Come ogni anno, da ormai settanta lunghi inverni, con l’arrivo di febbraio ci ritroviamo in quel momento del dibattito pubblico in cui si fa a gara tra chi è più al passo con i manuali di cultura pop e svelto a scrivere commenti simpatici in 280 caratteri e chi invece sbandiera un cinismo navigato da “La tv italiana fa solo schifo”. Inutile ribadire che nessuna delle due fazioni, né gli oltranzisti della kermesse né i secessionisti del “Solo in Italia”, merita lodi o infamie, visto che si tratta solo di due opinioni, entrambe legittime; arrivati a questo punto di consolidamento del Festival di Sanremo nel DNA di questo Paese disgraziato, infatti, anche il non avere un’opinione su questo evento costituisce di fatto un’opinione. L’edizione che cade sotto l’hashtag fortunato di “VentiVenti”, portandosi addosso il peso di un numero tondo che si avvicina al secolo, non poteva certo esimersi dai soliti stratagemmi mediatici per tentare la fortuna con la dea bendata dello share – con risultati piuttosto soddisfacenti, che dimostrano che probabilmente anche la consumata querelle e le successive polemiche hanno avuto la loro utilità.
Amadeus ha infatti pensato bene di giocare d’anticipo e di fregarci tutti con una sequela di gaffe, strane uscite e materiale per ottimi meme: giunti però alla gara in sé, chi ha avuto l’ardire di sintonizzarsi su Rai1 ha avuto modo di constatare che anche questa volta, in effetti, la musica con Sanremo c’entra fino a un certo punto. Fino a un certo punto, perché per quanto possano gareggiare e addirittura vincere, come nel caso di Mahmood, canzoni molto belle, è tutto quello che sta attorno alla musica, sotto forma di un contenitore a metà tra una corte dei miracoli e un tendone da circo, a fare davvero la differenza nella narrazione dell’ennesima edizione. A questo proposito, non so chi vincerà da un punto di vista musicale, ma so bene chi ha già vinto per quanto riguarda l’interpretazione di ciò che è l’essenza di Sanremo, ossia l’intrattenimento: Achille Lauro. Potremmo infatti dire che se Amadeus fosse un maestro, l’Ariston una scuola elementare e i suoi concorrenti degli alunni, il cantante della Serpentara avrebbe svolto il tema assegnato alla perfezione, e non tanto perché ha apparentemente “rotto gli schemi”, ma proprio per l’esatto opposto: Achille Lauro è stato quello che meglio ha capito che nel 2020 l’unico modo di lasciare un segno in un contesto tanto connotato da regole e limiti è quello di dare l’impressione di trasgredirli – e generare di conseguenza la polarizzazione delle opinioni, tra chi lo incorona nuovo re del pop e chi lo addita come un figlio di Satana sceso sulla terra per sovvertire il buoncostume, proprio quello di cui abbiamo bisogno per uno spettacolo degno di questo nome.
Inutile prenderci in giro e fare finta di credere che a Sanremo non sia tutto perfettamente programmato. Certo, sono sempre gli errori, le stonature, le lacrime, gli scivoloni – sia letterali che metaforici – a dare linfa a un programma che va in onda per cinque ore di fila e per cinque giorni di fila da più di mezzo secolo. Ma l’organizzazione di un evento simile è un’operazione mastodontica talmente rodata e strutturata che tutto ciò che agli occhi di uno spettatore appare come “imprevisto” non è altro che una decorazione necessaria e sacrosanta per la riuscita della kermesse. In questo senso, Achille Lauro si è preso con grande stile quella porzione di controllata imprevedibilità, mettendo in atto uno show degno di questo nome. E se pensiamo che in effetti di alcuni Sanremo ci ricordiamo solo alcuni dettagli, per dirne uno, “La farfallina di Belen”, credo che rimanere nella memoria dei posteri per dei tatuaggi che si intravedono da un abito, ma con molta più sfacciataggine, sia un buon risultato.
Achille Lauro, in effetti, negli ultimi anni, da quando è passato ufficialmente dalla parte del mainstream, ossia quello che per molti viene considerato il lato oscuro della forza ma che in realtà spesso è solo una scelta lavorativa come un’altra, ha assunto questo ruolo di ribelle ufficiale di Viale Mazzini, un personaggio che porta avanti in modo impeccabile. Già l’anno scorso, infatti, durante la seconda edizione del festival di Claudio Baglioni, Lauro è diventato il capro espiatorio di quel filone di pensiero da signora sconvolta che tappa le orecchie al figlio che ascolta la musica del demonio, ossia i Beatles. In quel caso, la canzone era a mio avviso molto più forte e orecchiabile di quella di quest’anno, tanto da rimanere in rotazione quasi costante sulle radio anche ben oltre la fine di Sanremo e da sollevare una polemica degna della migliore Dc andreottiana. Rolls Royce, infatti, secondo gli “amici di Striscia”, per citare un loro celebre incipit, era una canzone che incitava i più giovani a fare uso di stupefacenti, avendo nel testo dei riferimenti occulti alla fantomatica droga della discoteca, l’ecstasy. Valerio Staffelli, volto noto della trasmissione di Antonio Ricci, prendendosi anche del “tonno” dal diretto interessato, ha realizzato una lunga serie di servizi in cui smascherava gli intenti sovversivi di Achille Lauro, rendendolo di fatto la cosa più interessante anche dello scorso festival. Non c’è niente di più divertente che osservare un personaggio dello spettacolo che viene eretto a simbolo di perdizione e divertimento sconsiderato in un contesto come quello della Rai in prima serata, e anche nel Laurogate questa componente di scandalo e indignazione vecchia scuola per qualcosa che di fatto nemmeno esisteva ha regalato grandi emozioni e grasse risate al pubblico un po’ meno anziano dell’evento.
Tutto questo, d’altro canto, gli ha regalato una grande occasione per diventare un’icona. E infatti, probabilmente non è un caso che il rapper quest’anno si sia ripresentato con lo stesso fare da Vasco dei tempi d’oro, ma giocando proprio con un’estetica iconografica ben precisa, quella dei Santi, e in particolare di San Francesco, perfettamente estetizzato dal tocco magico di Gucci e di Alessandro Michele, il direttore creativo della casa di moda. Spuntare su un palco come quello di Sanremo con addosso un mantello nero di velluto e oro per poi sfilarselo e rimanere quasi nudo, scalzo, tatuato e con indosso solo una tutina in stile Borat trasparente e tempestata di glitter intonando “Me ne frego”, bisogna ammettere, fa il suo effetto. Se poi a questa immagine già carica e audace per il contesto si aggiunge anche in nesso teologico, ossia che si tratta di una citazione al Santo Patrono d’Italia e alle opere di Giotto che lo ritraggono, il risultato non può che arrivare a buon fine: chi ti ama ti amerà ancora di più, e chi ti disprezza non potrà fare a meno di commentare e di darti ulteriore visibilità, tant’è che Lauro è diventato istantaneamente un meme fortissimo, che ha riempito internet con la sua posa da diva, gli occhi truccati e ammiccanti mentre si spoglia, non a caso affiancato ad altre due queen che di recente si sono esibite, JLo e Shakira.
Perché in effetti la scelta di Achille Lauro, denudato ma allo stesso tempo impreziosito da abiti così belli e raffinati da fare uno smacco all’idea secondo cui l’uomo elegante dovrebbe vestirsi in modo formale, da molti su internet è stata interpretata come un vero e proprio punto di svolta per l’abbattimento di un’estetica pregna della cosiddetta “toxic masculinity”. La performance di un ragazzo così a proprio agio nel mostrarsi nudo e coperto di strass, spontaneo nel suo menefreghismo e insieme sorprendentemente sensuale, per le generazioni più giovani che hanno particolarmente a cuore il discorso dell’identità di genere sarà un bel momento da ricordare. Cosa che non si può dire invece di chi interpreta questo tipo di disinibizione come un esempio di cattivo gusto, ma del resto, non sono proprio le reazioni indignate a rendere lo spettacolo di Achille Lauro ancora più divertente?
Non so se si tratti di un gesto e di un’esibizione che rimarranno davvero nella storia. Achille Lauro non è di certo il primo artista a giocare così con il proprio aspetto e con lo stile – anche Renato Zero lo ha fatto, e non va dimenticato – né ha ancora rivoluzionato il mondo della musica italiana in modo particolarmente incisivo. Ma è bravo, perché ha capito come funziona la televisione generalista, il suo pubblico, e sa cosa vuol dire essere veramente pop. Non so cosa significhi essere ribelli oggi in un mondo che per venderti prodotti ti dice che sei unico, diverso, irripetibile, ma so che guardare uno show come Sanremo è più divertente se tra i suoi ospiti c’è qualcuno in grado di renderlo davvero un programma di intrattenimento. Achille Lauro ha giocato con un modo contemporaneo e fluido di vivere il proprio genere e la propria immagine, e già solo per questo merita un premio speciale, che infatti internet gli ha già assegnato. E se ai bigotti non piace, meglio così.