Con MINI e Deus, l’auto torna a essere segno nel paesaggio, linea nel tempo, estensione della mente - THE VISION
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C’è un’immagine che ritorna, ogni volta che parliamo di auto e di stile di vita: l’auto come estensione del nostro corpo, come gesto, ma anche come linea, segno grafico che taglia lo spazio e il tempo. Un po’ come succede nelle sequenze in cui Wim Wenders riprende i deserti americani in Pairs, Texas o nella libertà ruvida dei cortometraggi sul surf di Taylor Steele, in cui la macchina – al pari della tavola in acqua – non è solo un oggetto, ma un’idea di movimento. È esattamente su quella soglia, in quello spazio sospeso tra gesto, immaginario e materia, progetto e idea, che si colloca la collaborazione tra MINI John Cooper Works e Deus Ex Machina, in quella zona liminale dove la cultura materiale incontra la nostalgia delle corse d’epoca e il bisogno contemporaneo di proiettare la propria identità su un mezzo.

È un incontro tra due comunità che non hanno mai creduto alla neutralità degli oggetti. Per MINI, la macchina è design con un passato glorioso che continua a riverberare: un’icona che ha corso – e vinto – quando la corsa era ancora un atto romantico, artigianale. Per Deus, la moto (e ora l’auto) è un luogo su cui raccontare storie: officine che diventano botteghe rinascimentali, grafiche scolpite a mano, culto per la bellezza dell’imperfezione, vissuta, necessaria. Il risultato è una coppia di one-off – le show car “The Skeg”, elettrica, e “The Machina” – che sembrano uscire da un cortometraggio low-fi sull’ossessione per la velocità e la libertà. “Create come una coppia affini nello spirito, opposte nell’energia”: Realtà che si toccano a distanza, identità che vibrano su frequenze diverse ma che si completano.

Le due MINI nascono così: una plasmata dal mare, l’altra forgiata in pista. Due luoghi simbolici dell’immaginario contemporaneo. La costa – soprattutto quella rievocata dal surf – è diventata una delle nuove mitologie del lifestyle globale: non più solo sport, ma estetica, filosofia, un modo di vivere il paesaggio e di fondersi in esso. La pista, invece, è l’archetipo della tecnica pura, la linea che separa chi guida per andare da qualche parte e chi guida per sentire la strada, solo per il gusto di farlo, di sentire l’asfalto, come chi nuota sente l’acqua. Non a caso The Skeg è ciò che sarebbe successo se la tavola da surf di Miki Dora si fosse reincarnata in un’auto elettrica. È gialla e argento, leggera, traslucida in alcuni punti grazie alla fibra di vetro modellata come si modellano le tavole. Ha uno spoiler che reagisce al flusso d’aria come un rail che taglia l’onda, e un interno che ricorda più un surf shop che l’abitacolo di un’auto. L’elettrico, qui, è silenzio essenziale, una forma diversa di affermazione. È un’auto che guarda a un futuro in cui il design mostra le sue giunture, con cuciture a vista, materiali grezzi, ed estetica raw come antidoto a un mondo che vuole essere sempre più levigato e performativo. C’è dentro un’idea di surf che sembra uscire dai testi di William Finnegan: il mare come luogo di identità, non di posa. Così l’uso della fibra di vetro si fa dichiarazione di appartenenza, orizzonte di valori.

L’altra one-off, The Machina, è invece un manifesto: una MINI JCW che sembra uscita da un film sul motorsport girato negli anni Settanta, tra polvere, olio ed eroi che guidavano con il corpo prima ancora che esistesse una tecnica. Rosso, bianco, nero: la trilogia cromatica delle corse d’epoca. Quattro fari supplementari sul cofano, come nelle Mini che hanno affrontato il Monte Carlo. Un diffusore che cita direttamente il Nürburgring. Cinghie a cinque punti. Pannelli porta ridotti all’osso. Un roll-bar a vista che sembra una dichiarazione d’intenti. The Machina è un’auto fatta per chi ama il suono del motore come si ama un brano punk suonato con l’amplificatore troppo alto che stride. The Machina appartiene a quella cultura che ha costruito il mito di Deus: officine, pelle, alluminio, la tensione tra artigianalità e prestazioni. Un luogo in cui la tecnica si fa storia.

Queste auto non sono solo macchine, ma catalizzatori di esperienze condivise. Ogni dettaglio – dalla leva del freno idraulico oversize alla texture dei pannelli in fibra di vetro, dai badge Deus stampati in 3D ai toggle switch essenziali – racconta un gesto, un’abitudine, un sapere che nasce dalla pratica. Non è un culto estetico fine a sé stesso: è una grammatica che traduce il desiderio di libertà in movimento, il bisogno di autenticità in forma tangibile. Guidare The Skeg o The Machina significa entrare in contatto con un ecosistema culturale fatto di piste, onde, officine e laboratori, dove ogni curva, ogni dettaglio, è un segno di appartenenza e di scelta consapevole. Ogni movimento è visibile, ogni gesto ha ritmo e poesia, e la macchina diventa uno strumento di narrazione, più che un semplice mezzo di trasporto.

Molto di ciò che rende queste due auto degli oggetti culturali – oltre che meccanici – è il lavoro grafico di Matt Willey, partner di Pentagram ed ex art director del New York Times Magazine. Willey e Deus collaborano da anni su un immaginario condiviso: numeri bold, geometrie semplici, pattern da motorsport europeo degli anni Sessanta e Settanta. È un’estetica che funziona perché parla direttamente alla memoria: quella del Rally di Monte Carlo, della Mini numero 37 guidata da Paddy Hopkirk, della cultura racing, ben prima che agli algoritmi. E allo stesso tempo la reinventa attivamente, trasformando riferimenti storici in un linguaggio contemporaneo e immediato. Questa visione condivisa – fatta di velocità, manualità, libertà di movimento – si riflette anche oltre le auto. La capsule collection MINI x Deus ne è la traduzione in abbigliamento: tessuti tecnici, cura sartoriale, dettagli ispirati a surf shop, officine e circuiti. Una cultura visiva che racconta uno stile di vita concreto, fatto di azione, che non ha paura di sporcarsi o di fare.

“La bellezza dell’imperfezione” può sembrare un concetto piccolo, eppure è fondamentale. Perché oggi tutto ciò che è progettato per essere “perfetto” spesso muore prima ancora di esistere. La vera cultura – quella che resiste, che si diffonde attraverso relazioni, sogni e sensibilità condivise – non è un’idea astratta: è concreta, tangibile, viva. In fondo, ciò che ci spinge a seguire queste auto o a indossare questi capi non è solo la bellezza o la performance, ma la sensazione di far parte di qualcosa che ci trascende e ci plasma, un racconto in cui possiamo inserirci e, allo stesso tempo, lasciare la nostra traccia. E così la macchina torna a essere segno nel paesaggio, linea nel tempo, estensione del corpo e della mente: un’inquadratura in movimento che continua, come un film, oltre la fine della scena. Queste auto non parlano solo di futuro tecnologico o di nostalgia del passato, parlano di come scegliamo di muoverci nel mondo e di come raccontiamo, attraverso i gesti e gli oggetti, chi siamo mentre lo facciamo, e dove vogliamo andare. Forse per questo, più che macchine, sembrano due personaggi. E come tutti i migliori personaggi, promettono una storia che è solo all’inizio.


Questo articolo è stato realizzato da THE VISION in collaborazione con MINI, che con le sue scelte di sostenibilità si impegna da tempo per il futuro e per rendere realtà il desiderio di un mondo più sostenibile già nel presente. La nuova gamma di modelli completamente elettrici garantisce una guida senza emissioni locali e, grazie alla combinazione di un design unico, di una tecnologia avanzata e di un’esperienza digitale coinvolgente, porta il DNA di MINI a un nuovo livello.

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