Breve storia del neoliberismo di David Harvey è uno dei libri più tristi che abbia mai letto. Pubblicato nel 2005 in lingua inglese e tradotto in italiano due anni dopo, è un tentativo riuscito di fornire una panoramica esaustiva e a suo modo pop del fenomeno. Harvey è un noto accademico di studi culturali e in questa breve storia illustra il modo in cui l’ideologia neoliberista ha conquistato istituzioni prima e opinione pubblica poi, lasciando dietro di sé un deserto di sale. L’idea che il miglior modo per perseguire il benessere sia lasciare il più possibile liberi mercati e imprenditori, limitando al minimo l’intervento dello Stato, era una teoria economica al pari di altre, ma a partire dalla seconda metà degli anni Settanta è diventata dominante. Enormi masse di capitali hanno iniziato a girare vorticosamente per il globo, creando ricchezza e poi distruggendola, al punto da indebolire il potere stesso degli stati. Welfare, stili di vita, forme locali di produzione e gestione delle risorse hanno lasciato spazio a un’ideale di esistenza in cui l’unità di misura è il numero di transazioni, o di sneaker. Nessuna struttura di potere, o quasi, si è opposta all’escalation dello strapotere dei privati, anche quando si sono formate palesi situazioni di monopolio – che, teoricamente, è contro le regole – ma i soldi, si sa, quando sono tanti, fanno un po’ quello che vogliono.
Quando si parla di internet governance, ovvero l’insieme delle norme che vengono – o vogliono essere – imposte dalle istituzioni statali alle attività della rete, non si può prescindere da questo quadro economico più ampio. Il mercato del web si è autoregolamentato per un bel po’, creando bolle speculative e giganti potentissimi che hanno fagocitato altri player ed esattamente come tutte le altre multinazionali hanno messo sempre i guadagni prima delle persone. Il caso Cambridge Analytica, che vede protagonista la Big Tech per eccellenza, Facebook, dovrebbe evocare qualche ricordo. L’azienda inglese, all’avanguardia in tecniche di manipolazione e di disinformazione, aveva infatti raccolto i dati personali di 87 milioni di account Facebook – di cui circa 2 milioni in UE – e li aveva usati per scopi di propaganda politica. La rovinosa vittoria di Trump in USA nel 2016 è attribuibile anche alle loro attività. Lo scandalo, nel marzo 2018, ha ucciso per sempre la vecchia idea dei social network come strumenti neutri di libera informazione e democrazia che si era consolidata nel 2011 durante l’illusione della primavera araba. L’opinione pubblica, su scala molto vasta, ha iniziato a farsi domande sul valore dei dati personali e sullo strapotere di certe aziende nell’influenzare le coscienze. Anche la politica ha iniziato a porsi domande sul tema, seppur con grossi limiti tecnici: lo dimostra l’indimenticabile interrogazione di Mark Zuckerberg al Congresso USA.
A livello legislativo, infatti, la questione della regolamentazione delle grandi piattaforme digitali è sempre stata molto spinosa. Le cosiddette Big Tech sono delle multinazionali in chiare situazioni di oligopolio, ma le vecchie regole antitrust non si sono mai dimostrate sufficienti a ridurre il loro enorme peso sui mercati. Sono aziende considerate fino a qualche anno fa “too big to care”, perché hanno guadagnato cifre esorbitanti oltre che un posto in prima fila nella nostra quotidianità. Se infatti non facciamo troppa fatica, volendo, a boicottare McDonald’s o i pompelmi israeliani, rinunciare a certe app è molto più difficile: non esistono motori di ricerca efficaci quanto Google, non esistono social network utili e frequentati quanto Facebook, Instagram o TikTok.
L’Unione Europea, negli ultimi anni, sta cercando di fare da apripista per regolamentare il più possibile il digitale e l’impatto che ha sulla società. Il pacchetto di leggi costituito da DSA e DMA è il più grande regolamento in materia al mondo, entrato definitivamente in vigore a febbraio di quest’anno. Un insieme di norme che mira a creare “uno spazio digitale più sicuro in cui siano protetti i diritti fondamentali degli utenti e a creare condizioni di parità per le imprese”. Tutti, da Google a PornHub passando per l’e-commerce delle verdure a km0, dovranno adeguarsi alle norme approvate dalla Commissione europea nell’ottobre 2022. Anche se le applicazioni non sono ancora chiarissime, l’intento iniziale, secondo quanto dichiarato dalla presidente Ursula von der Leyen, era di rendere “ciò che è illegale offline illegale online”. Il Dsa è stato infatti pensato per bloccare la diffusione di contenuti dannosi o illegali come, per esempio, la promozione dell’odio e della violenza. Promuove una maggiore trasparenza per le pubblicità, e proibisce anche la diffusione di sponsorizzate che hanno come target i minori, o basate su dati sensibili come la religione e l’orientamento sessuale. Inoltre, chiede una maggiore trasparenza sulle modalità di raccolta e conservazione dei dati. In caso di violazione, le piattaforme rischiano una multa che può arrivare fino al 6% del fatturato, oppure, in casi estremi, il divieto di accedere al mercato UE.
Il DSA entra, quindi, anche nel merito dei contenuti, cosa che fino a qualche anno fa sarebbe stata considerata “controversa” e “censoria” – e per alcuni boomer non al corrente della riforma lo è ancora – ma che nell’era dei deep fake, dell’odio e della propaganda capillare si sta rivelando necessaria. Una questione che diventa però molto complessa se pensiamo che negli USA, qualche giorno fa, la Corte suprema ha discusso seriamente se la moderazione dei contenuti che incitano all’odio non fosse una violazione del Primo Emendamento, ovvero della libertà di parola, messa in atto dalle Big Tech “sinistroidi” a danno dell’ala conservatrice. Il dibattito, che potrebbe avere una portata storica, ha raggiunto picchi esilaranti sull’incertezza se assimilare le tech company a dei giornali o a delle compagnie telefoniche, con il giudice Alito che a un certo punto si è chiesto “quanto peserebbe YouTube se fosse un giornale”. Anche ai tempi della cacciata di Donald Trump da Twitter, Facebook e YouTube dopo l’assalto a Capitol Hill, si era discusso a lungo se fosse giusto togliergli voce e lui stesso si era dichiarato “discriminato”.
Eppure, all’alba di internet, quando ha iniziato a diffondersi al di fuori degli ambienti scientifici e militari, la mancata regolamentazione statale era un valore prezioso. Per la cultura hacker degli albori l’idea di potersi muovere nella rete in maniera anonima, di avere un proprio spazio, il cyberspazio, per comunicare liberamente era l’unica via di fuga dalla triste realtà capitalista. Tra gli anni ‘80 e ‘90 si sono creati diversi movimenti tecno-utopisti di sinistra che pensavano di poter boicottare la soffocante comunicazione standard – tv, giornali, radio – grazie alla tecnologia. Fantascienza, fiducia nel futuro e opposizione politica allo status quo in un certo senso si fondevano. Il cyberpunk, nato negli anni Ottanta, era l’epica di queste idee: storie ambientate in un futuro prossimo decadente e ipertecnologico, in cui le grandi multinazionali avevano un dominio assoluto e i protagonisti, in genere gli hacker, trovavano il loro luogo di ribellione in un mondo virtuale parallelo, il cyberspazio appunto – definito poeticamente da Gibson come “un mondo silenzioso”, dove “tutta la comunicazione è digitata”.
Ma i primi attivisti dell’internet libero erano così entusiasti della possibilità di agire in anonimato e della mancanza di regolamentazione da non poter anticipare le minacce poste dal controllo del settore privato. A più di trent’anni di distanza, internet ha tutta un’altra faccia, e la cosiddetta libertà della rete viaggia su due binari paralleli: da una parte la libertà d’espressione – su cui si interroga, appunto, la Corte Suprema USA – dall’altra la schiavitù nei confronti delle piattaforme, che sono ormai delle infrastrutture priamidali che impongono dei modi di essere online con tutte le problematiche che ne conseguono. Freedom House ogni anno analizza lo stato della libertà di espressione online in tutto il mondo. Banalmente, in “Occidente” la situazione è molto migliore rispetto a posti come la Cina, la Russia e l’Arabia Esaudita. Ma se parliamo di piattaforme, la prospettiva non è più così rosea. Insieme alla preoccupazione sugli enormi rischi che i social network pongono per la democrazia – non a caso il DSA europeo arriva alla vigilia del voto di giugno – c’è quella dilagante sulle ripercussioni sulla salute mentale, soprattutto dei più giovani. Casi come quello del Sindaco di New York Eric Adams – che lo scorso gennaio ha definito i social delle “tossine ambientali” e ha annunciato una causa legale – o del Parlamento della Florida – che ha negato ai minorenni la possibilità stessa di usarli – fanno così notizia perché sono pienamente nello spirito del tempo.
Il sogno dell’internet come luogo di libertà, almeno per le masse, si è ufficialmente infranto, e le grandi temutissime multinazionali si sono insinuate anche nella rete, così come nella stessa percezione della realtà e delle relazioni. Il fatto che organismi sovranazionali come l’UE si preoccupino di imporre loro delle regole, oggi, è legittimo tanto quanto legiferare sulle emissioni di CO2 e sullo sfruttamento ambientale. La rete non è molto diversa dall’aria che respiriamo, e pensare di poter fare qualcosa “nel nostro piccolo” per tutelare la democrazia e la salute mentale di milioni di persone è troppo utopico. Esistono ancora pochi idealisti che riescono a scappare dalle solite Big Tech – usano altri social network, come Mastodon, forum di nicchia con grafiche anni Zero, provider di email che tutelano la privacy come Autistici, che offre ad attivisti, gruppi e collettivi anche piattaforme per una comunicazione più libera – ma probabilmente pochissimi di loro, vivendo nel mondo, riescono a non usare Whatsapp per il gruppo di famiglia o a non aprire account fake per vedere cosa postano su Instagram i loro ex.