Verso un’ecologia della cultura - THE VISION
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Quanti meme vedi ogni giorno? Ogni giorno in media un adolescente osserva tra i 100 e i 200 meme su internet. In casi particolari, ma non così rari, si può arrivare anche oltre i 600 o addirittura ai mille. 

Il meme è qualcosa di leggermente più complesso di una semplice immagine divertente, e in molti iniziano a sospettare la sua responsabilità nel diffondere anche messaggi di odio e teorie complottiste, come dimostra la galassia dei forum suprematisti che si rifanno al modello 4chan. Nel 1976 il biologo evoluzionista Richard Dawkins pubblica Il Gene Egoista, una pietra miliare di riduzionismo scientifico (da molti giudicato eccessivo) che illustra la visione “genecentrica” della teoria dell’evoluzione. Nell’ultimo capitolo di questo acclamato e contestato libro, Dawkins conia il termine “meme”, parlando di una unità di informazione generica, corrispettivo culturale del “gene” biologico. Da questa piccola assunzione, si sono aperte le porte al campo disciplinare della “memetica”, che si occupa di studiare i memi (dal greco μίμημα, mímēma, “imitazione”), ovvero piccole unità informative di ogni tipo. Questo tipo di visione delle informazioni vede la favola di Cappuccetto Rosso, l’appellativo colloquiale “zio” e i balletti del videogioco Fortnite come oggetti di studio, stringhe di nozioni che nascono, si riproducono, muoiono ed evolvono. Sebbene la memetica abbia ovvie e numerose limitazioni, i modelli di diffusione dei memi sono studiati da scienziati e aziende pubblicitarie, fornendo una prospettiva su cui vale la pena riflettere.

Il parallelismo biologico con queste unità informazionali è molto calzante. Quando un meme si propaga, si sta sostanzialmente riproducendo come un virus e va incontro a una mutazione, casuale o meno. Se un amico mi manda una foto buffa e io ne modifico la dicitura, ci troviamo di fronte a una sua evoluzione. Se questa rende il meme più divertente e “appetibile” il suo “successo riproduttivo” aumenta. Magari diventerà più diffuso il mio meme che quello ricevuto dal mio amico, instaurando una sorta di competizione per la sua diffusione. Quando diciamo “virale”, a livello inconscio facciamo un uso molto corretto della accezione medico-patologica del termine, confermata in diversi studi scientifici che hanno osservato come la diffusione di meme su internet segua ritmi analoghi alla diffusione dei virus biologici.

La nostra società è già stata e continua a essere modellata dai “memi”, dato che nella categoria rientrano conoscenze anche ataviche come cuocere la carne, usare le posate e ricambiare i favori ricevuti. Il fatto che l’essere umano si evolva su almeno due piani differenti ma paralleli è noto da tempo: già nel 1981 il genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza aveva illustrato il rapporto strettissimo tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale, fenomeno fondamentale e non esclusivo dell’essere umano. Perché si possa parlare di evoluzione culturale è infatti necessaria l’esistenza di apprendimento e comunicazione tra gli individui che vi partecipano. Per quanto riguarda gli animali, gli etologi parlano spesso di “precultura”, ma si tratta di un fenomeno molto simile.

Il carattere imitativo del meme rende la diffusione di queste unità informazionali molto semplice. Un esempio sono i cuccioli di scimpanzé che imitano i genitori nell’uso di utensili, costruendo un’eredità culturale che si trasmette nel tempo, cresce e si rimodella, perché è un elemento dinamico. Per questo nuovi memi si aggiungono, mutano e vengono trasmessi attraverso le generazioni, ma molti si estinguono o scompaiono perché “selezionati naturalmente” dalle circostanze.

Quasi nessuno oggi indossa più i corsetti alla moda nel Diciassettesimo secolo: in maniera lenta e indiretta il loro concetto – meme – è mutato ed evoluto nel tempo fino al suo attuale utilizzo medico o di moda ricercata. Creare e trasmettere un meme può avere un impatto enorme. Il banale esempio dell’idea avuta da un ominide di battere due pietre per ottenere lame di selce ha dato inizio a una serie di eventi imprevedibili, che ha portato a homo sempre più habilis fino alle civiltà dei moderni sapiens. Quando il medico ungherese Ignác Semmelweis nel 1847 comprese che per salvare un maggior numero di partorienti dalla febbre puerperale bastava lavarsi le mani prima di ogni intervento e cambiare spesso le lenzuola sporche con quelle pulite, la sua fu pura intuizione (Pasteur dimostrerà le contaminazioni batteriche solo nel 1879) e fu talmente osteggiata dalla comunità scientifica che gli costò complessi di inferiorità e l’internamento in clinica psichiatrica. Eppure la sua semplice idea si diffuse silenziosamente ovunque, ponendo le basi per molti protocolli igienici della chirurgia moderna.

Oggi ci sono grandi pericoli derivanti dal costante bombardamento di meme di internet e dalla loro viralità. La nostra capacità di filtraggio viene infatti messa a dura prova dalla trasmissione “orizzontale” dei memi, che si dividono in due gruppi a seconda dell’iter di diffusione. Quando viene trasmesso dalla generazione precedente si parla di trasmissione “verticale”, quella che ci fa comportare in modo simile ai nostri genitori. Questo tipo di trasmissione si sta riducendo sempre di più nel suo impatto sociale, dato che si trascorre più tempo con i coetanei che con persone più anziane.

Qui entra in gioco la trasmissione “orizzontale” tra individui della stessa generazione, che è sempre più incisiva. I social network e i media amplificano esponenzialmente la pressione tra pari a cui siamo soggetti e facilitano la condivisione limitando e rendendo sempre più difficile filtrare tutte queste informazioni. Su internet ogni sorta di informazione è reperibile con facilità e in poco tempo. Il proliferare di notizie false o “fake news” è dovuto anche a un problema di filtraggio di chi le consuma, per la fatica che comporta selezionarle e verificarle. La mente umana è di scarso aiuto in questo, a causa di fenomeni cognitivi (e non patologici) chiamati bias.

Un bias molto comune è quello “di conferma”, che ci fa prediligere le informazioni che avvalorano le nostre ipotesi. Se, per esempio, siamo amanti del pesto tenderemo a notare maggiormente gli articoli online che esaltano il pesto sopra tutti gli altri tipi di condimento, a prescindere dalla soggettività del gusto. In sé non è la preferenza tra pesto o ragù a essere pericolosa, ma il meccanismo che guida la scelta. Se dovrò decidere tra medicina pseudo-scientifica e medicina scientifica non è detto che sarò in grado di rendermi conto dell’efficacia delle due e compararle con una riflessione razionale e critica, ma rischio di scegliere in base a meccanismi di conferma che filtrano il flusso di notizie che ricevo.

Per questo quando condividiamo una notizia dovremmo essere più consapevoli delle conseguenze delle nostre azioni e del rischio di immettere nel nostro habitat culturale una specie pericolosa e virale. Una questione molto seria della viralità dei memi è infatti la riduzione di biodiversità o, se vogliamo, di info-diversità.

L’appiattimento della diversità culturale è un problema epidemico serio che genera stereotipi dannosi e limita l’innovazione e lo scambio. Al riguardo si è espresso anche l’antropologo Claude Lévi-Strauss in Razza e storia (pubblicato nel 1952 per l’Unesco), definendo i pericoli dell’omogeneizzazione culturale come l’abbattimento dei “gradienti culturali” che per assenza di diversità impediscono lo scambio di informazioni. Nel successivo Tristi tropici (1955) si mostra ancora più pessimista, individuando nell’appiattimento culturale un destino inevitabile. Come l’entropia fisica porta a una morte termica dell’universo a causa dell’assenza di differenze di temperatura tra i corpi, che non scambiano più calore poiché tutti alla stessa temperatura, così in assenza di info-diversità svanisce il “gradiente culturale” necessario allo scambio e all’innovazione.

Le basi neurofisiologiche di queste due problematiche sono i rafforzamenti dei cosiddetti pathway neuronali (percorsi neuronali). Come la strada che il viaggiatore percorre più probabilmente in una foresta è quella dove l’erba è stata già battuta da altri viaggiatori, così i neuroni scambiano più spesso segnali dove lo hanno già fatto, e tendono a ripetersi perché lo scambio costerà loro meno fatica data “l’abitudine”. Per questo se vedo spesso un meme in cui si associa – anche solo con intento ironico – il concetto di persona di colore a persona dall’intelletto inferiore, ho più probabilità di iniziare lentamente a pensarlo davvero. L’esposizione ripetuta a determinati memi ci rende più vulnerabili al loro contenuto di quanto immaginiamo. Di recente è emerso che i moderatori di Facebook finiscono molto più spesso della media per credere ai contenuti complottisti e razzisti che dovrebbero monitorare.

Per evitare danni non possiamo rimandare di investire in una maggiore educazione al filtraggio, nel senso critico e in una presa di coscienza sulle responsabilità che ognuno di noi ha nel condividere contenuti, non solo sul web. Per scongiurare il disastro ecologico della nostra infosfera serve studiare la propagazione dei memi e le sue conseguenze. L’equilibrio tra diffusione e filtraggio delle nozioni è l’unica cosa che può metterci al sicuro da una vera e propria emergenza culturale.

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