Tra il 2020 e il 2021 si è tenuto presso il Castello di Rivoli – Museo d’arte contemporanea un programma di ricerca e attività intitolato Digital PTSD. La pratica artistica e il suo impatto sul trauma digitale. Questo programma online di conferenze, interventi e conversazioni – a cui hanno partecipato artisti, studiosi di intelligenze artificiali, scienze cognitive e scrittori, ma anche neuroscienziati e filosofi dei media – voleva proporre un’indagine “sulle possibili forme attraverso cui un trauma da iper-digitalizzazione potrebbe manifestarsi nell’epoca contemporanea”, domandandosi quali effetti potenzialmente traumatici potrebbe avere il digital overload sulla soggettività e sul corpo sociale. Conseguenze che si riverserebbero anche sulle strutture sociali e le gerarchie di potere, proprio a causa di questa progressiva erosione fisica della realtà in un nuovo regime epistemico digitale. Nel complesso, il progetto non cercava certo di negare il potenziale delle tecnologie digitali in termini di scambio e di sviluppo creativo, ma riflettendo su un loro potenziale abuso puntava a chiedersi quali possano essere buone pratiche di lavoro nella sfera digitale, in grado di valorizzarla come campo d’azione complementare – e non secondario – rispetto alla dimensione fisica, aiutandoci ad affrontare il presente e prepararci al futuro.
In questo senso, sia nel mondo dell’arte che in quello della progettazione politica, sociale ed economica, è sempre più evidente la necessità di problematizzare la nostra relazione con le tecnologie e il loro utilizzo, al di là di dicotomie polarizzanti. I momenti di transizione radicale, come quello che stiamo vivendo, sono sempre dominati dallo smantellamento di gerarchie e funzioni culturali prestabilite, necessario a riallineare il pensiero collettivo a una realtà profondamente trasformata. Il digitale è ovunque: dall’infrastruttura che utilizziamo per navigare nel mondo agli oggetti che adoperiamo per comunicare. Assumersi la responsabilità di sollecitare un modo diverso di costruire e leggere i confini della realtà contemporanea significa porci seriamente il problema della trasformazione dei mezzi con cui la raccontiamo e immaginiamo. Per evitare che gli strumenti digitali si trasformino in una limitazione della nostra autonomia dobbiamo imparare a estrapolare il loro potenziale per cambiare il modo in cui progettiamo, costruiamo e abitiamo il nostro mondo generando così un futuro più sostenibile.
Quando si tratta di dare forma al nostro futuro comune, tuttavia, è sempre più difficile stabilire che cosa sia meglio, quale possa essere il migliore dei mondi possibili e quali i mezzi con cui realizzarlo. Scienziati, politici, economisti, attivisti e cittadini hanno di volta in volta dato risposte molto diverse a queste domande, per non dire visioni talvolta contrastanti, in particolare su cosa significhi davvero “migliore”, spiega la designer e artista Alexandra Daisy Ginsberg. Per ideare una realtà diversa e poi agire per realizzarla, prosegue, dobbiamo prima definire quale sia il mondo migliore che vogliamo: il design e la progettazione, insieme alle nuove tecnologie digitali, sono gli strumenti ideali per riflettere sulle condizioni che potrebbero renderlo realizzabile, desiderabile o, al contrario, evitabile. È possibile poi fondere questo tipo di ispirazioni con impegni concreti grazie agli strumenti digitali a nostra disposizione: notebook sempre più performanti, come quelli delle linee Creator e Creator Pro di MSI, offrendo performance grafiche di altissimo livello assicurano la massima produttività nel processo di creazione, supportando complessi software di modellazione 3D e quindi rendering più impegnativi. Ciò può consentire, ad esempio, di creare spazi ibridi in cui sperimentare questa idea di “migliore”, in grado di replicare al contempo il mondo reale e generare scenari per la prima volta immaginabili non solo in termini di progettazione, ma anche in termini di esperienze percettive e di connessioni temporali. Per trovare nuove vie e costruire il nostro futuro collettivo dobbiamo affidarci ad atti progettuali e poietici, capaci di sostenerci in questa risintonizzazione e oltrepassare i nostri limiti, convertendo l’astrazione del futuro nella concretezza del presente.
Anne Asensio, vice presidente di Design Experience per Dassault Systemès, sostiene ad esempio che i “gemelli digitali”, ovvero controparti virtuali di oggetti o processi del mondo reale, rappresentino un banco di prova ideale in cui poter esplorare e studiare l’intero ciclo di vita di un prodotto, un servizio o un’esperienza, anticipando l’impatto dei miglioramenti proposti o dei cambiamenti imprevisti. Il concetto di gemelli digitali esiste ormai da tempo e la NASA è stata pioniera di questo modello di sviluppo dinamico che consente di comunicare in modalità sincronica (in tempo reale) e asincronica (in tempi successivi) con la sua parte fisica permettendo di migliorarne le prestazioni e i comportamenti. Secondo Asensio, il suo utilizzo continuerà a crescere in modo esponenziale nella pratica di architetti e designer che potranno adoperarlo per ideare nuovi modi di progettare le città, ottimizzare i sistemi di trasporto al suo interno, ridisegnare gli edifici per renderli sempre più resilienti alle nuove condizioni climatiche e alla possibili calamità naturali, sfruttando le sue possibilità di co-progettazione immersiva.
Il progetto Moon Village – dello studio di architettura Skidmore, Owings & Merrill (SOM) sviluppato in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e il Massachusetts Institute of Technology (MIT) presentato alla Biennale di Architettura del 2021 – combina l’esperienza dell’industria aerospaziale con le conoscenze dell’architettura, dell’urbanistica e delle scienze biologiche e geologiche contemporanee per creare un insediamento permanente sulla Luna grazie al quale gli esseri umani saranno in grado di sopravvivere e prosperare. La finalità del progetto non emerge soltanto nella creazione di insediamenti confortevoli e autosufficienti per garantire una presenza umana stabile sulla Luna, ma nello sviluppo di nuove tecnologie e strategie di coesistenza e utilizzo delle risorse che potranno eventualmente essere applicate anche in aree sempre meno ospitali della Terra. Il design computazionale e i modelli di simulazione digitale, in questo caso, forniscono una piattaforma unica per lo sviluppo, l’implementazione e la visualizzazione dei moduli abitativi e dei processi necessari al loro funzionamento, oltre alla previsione delle loro capacità di crescita. Ma l’integrazione di questi strumenti all’interno dei processi di progettazione, piuttosto che di semplice presentazione, assume un rilievo ancora maggiore quando consente di creare mondi “altri”, che non sono necessariamente il riflesso del nostro o incentrati su prospettive e bisogni esclusivamente umani.
Cercando di sfatare l’idea che “ciò che è meglio per gli uomini lo sia anche per il pianeta e riflettendo in modo critico su cosa significhi davvero ‘mondo migliore’”, specialmente nell’ottica della colonizzazione interplanetaria, la designer e artista Alexandra Daisy Ginsberg ha a lungo cercato nuove prospettive e alternative a questi sogni umani di colonizzazione. La sua installazione The Wilding of Mars, partendo dall’idea che la nostra innata attitudine allo sfruttamento causerebbe la devastazione di Marte così come della Terra, vuole sfidare l’assunto che il risultato della colonizzazione spaziale debba essere a esclusivo beneficio umano, proponendo invece che siano fiori e piante, una natura selvaggia quindi, a prosperare sul pianeta rosso portandovi nuova vita.
Nell’installazione presentata al Design Museum alcuni schermi mostrano le simulazioni della crescita di queste piante terrestri che disseminano le varie regioni di Marte: “vediamo questo giardino selvaggio prosperare per millenni, diffondersi gradualmente man mano che le condizioni della loro sopravvivenza diventano più tollerabili e simili all’ecosistema globale di provenienza fino ad adattarsi replicando i meccanismi di vita a noi conosciuti”. Da queste simulazioni proiettate in contemporanea emergono infiniti mondi possibili, infinite variabili che la vita potrebbe prendere, proprio come è successo qui, sul nostro pianeta. La possibilità di visualizzare quasi voyeristicamente una colonizzazione artificiale da cui siamo esclusi, scrive Ginsberg, ha l’enorme vantaggio di trovare punti di congiunzione e connessione con il nostro presente, parlando direttamente alle nostre responsabilità nella contaminazione irreversibile degli ecosistemi terrestri. In quest’ottica, i rendering, le simulazioni e le modellazioni 3D che oggi, grazie allo sviluppo tecnologico e digitale, abbiamo a disposizione, vogliono essere l’innesco di un vero e proprio “sublime tecnologico” che suggerisca nuovi modi di agire e comportarsi. Le nostre aspirazioni infatti, che in quanto tali sono libere e svincolate dal mondo fisico, sono il nostro più grande potere. Ci hanno consentito di costruire la nostra civiltà proprio grazie al legame che sussiste tra ciò che siamo in grado di immaginare e la sua traduzione in realtà.
Ma il potenziale trasformativo dischiuso da queste innovazioni tecnologiche non si esaurisce nell’esplorazione del futuro: uno degli aspetti più straordinari consiste nell’elaborazione di strategie di interazione non lineare con il tempo, che consente di far esperienza di ciò che del passato non esiste più. Resurrecting the Sublime, ad esempio, è un progetto di ricerca interdisciplinare nato dalla collaborazione di Ginsberg e l’artista Sissel Tolaas con il supporto dell’azienda di biotecnologie Ginko Bioworks, che ha sequenziato il DNA di tre specie di fiori estinti per estrarne le molecole di profumo e riprodurne la fragranza. L’installazione immersiva progettata consentiva di rivivere questi odori nel loro habitat originario ricostruito digitalmente, tra pendici vulcaniche boscose, montagne e fiumi selvaggi, rivelando uno scorcio di natura perduta, non più esperibile nei suoi odori e intrecci di specie. Questi paesaggi artificialmente costruiti – o animali nel caso del rinoceronte bianco di The Substitute – sono dei veri e propri strumenti pedagogici, perché rievocando e sottolineando la molteplicità e la contingenza delle nostre esperienze ci aiutano a comprendere davvero cosa significhi “conservare” quanto di più prezioso vi è dei nostri legami con le varie epoche, ovvero gli intrecci con tutte quelle forme di vita che da sempre ci accompagnano e che hanno reso la nostra stessa esistenza possibile.
Le moderne tecnologie hanno portato e porteranno profondi cambiamenti nel nostro modo di vivere, ma sarebbe un’illusione credere che possano metterci al riparo dalla necessità di compiere scelte complesse nel presente. Siamo giunti a un punto da cui possiamo vedere gli effetti delle nostre azioni e le loro probabili conseguenze nel futuro con grande precisione, ma le previsioni quantitative non sembrano essere sufficienti. L’unico modo che abbiamo per agire consapevolmente è comprendere come il passato, così come i “futuri possibili”, abbiano la capacità di influenzare le nostre scelte di oggi. Al tempo stesso, però, se è vero che impariamo a esistere e progredire grazie ad alleanze e collaborazioni con ciò che ci circonda, dobbiamo imparare a rinegoziare la nostra relazione evolutiva con l’ambiente, in maniera più sana e consapevole, e in questo la realtà aumentata, le simulazioni e il modeling possono essere sì preziosi alleati.
Questo articolo è realizzato da THE VISION in collaborazione con MSI, tra i principali colossi nel settore dell’Information Technology e del gaming a livello globale, oggi sinonimo di costante ricerca di qualità e design avanzato. Grazie a laptop progettati specificatamente per gamer, content creator, professionisti di vari settori e studenti, MSI realizza soluzioni tecnologiche all’avanguardia ed è impegnata in prima linea anche nel settore dell’intelligenza artificiale, della realtà virtuale, del metaverso e dell’Internet of Things.
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