Se penso alle vacanze estive c’è un’unica immagine che mi torna sempre alla mente: una Fiat Tipo nera, i finestrini abbassati, il movimento delle manopole per azionarli. Ho appena compiuto dieci o undici anni. È agosto, alla radio passa “Azzurro” di Adriano Celentano. Forse è una musicassetta, una delle ultime, sempre la stessa; forse mia madre canta guardando la strada. Non ricordo come si facesse a registrare musica prima dei lettori CD, probabilmente, essendo nato alla metà degli anni Novanta, non l’ho mai davvero saputo. È un’immagine molto italiana; anche banale, a dirla tutta. C’è il mare e poi mio padre che passeggia verso un’edicola nella piazza principale: per me Topolino, per lui La settimana enigmistica. Gli è sempre piaciuto fare i cruciverba, sta lì ore ed ore intere per finirli tutti. E io, anche se, crescendo, non ho ancora imparato a completare le parole crociate, oggi, guardandomi da fuori, mi sento sempre più simile a lui. Come l’altra sera, quando ho preso una mela, l’ho sbucciata lentamente, l’ho tagliata a pezzi e l’ho mangiata, solo, seduto al tavolo della cucina; o mentre sono in ascensore e mi guardo le mani e anche se sono la metà delle sue io ce le rivedo tutte. Anche ora, che sono passati un po’ di anni e di viaggi se ne sono affastellati molti, quella traccia resta prepotente. Mi chiedo spesso se sia un ricordo reale, la sintesi di diverse esperienze passate o, piuttosto, un avvenimento ordinario reso importante dalle sue rievocazioni nel tempo e plasmato, rimescolato, ampliato fino a diventare ciò che è oggi. È questo che facciamo con la memoria: la scomponiamo nei suoi elementi più semplici, per essere sicuri di non dimenticare mai del tutto, e poi non riusciamo più a curarci del loro ordine. Una Fiat Tipo nera, la radio spenta, le mani di mio padre, per me. La Fanta, un biliardo, la Turchia, per Sophie, la protagonista dell’intimo debutto della regista scozzese Charlotte Wells, Aftersun, nel mettere in ordine nella maniera più nitida che le è possibile l’ultima estate con suo padre Calum.
“Ho appena compiuto undici anni. Tu ne hai centotrenta e ne compirai centotrentuno tra due giorni. Quindi, quando avevi undici anni cosa immaginavi avresti fatto a centotrenta?”, chiede Sophie (Frankie Corio) all’inizio del film al padre, mentre lo riprende con una vecchia telecamera. Stanno preparando le valigie: Calum (Paul Mescal) ha programmato questa vacanza per il suo trentunesimo compleanno; è un’occasione per passare del tempo insieme ora che, dopo aver divorziato, si è trasferito a Londra dalla Scozia. È premuroso, le chiede come si sente, sembra ascoltarne con attenzione le risposte. C’è una chiara tristezza, però, che si porta dietro, nel modo in cui cammina, in quello in cui parla. È un uomo vulnerabile. Quando Sophie gli chiede se tornerà mai a casa, Calum le confessa di provare “questo sentimento per cui una volta che abbandoni il posto in cui sei cresciuto, senti di non appartenergli più”. È un sentimento di cui si parla poco nella realtà, ma con cui molti studenti, lavoratori o emigranti convivono tutte le volte che tornano nei loro luoghi d’origine. Per me vale sempre. Sottintende una certa scomodità nel parlarne: ci sono la famiglia, gli amici del liceo, la città in cui si è cresciuti, certo, ma anche la sensazione di essere fuori luogo, il confronto con le fotografie di dieci anni fa, quando ci aspettavamo un’altra vita, la Fiat tipo nero rottamata e la percezione di star sprecare del tempo, non perché si valga di più, ma per l’incapacità di saper davvero stare come vorremmo con i nostri genitori.
In Turchia, Sophie e Calum trascorrono le loro giornate prendendo il sole e nuotando, mangiando e bevendo; giocano a biliardo e poco più. Durante la maggior parte del film sembra non accadere nulla degno di nota, e anche quando qualcosa di importante si insinua nella trama, Wells evita di enfatizzarlo, lasciando che i dettagli e il riverbero delle immagini di una vacanza tanto ordinaria si accumulino fino a rendere il legame centrale inesorabilmente più significativo. È come se la realtà si svolgesse fuori dalla cornice dell’inquadratura, muovendosi nell’ignoto oltre lo schermo, dove, al contrario, è possibile registrare solo le fluttuazioni microscopiche e i lenti cambiamenti di una relazione in divenire.
In una delle scene più intense del film, Sophie ha inserito i nomi di entrambi in una lista per il karaoke, sembra una qualche tradizione consolidata tra i due. Calum, però, non è dell’umore: siede sugli spalti del piccolo anfiteatro della struttura, beve la quarta o quinta birra. Non ne ha voglia, non ne vuole sapere. Sophie sale sul palco, continua a fargli cenno di raggiungerla. Tutto attorno, la sera si riempie delle note di “Losing My Religion”, ma lei è lì, da sola. Inizia a cantarla a bassa voce, senza più alcuna voglia. Quando torna al suo posto, Calum le dice la cosa più crudele che un padre possa dire a una figlia in un momento simile, sminuendola: “Potremmo mandarti a lezione di canto se vuoi imparare”. “Vuoi dirmi che sono stonata?”. “Voglio dire che chiunque può imparare”. Sophie, in risposta, gli dice di smetterla di proporre cose che non può permettersi di pagare. Mi sembra una delle cose più crudeli che una figlia possa dire a un genitore, per non sottostare alla gerarchia imposta dai ruoli; come se ciò che lui le dà non è e non sarà mai abbastanza. Pur non vivendola, la genitorialità mi è sempre apparsa, invece, riducibile proprio a questo: all’intento di promettere tutto, non per illudere, ma per illudersi di vedere realizzato. Le parole di Sophie diventano devastanti per Calum: sono entrambi arrabbiati, ma lui, soprattutto, sta lottando con il dubbio di non essere abbastanza, né per se stesso né per lei.
Mano a mano che la vacanza procede, scopriamo che non è altro che una ricostruzione dei ricordi di lei, spesso alternati ai filmati “amatoriali” registrati da bambina con la sua telecamera e dai flashback e dagli incubi di una Sophie molto più grande. “Voglio intervistarti”. “Cosa mi vuoi chiedere?”. “Non lo so”. La tensione tra realtà e finzione – o meglio, tra eventi registrati e ricordati – ci spinge a esaminare ogni fotogramma, ogni parola, come se ci fosse una verità nascosta che sembra galleggiare sulla superficie del racconto, ma che resta sempre sfuggente, anche alla stessa Sophie. Calum, in questo senso, è spesso ripreso più a distanza dalla telecamera di qualsiasi altra cosa, attraverso specchi o vetri, lasciando che le pareti ne coprano la figura, o di schiena, come se gli eventi non fossero mai certi. Aftersun è un duplice ritratto dove la malinconia si fa quasi insopportabile nella sua autenticità: un padre troppo giovane, che si sente alla deriva nell’età adulta; una figlia al confine con l’adolescenza, non ancora pienamente consapevole del mondo.
È un fenomeno complesso la memoria, richiede esercizio per non lasciar dissolvere le cose e, anche con l’impegno, capita che eventi che in determinati attimi ci appaiono eccezionali e considerevoli finiscano per svanire lasciando spazio, invece, solo a dettagli o episodi che in altri momenti ci sembravano minuscoli. Alcuni ricordi sono più facili da mantenere, altri devono essere consolidati ogni volta in cui vengono richiamati alla mente perché il tempo li erode più facilmente – come ciò che abbiamo detto, i paragrafi dei libri di Storia o l’interezza delle esperienze che viviamo –, rendendoli sfocati e imprecisi, e quindi più malleabili, tanto da poter essere rafforzati quanto alterati. La nostra mente, di solito, li modella per farne profezie. Quando tentiamo di ripescare un ricordo piuttosto che un altro, infatti, lo facciamo per riviverne le emozioni, certo, ma spesso anche per trovare al suo interno risposte a domande a cui altrimenti non sapremmo dare un senso, inseguendo significati che potrebbero esserci sfuggiti o creandone di nuovi, rischiando di restarci incastrati.
C’è un libro tra quelli che Calum tiene sul comodino della stanza in cui, per un errore dell’hotel, lui e Sophie sono costretti a condividere il letto: Poems, Stories and Writings, di Margaret Tait. Viene inquadrato solo velocemente, probabilmente un piccolo vezzo di Wells per onorare una delle registe e poete scozzesi più straordinarie, anche se ampiamente sottovalutata in vita. Nelle sue pellicole, Tait celebrava la vita di tutti i giorni trattando i soggetti con grande intimità, svelando il mistero della quotidianità attraverso l’attenzione per i piccoli dettagli spesso trascurati, proprio come accade anche in Aftersun. Cercandone le poesie mi sono imbattuto in una che ricordavo di aver letto come esergo di qualche romanzo, intitolata “Adesso”. Nella prima strofa Tait racconta di quando, da bambina, restava in agguato nel tentativo di guardare il trifoglio aprirsi, o anche solo schiudersi un po’, senza mai riuscirci. Era troppo impaziente, o il movimento troppo veloce, impercettibile, fugace. Si stancava presto di fissarlo, e quando vi riposava di nuovo lo sguardo ecco che si era già chiuso per la notte. “L’ho perso, ancora una volta.” Non è forse questo che tutti, come Sophie, cerchiamo di fare quando ci aggrappiamo ai nostri ricordi? Restiamo in agguato a fissarli, sprofondandoci dentro, nel tentativo di riuscire a cogliere qualcosa che ci è sfuggito, qualcosa che sicuramente in quel momento abbiamo perso ma che, per quanto proviamo ad afferrare, ci sfugge, anche perché non riguarda solo noi.
Aftersun, in un modo contemporaneamente semplice e intenso, si configura così come una storia su come i ricordi delle persone che amiamo si evolvono e cambiano forma, in un continuo processo di stratificazione; su quanto impegno impieghiamo nel colmare con l’immaginazione o le supposizioni i dati mancanti; su come finiscano per determinare il modo in cui viviamo il presente. Con grande sensibilità, lasciando aperta ogni domanda, Wells ci immerge in un luogo Altro – struggente, nostalgico, bellissimo – che da adulti può apparire familiare a ognuno di noi: quello cioè, in cui cerchiamo di ritrovare le persone che più abbiamo a cuore – o meglio, le idee che abbiamo di loro – nel tentativo ultimo di riconciliarci con ciò che è stato e, soprattutto, con noi stessi.