C’è un compito a cui in questo periodo mi forzo a giorni alterni ed è quello di dedicare cinque minuti a ripercorrere mentalmente un’opera d’arte – sia essa un libro, un film o un’installazione – per scacciare il malumore che mi prende quando mi accorgo di avere difficoltà a ricordare le cose. Prima cerco di descriverla dettagliatamente e nella maniera più tecnica possibile, come servisse per il catalogo di un inventario; poi provo a far riaffiorare le sensazioni a livello emotivo, le memorie associate. Non sempre le immagini sono nitide. Spesso il ricordo di un oggetto – o meglio, della sua esperienza – dà il via a una reazione a catena per cui una mostra finisce per farmi iniziare a cantare una canzone che a sua volta evoca la scena di una pellicola. Nonostante la sensazione comune e all’apparenza più condivisa quando si parla di supporti culturali sia quella di riferirsi esclusivamente a libri, film, serie tv, sculture e dipinti, per me le immagini più nette sono invece quelle dei videogiochi.
Se di Grandi speranze di Charles Dickens so per certo di averne parlato a lungo come di un capolavoro, ma non riuscirei a nominare un singolo personaggio senza l’aiuto della quarta di copertina, delle avventure di Guybrush Threepwood in The Curse of Monkey Island potrei ancora ripetere le battute con cui sfidava il pirata fantasma Le Chuck. Non solo perché il gioco era così difficile per un bambino della mia età da aver imparato a memoria i trucchi e le soluzioni che, barando, mi permettevano di proseguire nella storia, ma anche perché nella mia esperienza i videogame hanno sempre avuto una dimensione più collettiva che individuale. Certo, l’attenzione attiva e l’immedesimazione che richiedono – maggiore per esempio a quella di un film, dove ci si può distrarre senza rischiare il game over – hanno avuto un ruolo fondamentale, ma a influire è il collegamento tra l’immagine di un videogioco e quella di mio padre, che mi aiutava a risolverne i tranelli, o di mio fratello, con cui ci si sfidava a colpi di karatè. “I videogiochi possono essere un adorabile stupido passatempo che riempie i vuoti delle nostre anime, una catarsi della violenza che ci circonda, un’esperienza psicoanalitica, un commento politico, un passatempo furbescamente bilanciato per fregarci soldi senza che ce ne accorgiamo troppo, una fonte di isolamento o di avvicinamento all’altro, sono un linguaggio nuovo e uno drammaticamente derivativo, con l’ansia perenne di confrontarsi col cinema ma pronto a scavalcarlo”, scrive il giornalista e scrittore Lorenzo Fantoni nel saggio Vivere mille vite – Storia familiare dei videogiochi. “Nessun’altra forma di espressione dell’uomo è tanto interdisciplinare e drasticamente varia negli intenti quanto il videogioco, a cui si aggiunge spesso il sacro terrore di essere qualcosa a cui dobbiamo prendere parte”.
Se nel 1983 un articolo del New York Times intitolato L’industria dei videogiochi torna sulla Terra descriveva i videogame come qualcosa che aveva ormai fatto il suo corso e sarebbe passato presto definitivamente di moda – il crash che in quell’anno colpì più gli Stati Uniti e il Giappone che l’Europa, dove le console erano arrivate in ritardo, ridimensionò il settore per un breve periodo –, oggi l’industria videoludica sta vivendo una crescita senza eguali. Secondo un report di Accenture pubblicato lo scorso aprile, il suo valore supera i 300 miliardi di dollari, una stima molto superiore a quelle condivise in precedenza e maggiore della somma del settore video e musicale insieme. L’indotto deriva per 200 miliardi dalla spesa diretta per console, software, abbonamenti, acquisti in-game e ricavi pubblicitari su mobile, e per 100 miliardi da settori adiacenti come dispositivi mobili, PC da gamer e periferiche. Nella sola regione Emea (acronimo dell’inglese Europe, Middle East, and Africa), la società di analisi di mercato IDC prevede una crescita media annuale del 5,8% dei notebook gaming, che restano i preferiti tra i videogiocatori. Merito anche delle loro caratteristiche sempre più all’avanguardia. MSI, il brand di riferimento fra gli appassionati e i professionisti del mondo del gaming, prevede per esempio dei laptop forniti di un audio particolarmente immersivo e dotati di tecnologie capaci di rendere l’esperienza di gioco più piacevole e realistica e ottimizzare ulteriormente le performance. Solo negli ultimi tre anni, poi, il numero di giocatori è aumentato di mezzo miliardo, per un totale di circa 2,7 miliardi di persone a livello globale. Stando ad Accenture, nel 2023 dovrebbero aggiungersi oltre 400 milioni ulteriori nuovi giocatori. A cambiare, inoltre, non è solo la dimensione del settore, ma anche il profilo di chi gioca. I nuovi giocatori sono infatti al 60% donne, solo il 30% ha meno di 25 anni e un terzo si identifica come non bianco. Una rivoluzione per una realtà che a lungo è stata – ed è – considerata dominio di maschi occidentali, e che da tempo richiede anche un cambio di passo a livello di rappresentazione.
A giocare un ruolo cruciale è stata anche l’emergenza sanitaria, quando sempre più persone hanno trovato nei videogiochi non solo una fuga dalla realtà ma uno strumento di interazione sociale: in Italia un videogiocatore su quattro si è sentito meno isolato dal mondo grazie agli scambi online con altri gamer, mentre il 23%, grazie ai videogiochi, è potuto restare connesso con i propri amici, percentuale che raggiunge il 48% per i giochi multiplayer. Fuggendo da una quotidianità solitaria ed egoriferita, le console hanno dato alle persone una forma di intrattenimento realizzabile in casa senza correre alcun rischio, in cui ammortizzare il peso psicologico e la tensione del periodo, e che permettesse di tenere vivi i legami a distanza. Non è un caso che nel 2020 il mercato dei videogame in Italia abbia sviluppato un giro d’affari di quasi 2,2 miliardi di euro, crescendo del +21,9% rispetto al 2019 e raddoppiando i dati del 2016. A crescere sono state le dimensioni stesse dell’industria, che secondo un censimento dell’IIDEA, l’associazione di categoria dell’industria italiana dei videogiochi, oggi conta oltre 1.600 sviluppatori e 160 studi. Nonostante il pubblico in crescita e i numeri di successo, persiste però una certa ritrosia radicata in una narrazione stereotipata che alimenta uno stigma e una retorica che demonizza i videogiochi, raramente poggiando su dati fattuali.
Per confutare lo stigma che subiscono da decenni, diversi studi e applicazioni ne provano l’utilità. Alcuni generi di videogiochi, come quelli d’azione, richiedono decisioni rapide, una grande attenzione visiva mantenuta nel tempo, la capacità di passare tra diverse soglie di concentrazione e di prevedere rapidamente le conseguenze di una scelta o un’azione. Altri, oltre che al divertimento, tornano utili nella didattica e nella formazione, in alcune attività terapeutiche legate all’ambito sanitario, ma anche per raggiungere obiettivi all’apparenza molto distanti, come la promozione di un territorio. Le strategie possono essere varie: si va dall’utilizzare un luogo reale come ambientazione di un videogame di successo all’utilizzo di elementi mutuati dai giochi e delle tecniche di game design in contesti non ludici.
L’Unione europea, per esempio, ha finanziato il progetto MedGaims, che coinvolge Italia, Libano, Giordania e Spagna, per rivoluzionare la tradizionale visita ai siti culturali grazie a nuovi tipi di fruizione che consentano un’immersione più intensa nella storia e nella cultura del luogo grazie alla duplice esperienza reale e virtuale. Inoltre, identificazione e mondi finzionali possono essere sfruttati non solo per valorizzare spazi reali, ma anche per affrontare tematiche come cambiamento e innovazione sociale, per immaginare futuri possibili o ricostruire patrimoni storico artistici perduti. Come spiega Fantoni, “il dibattito su cosa effettivamente sia un ‘videogame’ è tutt’altro che chiuso, e questo accade perché il medium si è espanso tanto da abbracciare esperienze profondamente diverse tra loro”. A trarne vantaggio può essere anche la scienza. La pandemia di Covid-19 ha infatti dimostrato quanto la comunicazione scientifica presenti delle criticità dovute all’incapacità di rivolgersi a una platea ampia e poco specializzata. Trasformare concetti complessi in informazioni comprensibili da tutti e tutte deve essere uno degli obiettivi principali di qualunque comunicazione, ancor di più se afferente la collettività e la sua tutela. In questo senso, oltre a rendere più semplice l’autoapprendimento, i Serious Games rappresentano uno strumento utile a trasferire conoscenza mantenendo alti livelli di engagement e risultati efficienti, e dei dispositivi di supporto all’altezza delle sfide che l’alfabetizzazione digitale deve oggi affrontare.
Numeri alla mano, quello del gaming si conferma sempre più un settore audace e creativo, giovane, in età evolutiva ma già ad alto tasso di innovazione, con forti capacità di espansione. Secondo una stima del Censis, se si ipotizzasse un investimento quinquennale nel settore pari a 45 milioni di euro, cioè quanto previsto dal Pnrr alla voce “finanziamento piattaforme di servizi digitali per gli sviluppatori e imprese culturali”, si otterrebbe nel 2026 un fatturato cumulato pari a 1,7 miliardi di euro, 500 milioni in più di quelli previsti in assenza di un investimento pubblico. Ancora più importante, si creerebbero mille nuovi posti di lavoro qualificati, in prevalenza per giovani. In Italia si fa ancora fatica a capirne le potenzialità, ma qualcosa si sta muovendo in questa direzione. Nel 2020 è stato istituito il First Playable Fund, il fondo MISE per il finanziamento di prototipi di nuovi videogiochi commerciali, ma lo sportello, con una dotazione iniziale di 4 milioni di euro, è stato chiuso in meno di tre ore per esaurimento delle risorse. La distanza con altri Paesi europei è inoltre ancora molta. Negli ultimi cinque anni in Francia sono stati stanziati 175 milioni di euro e nel Regno Unito 348 milioni di sterline, mentre nel 2019 la Germania ha istituito un fondo di finanziamento pari a 50 milioni annui fino al 2024. Anche in Italia, questo settore può diventare protagonista del rilancio economico del Paese e della creazione di nuova occupazione di qualità. Sviluppo e gaming sono un binomio significante e da valorizzare. Sta tutto nel fidarsi del talento e della creatività degli sviluppatori italiani mettendo da parte i propri pregiudizi.
Questo articolo è realizzato da THE VISION in collaborazione con MSI, tra i principali colossi nel settore dell’Information Technology e del gaming a livello globale, oggi sinonimo di costante ricerca di qualità e design avanzato. Grazie a laptop progettati specificatamente per gamer, content creator, professionisti di vari settori e studenti, MSI realizza soluzioni tecnologiche all’avanguardia ed è impegnata in prima linea anche nel settore dell’intelligenza artificiale, della realtà virtuale, del metaverso e dell’Internet of Things.
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