Blob è l’unica parentesi sensata in una TV priva di senso
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Un buon modo di capire se un prodotto culturale, che sia televisivo, cinematografico o musicale, ha lasciato un segno – sia nel bene che nel male – è chiedersi se sia stato in grado di riempire un vuoto semantico infilandosi di prepotenza nella lingua che parliamo. Fino a poco prima che diventasse un film, Fantozzi era solo il cognome fittizio di un ragioniere sfigato che si barcamenava giorno dopo giorno nell’oceano sconfinato delle ingiustizie sociali. Oggi, per antonomasia – che sarebbe proprio il nome tecnico di questa figura retorica – possiamo dare a qualcuno del Fantozzi per intendere non tanto che assomiglia fisicamente a Paolo Villaggio o che è letteralmente un ragioniere che prende il bus al volo, ma che si sta comportando o sta subendo gli eventi in modo simile al povero Ugo. Possiamo addirittura renderlo un aggettivo, e definire una situazione fantozziana. Nella televisione degli ultimi trent’anni, dal 1989 per la precisione, c’è stata una trasmissione che ha avuto la stessa abilità di trasformarsi in una categoria estetica riproducibile, di diventare uno stile, un modo di rappresentare la realtà: questa trasmissione di chiama Blob, ed è impossibile che nei suoi quasi tre decenni di vita qualcuno non vi si sia imbattuto anche solo distrattamente mentre cenava. Ed è altrettanto probabile che almeno una volta nella vita sia capitato a chiunque di guardare un pezzo di qualche trasmissione e pensare “Questo starebbe benissimo su Blob”. 

Per capire innanzitutto da dove comincia l’esperimento di questa trasmissione che si fonda su quella famosa aggregazione in apparenza casuale di materiale televisivo incorniciata dalle solite brevi ma molto emblematiche didascalie, bisogna delinearne il contesto. Rai 3, la rete nota per il suo palinsesto piuttosto noncurante sia dello share che delle mode dell’intrattenimento audiovisivo, il canale per “quelli di sinistra” ma anche per quelli che seguono fedeli Un posto al sole: nata nel 1975, il terzo canale della televisione di Stato subisce un cambio di rotta drastico nel 1987 grazie all’avvento provvidenziale di Angelo Guglielmi. È la sua direzione – insieme al passaggio del suo controllo dalla Democrazia Cristiana al Partito Comunista Italiano – infatti, che determina la nascita di alcune delle trasmissioni storiche della rete verde, trasformandola da canale di seconda categoria a una sorta di esperimento di televisione culturalmente molto più audace delle sue sorelle blu e rosse. Sono gli anni in cui nascono Un giorno in pretura – storica trasmissione che riporta fedelmente i processi in televisione e che negli anni diventata un vero e proprio cult  che ancora resiste – gli anni in cui emergono sia Michele Santoro con Samarcanda, sia comici come i fratelli Guzzanti nelle trasmissioni di Serena Dandini come La tv delle ragazze, ma anche quelli in cui vediamo per la prima volta le rappresentazioni grottesche ed esilaranti di Ciprì e Maresco con CinicoTV. E a rinforzare ulteriormente la produzione molto prolifica degli anni d’oro di Guglielmini, in linea con altre trasmissioni sempre nate in questo stesso periodo come Il telefono giallo di Corrado Augias e Portobello di Enzo Tortora, si aggiunge anche il tempio della curiosità e dell’angoscia, Chi l’ha visto?.

Angelo Guglielmi (a sinistra)

È in questo palinsesto audace e denso di programmi tv destinati a una certa longevità che si insedia il format bislacco di Enrico Ghezzi e Marco Giusti, due critici cinematografici già rodati da diverse collaborazioni precedenti. Già un anno prima dalla messa in onda di Blob, infatti, i due avevano lavorato insieme a un altro prodotto televisivo piuttosto avanguardista, Fuori orario. Cose (mai) viste, che per certi versi potrebbe essere considerato la sua matrice, se non per forma e contenuti quantomeno per l’intenzione di creare una televisione che si nutrisse della sua stessa materia. Si tratta infatti di un programma che va ancora in onda e che ha tracciato il profilo di Enrico Ghezzi dipingendolo con quella strana caratteristica del parlato fuori-sinc, un tratto distintivo di tutti i suoi interventi all’interno di questo contenitore multiforme che regna nella seconda serata di Rai 3. È un miscuglio stratificato di generi che si sovrappongono tra loro, dal talk-show alla critica cinematografica, fino alla cronaca, ai fumetti – Milo Manara addirittura ne mandava alcuni per fax – e alla fotografia. Un pasticcio post-pop visionario che negli anni ha ridimensionato il suo lato più discorsivo da ospiti in studio e in diretta per definirsi più come contenitore audiovisivo di materiale prezioso, sperimentale e ricercato, “svincolato dall’ossessione della prima serata”. È evidente, dunque, che l’intenzione di Enrico Ghezzi e degli autori di Fuori orario non sia semplicemente di dare spazio al cinema nella televisione – e di metterle così in comunicazione, dando a ciascuna forma le caratteristiche dell’altra – ma quello di creare un vero e proprio linguaggio mediatico complesso, magari non di immediata comprensione, ma che stimoli un rapporto tra la televisione e lo spettatore che vada oltre una visione passiva: una catena di immagini e di parentesi che si aprono senza chiudersi. E da questo principio di flusso senza soluzione di continuità sia narrativa che figurativa viene fuori anche Blob.

Enrico Ghezzi e Marco Giusti, 1991

Se però Fuori orario si presenta più come un’esperienza intima – quella della seconda serata e del rapporto quasi esclusivo tra chi mette insieme queste concatenazioni e chi le guarda mentre si susseguono – Blob ha invece un aspetto molto più pubblico, accessibile, quasi elementare. Anzi, è proprio della bruttezza paradossale e sproporzionata della quotidianità che si nutre questo mostro informe che come nel film americano – di cui esistono due versioni, una del 1958 e una del 1988 – invade tutto lo spazio circostante, fagocitando ogni cosa. Blob è contemporaneamente la trasmissione più semplice e anche la più complessa della nostra televisione: parte da un materiale già disponibile, girato e curato da qualcun altro, e lo mette assieme per costruirci una parodia, un po’ come l’esperienza del ready made dadaista; ma per capire esattamente qual è il pezzo che manca di questo puzzle audiovisivo bisogna essere a conoscenza di tutto ciò che la tv italiana (e non solo) ci mette a disposizione. Si muove tra uno spazio sia diacronico, pescando nel passato sia recente che remoto della nostra televisione, sia sincronico, componendo giorno per giorno tutto quello che nello stesso momento ogni rete produce. E la cosa sorprendente è che fa ridere, come ogni forma di satira fatta bene, praticamente sempre. Non esiste una puntata di Blob deludente perché semplicemente non esiste un giorno in cui non venga prodotta una scena inconsapevolmente comica.

Il meccanismo per cui questo piccolo miracolo televisivo si innesca è molto interessante: siamo stati soggetti a un rapporto giornaliero con la tv per decenni – cosa che oggi sta venendo sostituita da internet – e questa normalizzazione di una visione perlopiù passiva ha creato una sorta di callo nel telespettatore. Se guardiamo un servizio di un telegiornale, una puntata di un reality o di un talk-show, deve succedere qualcosa di veramente eclatante per farci rendere conto della stramberia o dell’illogicità di una situazione. Il potere di Blob è proprio quello di sottolineare tutti quegli istanti di follia che la televisione ci regala e che passano inosservati perché, banalmente, non ci facciamo troppo caso. Estraendoli dal loro contesto, montandoli in una successione precisa, perdono improvvisamente il senso originario e diventano un’altra cosa, emergono per quello che in realtà sono: pezzi di intrattenimento o di informazione che trovano una legittimità solo se inseriti in una sequenza più ampia, ma che una volta lasciati soli perdono l’appiglio contestuale che li protegge dalla coscienza critica di chi li guarda. Si tratta di una formula che sfrutta a pieno la natura postmoderna del nostro presente, dove la molteplicità dei modelli di senso può essere combinata per crearne di nuovi. E il risultato non solo è efficace, perché risulta pienamente comprensibile nonostante non ci siano altri supporti se non quello del montaggio e di qualche didascalia emblematica, ma è anche sovversivo rispetto alla narrazione mainstream della realtà. Il comizio di un politico che passa a un telegiornale non suscita altrettanti stimoli critici di una riproduzione della stessa scena montata tra qualche estratto di un vecchio film che ne sottolinei gli aspetti più ridicoli e artefatti.

Enrico Ghezzi e Marco Giusti verso la fine degli anni ’90

Blob è tutta la spazzatura che invade il nostro quotidiano attraverso i media ritagliata e confezionata in trenta minuti per mostrarci quanto spessa è diventato quella barriera opaca che ci protegge dalla perdita definitiva di ogni senso. È impossibile che un suo episodio non sia brillante e divertente semplicemente perché la realtà di ogni giorno non smetterà mai di fornirgli del materiale di cui nutrirsi. Se Blob diventasse all’improvviso un semplice montaggio di frammenti televisivi senza nessun tipo di verve satirica allora dovremmo cominciare a preoccuparci sul serio, perché potrebbe significare che il mondo ha deciso di andare nel verso giusto: niente più immagini paradossali, niente più cattivo gusto, niente più notizie assurde e discorsi incoerenti. Ma credo che possiamo stare ancora tranquilli per un bel po’: dubito che la scorta di attrezzatura audiovisiva di questa trasmissione possa esaurirsi facilmente. Nel frattempo abbiamo ancora la possibilità, ogni sera alle 20, di poter mettere su Rai 3 e godere di quella breve parentesi di sensatezza che, fingendo di non avere nessuna logica, ci dà forse il ritratto più lungimirante e intelligente della nostra realtà.

Questo articolo è stato pubblicato la prima volta il 13 dicembre 2018.

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