Ho visto tutte le stagioni di Sex and the City che non avevo ancora vent’anni e, come molte altre mie coetanee, ho subito la fascinazione per la grande città e le serate in giro per locali molto prima di potervi avere effettivamente accesso. Ad abbagliarmi per lungo tempo è stata soprattutto lei: Carrie Bradshaw – di cui sognavo ricci, guardaroba e avventure. Personaggio protagonista della serie interpretato da Sarah Jessica Parker – che, pare, non sia mai più riuscita a scollarsela di dosso – Carrie era l’iconica scrittrice autoproclamatasi antropologa sessuale alla maniera di Erica Jong. Nella finzione scenica, esordiva dichiarando di voler far sesso come un uomo.
Tacchi a spillo sempre ai piedi e look improponibile ma glamour, Carrie filosofeggiava con piglio ironico sulla vita sessuale moderna da una colonna di giornale newyorkese, prendendo come spunto le sue fallimentari vicende sentimentali e sessuali, nonché quelle delle sue amiche: Charlotte, Miranda e Samantha. Basato sull’omonimo libro di Candace Bushnell – lei stessa ha dichiarato che Carrie Bradshaw è il suo alter ego, inventato per non scandalizzare i genitori troppo conservatori – e portato sulla scena tv dal genio delle serie Darren Star, Sex and the City mirava a offrire uno sguardo schietto, se non comico, sulle vite e gli amori di quattro donne in carriera a Manhattan, single sospese in quell’età ibrida tra i trenta e i quarantacinque anni. Dalla ragazza “per bene” del gruppo, Charlotte, gallerista con la fissa del matrimonio perfetto, a Miranda, avvocatessa di alto livello molto insicura del suo aspetto, a Samantha, pr di grido, sessualmente molto attiva e disinibita, Carrie faceva da leader e collante: una sorta di cuscinetto morale a tenere insieme la narrazione di vite diverse, ma sempre adeguatamente sostenute dal portafogli.
Da quei tempi – parliamo della fine degli anni Novanta, e dell’inizio dei Duemila, le prime stagioni hanno ancora le Torri Gemelle sullo sfondo – molte cose sono cambiate: la vita sessuale delle donne non è più un argomento tabù per le produzioni televisive e molto merito va dato proprio a questa serie, conclusasi nel 2004, che è riuscita a portare in tv con naturalezza il discorso sul sesso. Ma dopo due film abbastanza deludenti – il primo uscito nel 2008 e il secondo nel 2010 – e in previsione di un reboot dal titolo And Just Like That … viene da farsi un po’ di domande. Se il modello di donna proposto dalle prime stagioni prendeva infatti le mosse da uno spunto di rivoluzione e rivendicazione sessuale, già le ultime se ne facevano progressiva negazione culminando in pellicole in cui, al centro della scena, vi erano personaggi superficiali dalle personalità egocentriche e consumistiche, barricate proprio sulla cima di quegli stereotipi che inizialmente sembrava si volessero abbattere.
Durante la mia suggestionabile tardo-adolescenza, Carrie Bradshaw mi aveva fatto credere che si potesse vivere di parole e, intanto, mangiare fuori tutti i giorni, darsi a spese folli, partecipare a feste stravaganti e trovare un bellissimo appartamento ad affitto bloccato in pieno centro a New York. Ma il problema, più che il distacco socio-economico con la realtà, è un altro e mi è apparso chiaro dopo aver rivisto tutta la serie cult con gli occhi di adulta. Ho scoperto così che, da paladina dell’emancipazione in tutù rosa, Carrie è in realtà la nemesi inconsapevole di molte delle sue fan della prima ora, me compresa. Carrie rappresenta infatti una femminilità che magari ha meno remore a far sentire la sua voce rispetto ad altre, ma sottace in tutto e per tutto a dinamiche di stampo patriarcale, interiorizzate al punto da non riconoscerle nemmeno più e farsene anzi divulgatrice.
I personaggi principali di Sex and the City sono donne bianche, eterosessuali, professionalmente realizzate e/o benestanti. Per quante complicazioni affrontino – un lutto, una gravidanza, un capo particolarmente richiedente – tornano sempre ad attestarsi su queste basi apparentemente scevre da legami importanti fuori dal gruppo. Da un lato potremmo dire che questo è un setting narrativo e nient’altro e si basa proprio su una sospensione dell’incredulità; dall’altro occorre però chiedersi se l’assenza di una vera drammaticità su situazioni diverse dall’ambito amoroso sia una narrazione onesta. Come la stessa Miranda si chiede durante una puntata, è possibile che donne tanto indipendenti non abbiano nient’altro di cui parlare se non degli uomini che le fanno soffrire? La rappresentazione dell’universo femminile in Sex and the City ruota intorno agli incontri con uomini deludenti, mentre si cerca il maschio affascinante ma recalcitrante o ambivalente da cui farsi prima ribaltare la vita e poi ossessionare, sperando che prima o poi le sposi. Gli unici rappresentanti di una virilità non tossica vengono scartati, traditi, lasciati e ripresi perché “va tutto liscio comel’olio” o “non c’è la botta allo stomaco che in realtà è solo la paura di perdere il tuo uomo”, una sensazione tremenda da cui nemmeno la visione di una vetrina piena di scarpe riesce a sollevare la protagonista. Già nel 2008 il Guardian si chiedeva se Sex and the City potesse essere davvero apprezzata da una femminista e, più in generale, se la serie rappresentasse o meno una narrazione realmente positiva per le donne.
L’ironia, ad esempio, mano a mano che la storia va avanti, da frizzante diventa tragica come nel teatro greco antico: il presagio della catastrofe contenuta in parole dette senza intenzione. Per ogni cosa che fa o che le succede, anche la più tremenda, Carrie ci monta su un numero da stand up comedian a cui Samantha, Charlotte e Miranda devono assistere e partecipare: il risultato è spesso – e ancora – divertente, ma per niente confortante, perché nega sia una presa di coscienza magari triste ma necessaria per evolvere e soprattutto la rabbia femminile, spacchettata in sarcasmo passivo-aggressivo per farne un oggetto inoffensivo.
Carrie è una specie di pentola a pressione che, per non dispiacere troppo a nessun maschio, il più delle volte si mostra leziosa come una bambina che ha appena saputo dell’arrivo di Babbo Natale. Le sue esternazioni fuori da questo registro ne fanno il prototipo della donna che a un certo punto esplode e fa “cose pazze”, troppo emotiva, nevrotica, impulsiva, irrazionale, poco oggettiva e incline a farsi dominare da sentimenti ed emozioni: una terribile macchietta sempre in attesa che arrivi un uomo a salvarla, cosa che infatti succede più volte e fa pure da conclusione al racconto televisivo.
La componente data dall’amicizia tra donne è stata spesso celebrata come il plus della serie, ma questo tratto è invece il più irrealistico di tutti. Questione di prospettiva narrativa, Carrie è voce di tutto ciò che accade a lei e alle sue amiche, ma il suo personaggio contribuisce a creare un’idea estremamente tossica dei rapporti amicali che per lei significano soprattutto due cose: mettere sé stessa al centro di ogni discorso; avere qualcuno da vedere quando è triste perché il maschio di turno non si è fatto vivo. Carrie non supporta o ascolta davvero nessuno, ma richiede costantemente approvazione, attenzione e aiuto anche finanziario, perché ha un problema di gestione del denaro. Senza mai mettere a fuoco che la maggior parte dei suoi crolli è motivato dalla fine di una delle sue relazioni tossiche, non accetta di essere odiata neppure dalla moglie dell’uomo con cui ha una relazione e di cui provoca il divorzio, tenta una terapia psicologica, ma l’unico esito è incontrarvi un altro uomo interpretato da Jon Bon Jovi; prova a cambiare look, abitudini, frequentazioni, ma non accresce in empatia o intelligenza emotiva. La stessa cosa avviene quando i suoi rapporti amorosi vanno bene: allora Carrie è la più felice, sagace e alla moda del gruppo e non importa molto se una delle sue amiche sta crescendo un bambino da sola o l’altra ha il cancro: lei ha un uomo. E poi da capo. Gli episodi che mostrano questa dinamica sono così tanti che farne una lista è impossibile, anche perché non è questo l’unico problema con Bradshaw.
Il fulcro di maggiore criticità del personaggio è dato dal fatto che, se in linea teorica dovrebbe rappresentare una giornalista esperta di sesso e relazioni, più la narrazione va avanti più lei si dimostra di mentalità poco aperta e molto giudicante. Erano altri tempi, ma in particolare, in Sex and the City vi è una rappresentazione semplicistica dei pochi personaggi LGBTQ+: i due ruoli più importanti sono caricature di pettegoli con l’ossessione per lo stile, mentre Carrie non crede nella bisessualità e nel rapporto che una delle sue più care amiche ha con un’altra donna ed è spaventata dalla fluidità di genere. Stigmatizza l’aspetto fisico di chiunque, critica le scelte e i comportamenti di tutti, ma non è capace di realizzare che si trascina da una relazione disfunzionale all’altra, vittima dell’affascinante maschio stronzo di turno, normalmente uno stitico emotivo che la punisce con la tattica manipolatoria del silenzio, del ghosting e dell’orbiting, e ben prima della comparsa dei social network. Basti pensare al nome del personaggio che più lo rappresenta: Mister Big – come spiega Imelda Whelehan, autrice di The Feminist Bestseller, “già dal nome è come un fallo al centro di tutto”.
Alla fine dello show televisivo, tutte e quattro le amiche si sono “accasate” o sistemate secondo i canoni: hanno cioè un uomo accanto. L’arco narrativo resta intrappolato nel racconto fiabesco, culminante in una relazione amorosa stabile e felice. Sicuramente ogni personaggio della serie evolve e cresce, ma si arriva sempre alla stessa scelta, alla stessa destinazione. Inoltre, per quanto Carrie cianci sempre di autostima, non è mai lei a scegliere: si fa semplicemente guidare dagli uomini. Agli antipodi c’è il personaggio della sua migliore amica, Miranda Hobbes, che nel corso degli ultimi anni è stata rivalutata come papabile icona femminista, fino all’uscita del libro We All Should Be Mirandas.
In difesa di Carrie, potremmo dire che è un personaggio televisivo di fantasia il cui ruolo, forse, è proprio rendersi odioso e spaventarci: una sorta di moderna Penelope che, nell’attesa che “Lui” ritorni, con qualche frase a effetto o semplicemente facendo finta di niente, si intrattiene in altre occupazioni e passatempi per stornare l’inquietudine – e, guarda un po’, riesce ad avere successo anche se non sa gestire le sue e-mail. Ma, come scrive Faran Krentcil, Carrie Bradshaw è “un archetipo contemporaneo per donne single e lavoratrici” e bisogna affrontare l’idea che ciò non sia un bene perché sdogana la rappresentazione di una donna adulta, sicuramente capace di molte cose, ma completamente inabile a prendersi cura di se stessa, oltre il suo guardaroba e i suoi capelli. Viene da chiedersi su quante donne questa idea abbia avuto conseguenze emotivamente dannose. All’opposto di Amélie Poulain, altro personaggio della fantasia dai risvolti rovinosi per una generazione intera di ragazze, c’è la possibilità che Carrie abbia avuto effetti disastrosi per più di una generazione, impartendo dubbie lezioni di vita quando il suo unico vero insegnamento di cui dovremmo fare tesoro è che il rapporto con gli uomini non può rappresentare un “suolo lunare” su cui piantare una bandierina e gli incontri sentimental-sessuali non devono per forza essere distruttivi come quelli con un asteroide. Dovremmo liberarci da Carrie, sempre pronta a fare una battuta quando la sua anima va in pezzi, concedendoci finalmente il diritto più negato alle donne: quello di dire basta allo show del “va tutto alla grande” e sapere che anche quando si è confuse, tristi, sole e non al proprio massimo, si è comunque esseri umani degni di rispetto.