: pensiamo ai personaggi interpretati da Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany, Catherine Hepburn in Bringing up Baby, Diane Keaton in Io e Annie, Barbara Streisand in What’s up, doc?. Le versioni più recenti invece hanno assunto delle tinte diverse, preservando quella componente da “elemento narrativo che arricchisce la vita del protagonista portando una ventata di follia nella sua vita monotona”, come per esempio la protagonista della serie Netflix Love, Mickey, o quella di Sex Education, Maeve, fino ad Alessandra Mastronardi in Master of None. Diciamo che negli anni si è allargato lo spazio nella narrazione – di Summer in (500) giorni insieme non sapevamo nemmeno che lavoro facesse, per esempio – con un approfondimento molto più accurato di queste protagoniste ma è sopravvissuta l’aura della ragazza fuori dagli schemi con l’obiettivo di scatenare un uragano di passioni ed emozioni nella vita del malcapitato che si ritroverà ad amarle nonostante la loro pazza vita e la loro stranezza che altro non è se non proprio la culla del loro fascino. Ma il risultato finale, vuoi o non vuoi, rimane spesso ancora piuttosto ancorato a questa formula di rappresentazione che delega a una gamma limitata e già testata di colori la raffigurazione della donna.
Riguardando (500) giorni insieme la mia impressione è che si tratti ancora di un film ben riuscito, con una bella colonna sonora, che parla di rapporti, di illusioni e di carico di aspettative nei confronti di persone idealizzate. La stessa cosa vale per qualsiasi altro film o serie tv in cui compare una di queste ragazze un po’ pazze, ma anche così affascinanti, per il loro modo unico di essere diverse e speciali: non smetto di godermi Io e Annie o qualsiasi altro prodotto di intrattenimento in cui una donna ricopre un ruolo che non serve approfondire perché è solo funzionale allo svolgimento di una trama che non la riguarda poi così tanto. Esistono i protagonisti e i co-protagonisti, così come sono sempre esistiti degli stereotipi narrativi che servono alla trama per andare avanti, la Manic Pixie Dream Girl non è niente di eccezionale da questo punto di vista, ma perché risponde a una richiesta del pubblico femminile di essere rappresentato anche nella sua forma “altra”, riproducendo la stessa dinamica di conformismo sostituendone solo gli elementi. Ciò che posso augurarmi per il futuro, semmai, e per le ragazze che hanno 17 anni nel 2019, è che vengano prodotti sempre più film, serie tv e libri in cui gli autori non attingano da modelli precostituiti e comodi di donne, modelli che ci mettono ancora una volta davanti a uno standard edulcorato e omologante da raggiungere, ma che piuttosto si dedichino ai personaggi femminili rappresentandoli in quanto persone. Perché non c’è niente di più noioso di un anticonformismo conforme, e su questo penso che possiamo essere d’accordo tutti, a prescindere dal nostro genere di appartenenza.