C’è una regola grammaticale che si impara alle elementari: il femminile di “il cantante” è “la cantante”. Poi esiste il cantautore e con lui la cantautrice, ma in questo caso non intendiamo solamente una persona che usa la voce per fare musica interpretando brani altrui, ma chi scrive i testi e le musiche delle proprie canzoni. Perché allora, dato che per parlare di Carmen Consoli basterebbe usare il termine “cantautrice”, cantantessa suona al contempo così sbagliato ma anche così calzante? Leggenda narra che, durante l’incisione in studio di un album, un ingegnere del suono sudafricano abbia deciso di usare questa espressione per richiamare silenzio e attenzione sulla protagonista di quella registrazione. Un po’ poeta, o poetessa, un po’ cantante – da qui la forza espressiva della crasi dei due termini che si uniscono per formare la parola macedonia con cui viene appellata l’artista catanese – ma soprattutto chitarrista e compositrice dal talento fuori dal comune, Carmen Consoli è una delle voci più riconoscibili e particolari del nostro panorama musicale.
Bisogna risalire alla seconda metà degli anni Novanta per vedere le sue prime esibizioni in televisione, su grandi palchi come quello di Sanremo, prima nella categoria giovani con “Quello che sento” e poi nel 1996 tra i big, con “Amore di plastica”, presentata da Pippo Baudo: Carmen Consoli, allora ventenne, era una studentessa di lingue e letterature straniere ma, soprattutto, era già una grandissima appassionata di musica dal vivo, chitarre, blues, rock and roll, musica tradizionale, non solo siciliana e mediterranea ma anche brasiliana e più in generale sudamericana; una commistione che ha fatto da base al suo stile anche negli anni successivi, non solo con testi in dialetto siciliano ma anche con ricerche specifiche sui canti, sulle ritmiche e sulle melodie tradizionali. Già dalle sue prime apparizioni al festival, di fronte a un pubblico così ampio e diverso da quello delle realtà underground che era solita frequentare e dove il suo nome circolava da un po’, Carmen Consoli diventa un argomento di dibattito. Un viso di porcellana, i capelli tagliati in modo strano, due occhi giganteschi che scrutano, forte e rivendicato accento catanese, la chitarra sempre addosso, come un prolugamento delle sue braccia, ma soprattutto, Consoli ha una voce diversa da tutte quelle che il grande pubblico ha sentito fino a quel momento; è squillante e profonda al contempo, tremante e delicata, ma anche urlata e decisa. Non è certo la voce di Mina, né quella vellutata e struggente di Mia Martini, è qualcosa di inedito, ma soprattutto di indissolubilmente intrecciato all’uso della chitarra, strumento che la cantantessa usa in modo del tutto personale e innovativo, con una grande conoscenza tecnica che negli anni diventerà sempre di più un suo punto di forza.
Oggi sembra quasi un dettaglio trascurabile che una ragazza in prima serata sulla televisione italiana degli anni Novanta avesse piena padronanza dello strumento che suonava, ma nel giro della musica pop italiana fino a quel punto le donne con una presenza compositiva, oltre che interpretativa, così forte non appartenevano ai contesti nazionalpopolari, sebbene nella tradizione, di musiciste ne fossero esistite tante – basti pensare che la chitarra inizialmente era considerato uno strumento femminile. Rosa Balistreri, per esempio, chitarrista e cantautrice siciliana morta all’inizio degli anni Novanta – che Carmen Consoli conosce bene, tanto da organizzare eventi per celebrarla – è stata un personaggio di nicchia, per gli appassionati, riscoperta anni dopo la sua scomparsa piuttosto che una pop star da classifica nazionale. Eppure, Balistreri era un’artista incredibile, di una modernità rara, soprattutto se contestualizzata al suo contesto d’origine, ossia la Sicilia arcaica e povera di una provincia come Licata.
Anche nel caso di Carmen Consoli, seppur in modo molto diverso, il contesto di formazione e crescita è stato fondamentale per il suo carattere artistico: prima di tutto, il rapporto con il padre, grande appassionato di chitarre e di musica che le ha trasmesso non solo l’amore per gli strumenti, ma anche la curiosità per la sperimentazione – a questo proposito, è commovente la canzone che lei gli ha dedicato dopo la morte, “Mandaci una cartolina”. Poi, oltre all’ambiente familiare, è fondamentale anche la città in cui Consoli si avvicina alla musica, dal momento che Catania tra gli anni Ottanta e i Novanta era una delle città più prolifiche d’Italia da questo punto di vista. Non solo, ovviamente, la presenza di Franco Battiato, con cui la cantantessa ha collaborato negli anni, formando un grande sodalizio artistico, ma anche tutte le altre realtà artistiche, dal produttore Francesco Virlinzi alla band new wave Denovo di Mario Venuti, Luca Madonia e Tony Carbone – con cui poi collabora singolarmente anni dopo – fino alla scena noise degli Uzeda, che hanno portato personaggi come Steve Albini nella città che per alcuni anni è stata definita la “Seattle d’Italia”.
Tutti questi elementi, dal contesto vivace e unico di Catania negli anni Novanta legato al mondo del rock alla sperimentazione con forme sia sonore che linguistiche della tradizione siciliana, hanno reso gli otto album in studio di Carmen Consoli un corpus musicale compatto e riconoscibile; che, proprio nell’autunno del 2021, si è arricchito con un’ultima uscita dal titolo emblematico: Volevo fare la rockstar. Negli anni, infatti, oltre ad aver consolidato il suo ruolo nella musica pop non solo grazie a brani che sono diventati dei classici come “Parole di burro” o “Fiori d’arancio”, ma anche con colonne sonore di film cult come quella de L’ultimo bacio di Gabriele Muccino – pellicola generazionale che ha di recente compiuto vent’anni – Carmen Consoli è rimasta fondamentalmente una rock star, nell’accezione più naïve e sincera del termine. Suoni curati e mai ripetitivi – lei stessa ha uno studio di registrazione dove dà spazio e supporto anche a tanti altri musicisti locali – e grande attenzione nei testi e nella poetica della sua musica. “Volevo fare la rockstar” è un disco che ha dentro anche una forte critica del mondo contemporaneo, dei ritmi di vita sfrenati alla ricerca del profitto, ma soprattutto del modo becero e opportunista con cui alcuni esponenti politici di oggi – senza bisogno di dover fare nomi – tornano in terre che hanno insultato e deprecato per anni facendo rastrellamenti di consensi con tecniche oratorie degne dei peggiori imbonitori di paese.
La musica di Carmen Consoli, la sua Fender su misura rosa shocking, i suoi arpeggi e il modo in cui ha impresso un’orma indelebile sulla scena musicale pop italiana sono un segno tangibile di cosa voglia dire, da donna, non adattarsi agli standard maschili per emergere, ma crearne di propri. “Cantantessa” è una parola che non esiste, certo, ma la cantantessa è un’artista che non ha mai fatto un passo indietro nel suo essere “fimmina”, come ama spesso definirsi, creando uno stile e un’estetica che possono non piacere, ma non si può dire che non siano riconoscibili e unici. Oggi, per fortuna, le cantautrici e le musiciste trovano più spazio nel panorama musicale pop non solo come interpreti ma anche come autrici, ma non è sempre stato così e non è sempre stato così automatico riconoscere un talento musicale che passi non solo attraverso un viso telegenico e una bella voce, ma anche dai calli sulle dita, proprio quelli delle rockstar.