Negli ultimi 25 anni, il numero di adolescenti depressi è aumentato del 70%. Il collegamento tra la diffusione delle malattie mentali e la modernità non è una novità, se ne erano già accorti Foucault e Deleuze negli anni Settanta, che lo ricondussero alle evoluzioni sempre più schizofreniche e intollerabili del sistema industriale capitalistico. Ma mai avrebbero pensato che l’apice del disagio psichico dalla seconda metà del Novecento in poi si sarebbe raggiunto oggi, l’epoca in cui il modello della fabbrica-prigione novecentesca sembra ormai superato, almeno nella nostra fetta di mondo occidentale. E il soggetto colpito non è più Lulù de La classe operaia va in paradiso, ma il ragazzo che passa sì la sua vita al servizio di un’industria capitalistica, ma senza nemmeno rendersene conto. Passa la sua vita a lavorare con lo smartphone.
Una nuova ricerca mette in relazione l’aumento della depressione, dei tentativi di suicidio e dei suicidi nei giovani nati dopo il 1995 e la diffusione degli smartphone e più in particolare dei social network. Ovviamente questo non significa che il cellulare causi disturbi depressivi, le cui origini possono essere moltissime e variare dai fattori genetici a quelli ambientali, come ad esempio la famiglia in cui si cresce, eventi particolarmente segnanti, ma anche le condizioni di vita materiali. Lo smartphone può comunque influire pesantemente su queste ultime variabili, contribuendo ad esempio all’isolamento sociale, al bullismo da parte dei coetanei o addirittura alla privazione del sonno.
Gli adolescenti si sentono sempre più soli e, secondo alcune ricerche, i ventenni sarebbero addirittura più isolati dei pensionati. Lo smartphone può diventare l’unico appiglio per una vita sociale, fagocitando ogni possibilità di conoscere e frequentare altre persone. Si preferisce fare sexting anziché fare sesso, ordinare cibo su Just Eat anziché uscire a mangiare, guardare Netflix anziché andare al cinema. E così gradualmente si smettono di conoscere nuove persone, perché si riducono sempre più le situazioni in cui è possibile farlo. Per alcuni il cellulare e la potenzialità che offre di essere connessi con un mondo altrimenti irraggiungibile diventa l’unica ragione di vita. Secondo un’indagine del Telefono Azzurro, il 17% degli adolescenti non riesce a staccarsi da smartphone e social e 1 su 5 si sveglia durante la notte per controllarli.
Lo smartphone non è la causa di tutti i mali, ma solo uno strumento, come ricorda anche Cesare Guerreschi, psicologo e psicoterapeuta fondatore e presidente della S.I.I.Pa.C., la Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive. Il centro, che ha cinque sedi in tutta Italia, si occupa di terapia delle dipendenze comportamentali e, nonostante sia nato per combattere la dipendenza dal gioco d’azzardo, oggi nella sola sede di Bolzano ha in cura 156 adolescenti per nomofobia, la paura di rimanere sconnessi e lontani dal cellulare.
“Con l’avvento del nuovo millennio e di conseguenza della tecnologia di massa si sono sviluppati nuovi modi di esprimere il disagio,” spiega Guerreschi. “Tutte le dipendenze, comprese le new addictions, hanno alla base un pattern univoco di comportamenti, come ad esempio il craving, che consiste nel desiderio fortissimo e impellente dell’oggetto della dipendenza. Per le tossicodipendenze può essere la spasmodica ricerca della sostanza. Per il cyber-dipendente può essere il costante bisogno di accedere allo smartphone”. Per il nomofobico, stare lontano dal cellulare causa ansia, malessere e rabbia incontrollata.
Le cosiddette nuove dipendenze, dunque, non avrebbero niente di diverso da quelle che siamo abituati a conoscere. Negli anni Ottanta, il consumo di droghe era la risposta generazionale a un tempo convulso e incomprensibile, nonostante le promesse di benessere diffuso dell’edonismo reaganiano. La creazione di una para-realtà allucinogena era il modo più ovvio per sfuggire dalla realtà circostante – questo anche grazie al contributo di un immaginario ribelle alimentato dalla controcultura, soprattutto musicale – e il ritorno sul mercato di eroina e cocaina e l’arrivo delle nuove droghe sintetiche come il crack distrusse un’intera generazione. La dipendenza da smartphone esprime oggi un disagio simile, anche se in modo meno drammatico e palese: come durante l’epidemia del crack, l’economia è in ripresa e i tassi di disoccupazione stabili, ma i giovani continuano a crearsi una realtà parallela, in questo caso virtuale, rifiutando di fare i conti col mondo.
E come negli anni Ottanta, questa realtà altra ha un caro prezzo, anche se a uccidere i giovani non è più l’overdose: dal 2011, i tassi di suicidio tra gli adolescenti sono aumentati in maniera preoccupante. Parallelamente, sono diminuiti altri fattori di rischio, come ad esempio l’abuso di sostanze stupefacenti, di alcool e persino gli incidenti stradali, ma questo non perché improvvisamente i ragazzi siano diventati prudenti o diligenti, ma più semplicemente perché non escono di casa per stare al cellulare. I millennial, insomma, sono più al sicuro di quanto non siano mai stati gli adolescenti di qualsiasi altra epoca. Come riconosce Jean Twenge, che da anni compie studi e ricerche sui nati dopo il 1995 (che lei ha ribattezzato iGen, cioè la generazione che non ricorda il mondo senza internet), in questo anche i genitori ci hanno messo del loro, traducendo un senso asfissiante iperprotettivo nella possibilità di far fare ai ragazzi sostanzialmente quello che vogliono, purché sotto la loro sorveglianza. Vuoi andare in discoteca? Ok, ti ci porto io e me ne sto in un angolo con le altre mamme. Così è caduto anche il mito della ribellione adolescenziale perché si restringono gli spazi di insubordinazione e nei ragazzi langue il desiderio dell’indipendenza. E la mancanza di indipendenza porta all’infelicità.
Nonostante l’apprensione, secondo il dottor Guerreschi i genitori sono comunque distanti e non sono in grado di parlare con i figli: “Il rapporto virtuale ha sostituito il rapporto umano, anche nel rapporto più naturale che è quello con i genitori. Ormai i genitori e i figli comunicano attraverso il cellulare e via chat, senza parlarsi.” Secondo l’indagine di Telefono Azzurro, quattro intervistati su cinque usano i social per comunicare quotidianamente con i propri figli: la cosa paradossale è che i ragazzi si sentono dire in continuazione di mettere via il telefono, quando sono proprio gli adulti ad abusarne, utilizzandolo spesso come unico mezzo di comunicazione con loro. Quasi tutti i giovani pazienti del S.I.I.Pa.C. sono stati portati nel centro dai genitori, e quasi tutti seguono una terapia familiare.
Twenge sostiene inoltre che la segregazione dei teenager non avvenga solo in famiglia, ma soprattutto fra gli amici. Il capostipite dei social, Facebook, si basa sulle amicizie che, seppur virtuali, sono comunque amicizie. Ma i millennial non usano più solo Facebook, usano anche Instagram, dove al numero di amici si sostituisce quello dei follower, una massa ben più numerosa e indistinta. Quindi al desiderio di far parte di un gruppo, di una comunità, si è sostituito il desiderio di fare numero, cioè di non essere lasciati fuori. Il che è un desiderio molto comune nei giovani di ogni epoca, ma che è diventato a senso unico e irrealizzabile: non si tratta più di non essere lasciati fuori dal gruppetto dei più fighi della scuola, ma da un social che conta un miliardo di utenti attivi.
Questo fenomeno a quanto pare colpisce in particolar modo le ragazze, i cui sintomi depressivi sono aumentati del 50% dal 2012 al 2015 e che, secondo Twenge, hanno commesso il maggior numero di suicidi. Le femmine subiscono maggior cyberbullismo (i maschi preferiscono ancora le aggressioni fisiche) e sentono di più la pressione degli standard di bellezza. Quando postano una nuova foto, si legge nella ricerca, controllano ossessivamente il numero dei like raggiunti, non tanto per avere una conferma gratificante sul proprio aspetto, ma per non fare brutta figura con gli altri utenti. Questo provoca un forte senso di ansia, collegato al fatto che “non si può” non postare niente, perché a quel punto significherebbe venire escluse totalmente dalla vita sociale.
Infine, a incidere sulla salute mentale dei giovani smartphone-dipendenti c’è la questione del sonno, che forse può sembrare collaterale o irrilevante, ma che invece è un fattore fondamentale nell’insorgenza della depressione. Il 43% dei teenager dorme meno di sette ore per notte, percentuale che si alza al 51% nel caso dei diciottenni. Guardare il cellulare prima di dormire stimola il cervello e la luce blu dello schermo inibisce la produzione di melatonina, rendendo più difficile l’addormentarsi. L’80% degli adolescenti ammette di usare il cellulare durante la notte, e di svegliarsi appositamente per controllarlo, un fenomeno che viene chiamato vamping.
Insonni, depressi e ansiosi, questi millennial sono il ritratto di una generazione che sconta colpe non sue. Se Deleuze qualche decennio fa individuò nella schizofrenia la malattia capitalista per eccellenza, la depressione è quella del nostro tempo. Non c’è dubbio che i disturbi mentali non siano una faccenda personale, ma collettiva. Non solo la depressione dilaga, ma è anzi diventata tollerabile: il sistema, anziché riconoscere la propria disfunzionalità, fa ricadere tutte le colpe sul singolo, senza considerare la salute mentale una questione e una responsabilità politica.
Gli adolescenti sono tra le prime vittime di questo sistema: non solo lavorano continuamente con il cellulare, nel senso letterale del termine, consumando pubblicità, inserendo dati che vengono elaborati dalle aziende digitali o stando al servizio della sharing economy, ma ne pagano un prezzo altissimo in termini di salute mentale.
Questo non significa che il cellulare sia da demonizzare, anzi: come ci insegnano le tossicodipendenze, il proibizionismo serve a poco o niente. La soluzione potrebbe invece quella di scollegarsi dal sistema, e recuperare i rapporti umani, non solo virtuali. Ma questo non sarà possibile finché non si smetterà di responsabilizzare le persone per i disagi mentali. E così, ai ragazzi si chiederà sempre e soltanto “Ma vuoi mettere via quel cellulare?”, senza mai chiedere una sola volta “Come stai?”.