Abbiamo gli strumenti per lavorare di meno e vivere le nostre vite. Ma non li usiamo. - THE VISION
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Nel 1930, a dodici mesi dall’inizio della Grande Depressione, John Maynard Keynes si prese un momento per dare forma scritta alla sua previsione sulle possibilità economiche nel futuro dei suoi nipoti. Nonostante la frustrazione causata dall’ordine economico messo in ginocchio dalla crisi, Keynes rimaneva in qualche modo positivo, affermando che “soggiogati dalla depressione mondiale…non riusciamo a vedere ciò che sta accadendo sotto la superficie”. Nel suo saggio, l’economista britannico predisse che in un arco di 100 anni, ovvero nel 2030, la società avrebbe raggiunto un progresso tale da permettersi di lavorare molto poco. Il problema che nazioni come Gran Bretagna e Stati Uniti si sarebbero trovare ad affrontare sarebbe stata la noia, e le persone si sarebbero trovate a “razionare le ore lavorative in blocchi quotidiani di 3 ore, o 15 ore settimanali, per porvi rimedio”. A prima vista si direbbe che Keynes abbia fatto un pessimo lavoro nel predirre il futuro. Almeno per ora, che ancora lavoriamo 38 ore la settimana.

Keynes ha fama di essere uno dei padri dell’economia moderna, responsabile di gran parte del pensiero odierno riguardo il sistema monetario e fiscale. È famoso anche per non aver mai preso sul serio i colleghi che consideravano solo le ripercussioni sul lungo termine: “Alla fine, saremo tutti morti”, diceva. Quindi all’epoca la sua teoria delle 15 ore settimanali deve essere sembrata molto più realistica di quanto non si sia rivelata in effetti.

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John Maynard Keynes

Se oggi volessimo produrre un volume equivalente a quello coltivato nel 1930 da un contadino contemporaneo a Keynes, non avremmo certo bisogno di 15 ore. Calcolando l’incremento della capacità produttiva, non dovrebbero servire più di sette o otto ore di lavoro. Questo sviluppo produttivo ci è stato donato da un secolo di progresso tecnologico e automazione: oggi possiamo produrre di più, con minore sforzo. In questo senso, le società più avanzate hanno di gran lunga superato le più rosee aspettative di Keynes, dato che ci basta lavorare la metà del tempo per raggiungere il suo stesso tenore di vita.

Il progresso verificatosi negli ultimi 90 anni non è solo apparente se si considera non solo l’efficienza sul posto di lavoro, ma anche quanto tempo libero abbiamo in più. Innanzitutto, la pensione: il patto fatto con sé stessi di lavorare duro da giovani per poter godersi la vecchiaia domani. Nel 1930, la gran parte della popolazione non raggiungeva l’età del pensionamento, sostanzialmente lavoravi fino al tuo ultimo giorno di vita. Oggi, invece, le persone vivono ben oltre l’età della pensione, trascorrendo un terzo della propria vita senza lavorare. Quindi, se si dovesse “spalmare” la mole di lavoro portata a termine in gioventù nell’arco dell’intera vita, raggiungeremmo senza problemi le 25 ore settimanali. C’è un’ulteriore variabile che ci permette di avere più tempo libero: una riduzione nel lavoro domestico. L’ubiquità che ci è stata donata dall’uso di lavatrici, lavastoviglie, aspirapolvere automatici e forni a microonde, fa sì che un cittadino americano medio possa perdere 30 ore di meno nelle faccende domestiche rispetto al 1930. Certo, queste 30 ore non sono automaticamente convertite in tempo libero: nella realtà, buona parte si è trasformata in ulteriore tempo da trascorrere al lavoro, soprattutto per le donne che – sobbarcandosi contemporaneamente la maggior parte degli impegni domestici – si sono unite alla forza lavoro. Ciò che ne risulta, comunque, è il fatto che, grazie al progresso e all’efficienza produttiva, oggi possiamo avere maggiore controllo del nostro tempo.

In effetti, i Paesi economicamente più avanzati già oggi hanno raggiunto (quando non addirittura ecceduto) il massimo della produzione che Keynes aveva predetto, e allora perché un ciclo di lavoro di 30-40 ore settimanali è ancora lo standard? E perché non si riesce ad avvertire il cambiamento? La domanda tocca due aspetti diversi, la natura umana – nella nostra aspettativa di poter avere sempre qualcosa meglio – e la struttura lavorativa che attraversa tutte le società moderne.

Parte della risposta, come detto, sta nell’inflazione dello stile di vita: l’essere umano ha un insaziabile appetito di avere “di più”. Keynes sperava di poter risolvere “il problema economico, il dramma della sussistenza”, ma in pochi accettano davvero l’idea di raggiungere la mera sussistenza. Le persone vivono come fossero su un ascensore edonistico: vogliono arrivare più sù. Rich Westerners potrebbe tranquillamente lavorare 15 ore la settimana, se solo dimenticasse le trappole della modernità: abiti nuovi, e Netflix, e una vacanza oltreoceano. Parlare di beni e consumismo può sembrare sempre la solita solfa, ma questa dimensione può essere adattata ad ogni aspetto della nostra vita. La stessa logica di Netflix si può applicare ai vaccini, ai frigoriferi, alle energie rinnovabili e ad uno spazzolino in offerta. A livello mondiale, le persone accettano una qualità di vita media molto più alta rispetto al 1930 (e questo è più che mai vero nelle società Occidentali, di cui scriveva Keynes). Non saremmo mai soddisfatti di uno stile di vita pari a quello dei nostri nonni.

Molte persone poi hanno impieghi che di per sé sono ben lontani dall’idea di lavorare per la sussistenza. Dato che l’economia è sempre più produttiva, la classe impiegatizia si sta spostando dall’agricoltura e la manifattura all’industria del servizi. Grazie al progresso tecnologico riusciamo a sopperire ai bisogni primari con uno sforzo relativamente marginale, diventando liberi di fare dell’altro. Così oggi ci sono persone che ricoprono il ruolo di psicologo, visual effects artist, contabile, vlogger – tutti lavori che non hanno nulla a che fare con la sopravvivenza materiale. Nei fatti, il mondo del lavoro si è espanso per dar spazio a nuove attività – che non rientravano nelle previsioni di Keynes.

Infine, sono le immutabili diseguaglianze sociali a contribuire al mantenimento di una macchina lavorativa fondata sulle canoniche 40 ore. Molti devono lavorare 30, 40 ore la settimana solo per stare al passo. Come società, nel suo complesso, avremmo la capacità di produrre in abbondanza per tutti, ma nonostante la democratizzazione del benessere materiale, in pochi possono davvero permettersi di lavorare meno. In alcuni Paesi, come gli Stati Uniti, il legame tra produttività e retribuzione si è rotto: questo perché a trarre beneficio dello sviluppo sono unicamente le fasce al vertice della scala sociale. Nel suo saggio Keynes profetizzava l’esatto opposto: un bilanciamento, nel quale le persone lavorassero per permettere il benessere altrui. Oggi questo dovrebbe essere l’obiettivo della rete di assistenza sociale, che nel 1930 non esisteva. Programmi di sicurezza e alloggi sociali permettono alla popolazione di superare lo scoglio del “problema economico” della sopravvivenza, ma sono ancora insufficienti a tirare fuori le persone dalla povertà, e sicuramente inadatte ad andare incontro a quello che Keynes pensava essere una buona qualità della vita.

Nella sua teoria, Keynes disdegnava alcuni dei capisaldi del capitalismo, definendo il denaro “qualcosa di disgustosamente morboso” e lamentandosi del fatto che “esaltasse una delle più disastrose qualità umane”. Ovviamente, queste qualità dell’essere umano – “avarizia e usura e accumulo” – pongono un freno al progresso umano. Ma desiderare il progresso non è certo un male: anche Keynes riconosceva che queste tendenze fossero necessarie ad “uscire dal tunnel della necessità economica”, ad un certo punto, però, avremmo dovuto fermarci e guardare dietro di noi al progresso compiuto. Keynes aveva ragione a proposito dei vantaggi di cui i suoi nipoti avrebbero goduto, ma si sbagliava sulla possibilità che questi avrebbero cambiato gli schemi di lavoro e redistribuzione, che restano invece ostinatamente bloccati. E non ce ne sarebbe bisogno.

Oggi, quantomeno nei Paesi più avanzati, abbiamo la tecnologia e i mezzi per permettere a tutti di lavorare meno, mantenendo la prosperità alla quale ci siamo abituati, se solo fossimo capaci di organizzare anche il nostro lavoro e la società stessa per raggiungere questo obiettivo. La discussione odierna sul mondo del lavoro si concentra su una frivola previsione di robotizzazione totale. La realtà è che probabilmente continueremo ad inventare nuovi lavori per riempire una settimana lavorativa da cinque giorni. La discussione, oggi come oggi, dovrebbe andare oltre le meraviglie della tecnologia, e chiedersi davvero a cosa serve. Perché senza un progetto di benessere comune, senza un modo di distinguere il progresso virtuoso da quello che ci tiene saldamente ancorato all’ascensore edonistico, l’inerzia collettiva che ci guida oggi non ci permetterà mai di raggiungere la tanto agognata settimana lavorativa da 15 ore, come profetizzato da Keynes.

Questo articolo è stato tradotto da Aeon.

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