“L’arte di vincere” è il film manifesto di un nuovo modo di concepire lo spirito sportivo - THE VISION

Alla fine della stagione 2001 gli Oakland Athletics sono una delle squadre meno ricche di tutta l’American League, la massima serie professionistica di baseball statunitense. Dopo essere stati sconfitti dai New York Yankees e aver perso la possibilità di qualificarsi alle World Series, devono anche fare fronte alla perdita di tre giocatori chiave della rosa giunti a fine contratto: John Damon, Jason Giambi e Jason Isringhausen. Il general manager della società Billy Bean, insieme ai suoi collaboratori, deve sostituirli, operazione complicata dalla situazione negativa che vive la società a livello economico rispetto ad altre potenze della lega. Durante un incontro con i Cleveland Indians, in cui si vede rifiutare tutte le sue proposte di mercato, Bean conosce Peter Brand, un giovane neolaureato in economia a Yale che gli racconta di essere quotidianamente ostracizzato da parte dei membri più esperti della società per le sue idee radicali sulla valutazione dei giocatori.

Questo è l’inizio di L’arte di vincere (Moneyball), film di Bennett Miller uscito nel 2011 e interpretato da Brad Pitt e Jonah Hill. Basato sul libro Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game di Michael Lewis, la pellicola è frutto della sceneggiatura non originale di Aaron Sorkin e Steven Zaillian e racconta una delle imprese sportive più memorabili della storia recente. Un’impresa che nacque dal rapporto di collaborazione iniziato tra Billy Bean (Brad Pitt) e Peter Brand (Jonah Hill). Proprio dopo quel primo incontro gli Oakland Athletics vivranno una delle stagioni più esaltanti della loro storia raggiungendo 20 vittorie consecutive, record ancora imbattuto nella American League.

A colpire Bean già dal suo primo incontro con Brand sono le sue teorie, basate su un preciso modello statistico che secondo lui darebbe la possibilità di costruire una squadra vincente grazie allo studio dei dati e non alle capacità dei singoli giocatori. Bean, a quel punto, decide di rifondare l’intera squadra seguendo le indicazioni del suo nuovo assistente, ingaggiando giocatori sconosciuti o scartati da quasi tutte le altre società. Inizialmente il team di osservatori della squadra è molto scettico in merito al nuovo approccio sabermetrico di Bean e Brand, che invece di affidarsi all’esperienza dei primi decidono di selezionare i giocatori basandosi solo sulla cosiddetta Obp, ovvero la percentuale che indica il numero di volte in cui conquistano la base senza l’aiuto della penalità. Tutti questi giocatori, inoltre, hanno lievi difetti fisici o caratteristiche considerate negative dalla maggior parte degli scout della lega, che però lo stesso Brand identifica come veri e propri valori aggiunti nella loro valutazione finale.

Billy Bean (Brad Pitt) e Peter Brand (Jonah Hill)

La grande diffidenza nei confronti dei due protagonisti arriva soprattutto dall’allenatore Art Howe (interpretato da Philip Seymour Hoffman), che già da diverso tempo ha un rapporto negativo con Billy Bean per motivi di natura contrattuale. All’inizio della nuova stagione, nel frattempo, gli Athletics non convincono e la strategia introdotta da Bean e assistente non sembra dare i frutti sperati. Anche giornalisti e cronisti, fuori dal campo, iniziano a bocciare il nuovo sistema bollandolo come un triste fallimento. I critici si chiedono, prima di tutto, come possa risolvere i problemi un modello matematico (chiamato appunto “Moneyball”) ideato per la prima volta da Billy James, un autore che ha scritto un libro sulle statistiche del baseball ma che non ha mai giocato né gestito una squadra. Una tattica curiosa e innovativa che però, sempre secondo i media, porterà solo alla rovina della società e a una stagione fallimentare per Oakland.

Billy Bean (Brad Pitt)
Art Howe (Philip Seymour Hoffman)

Nonostante i presupposti negativi e le 14 sconfitte su un totale di 17 partite, Bean riesce a convincere il proprietario della società a proseguire su questa strada. A lungo andare, il tempo gli dà ragione e il piano sembra funzionare, con la squadra che inizia a macinare vittorie su vittorie stupendo tutti e diventando la rivelazione del campionato. La serie positiva culmina con la partita giocata affrontando i Kansas City Royals, contro i quali gli Athletics riescono a vincere grazie a un home run arrivato al termine del nono inning e battuto proprio da uno dei giocatori selezionati da Brand e il suo assistente Scott Hatteberg. La partita vale la ventesima vittoria consecutiva, certificando l’affidabilità del nuovo sistema e contraddicendo quindi i suoi detrattori.

L’arte di vincere è un affresco politico dello sport, ma soprattutto un film cinico ed estremamente realista che racconta come la forza dei numeri non debba essere solo al servizio del predominio economico all’interno di un sistema definito dallo stesso Bean come squilibrato e sleale, dove le squadre più ricche vincono e “uccidono” lentamente quelle più povere. In questo contesto, il film è soprattutto la rappresentazione del percorso di due outsider: da una parte Billy Bean, ex giocatore professionista che ha vissuto una carriera di insuccessi, dall’altra Peter Brand, giovane brillante ma sottovalutato con cui condivide quello spirito di rivalsa nei confronti di un sistema che ha sconfitto il primo e messo ai margini il secondo. Due personaggi ben raccontati dalle penne di Aaron Sorkin e Steven Zaillian ma soprattutto interpretati con trasporto dai due attori, in particolare Jonah Hill: un ragazzo metodico e pragmatico, ma anche per questo innovatore e progressista, entrato in punta di piedi in un sistema fossilizzato nei propri schemi tradizionali per cambiarlo dall’interno. Un’intenzione che porta con sé lo stesso Billy Bean, sconfitto dal suo passato e desideroso di cambiare il presente del baseball non appena ne ha l’opportunità.

Ed è proprio il finale del film che testimonia il vero messaggio di tutta la storia, manifesto di un cambiamento che deve arrivare prima di tutto dalla nostra concezione personale della disciplina sportiva: dopo la lunga serie di vittorie, infatti, gli Oakland Athletics perdono nel primo round del post-season contro i Minnesota Twins, non riuscendo a qualificarsi alle Finals e interrompendo quel sogno nato su idee sottovalutate ma di valore alla prova dei fatti. Un valore che traspare prima nell’obiettivo dei due personaggi, poi nel modello introdotto da Brand, infine nell’idea stessa dell’opera: in un sistema correttamente gestito, in cui la re-distribuzione è il vero punto di partenza, l’interazione proficua che avviene in un gruppo di individui è sempre più forte ed efficace del singolo che eccelle. Un modello che ha portato il regista Bennett Miller a raccontare lo sport senza celebrarlo, ma rappresentandolo in modo crudo per quello che dovrebbe essere: un sistema in cui lo sforzo collettivo premia più di quello dei singoli, senza compromettere la natura romantica della disciplina ma anzi ponendo al centro il fattore umano contrapposto all’imperativo della vittoria.

Peter Brand (Jonah Hill)

Questo motore drammatico è mosso principalmente dal sentimento dei protagonisti, che vivono dentro di sé una rabbia differente nelle origini ma molto simile nella sua evoluzione all’interno del contesto in cui si svolge la storia: un sistema monopolizzato dalle grandi potenze economiche, in cui però gli outsider hanno ancora la possibilità concreta di costruire qualcosa di vincente anche senza i grandi investimenti delle società. Possono farlo basandosi su un’unione che va al di là del concetto stesso di vittoria e sconfitta, ma soprattutto che pone l’attenzione sulla cooperazione e sul riscatto del singolo al servizio del gruppo. Una visione che anche senza vincere trofei ha il grande merito di mostrare l’esistenza di un’alternativa.

Allo stesso modo, L’arte di vincere riesce a mostrarsi agli spettatori come un’alternativa concreta ai tradizionali film sportivi, con i quali non deve essere confuso proprio sulla base delle tematiche che introduce in modo franco, politicamente influente, critico nei confronti degli status quo. Una storia che esalta la vita di chi, pur rimanendo dietro alle quinte del mondo sportivo, riesce ad imprimere nel proprio lavoro quotidiano un senso etico, di profondo attaccamento alla comunità; sentimenti che ci mostrano il vero spirito degli sport di squadra: perseguire il bene di un gruppo attraverso un percorso di crescita personale dei singoli individui.

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