Sono finiti i tempi in cui associavamo l’online dating a squallide chat room dove cinquantenni rintanati nel buio della loro stanza si fingevano ragazzine spregiudicate e desiderose di fare nuove conoscenze. Trovarsi a cena con il proprio match di Tinder è perfettamente normale, e quando capita di dire a qualcuno che ci si è conosciuti su una piattaforma online che ti permette di chattare con uno sconosciuto, nessuno s’immagina come scenario di partenza quella famosa chat room che pullula di pervertiti. Fino a non molto tempo fa, le dating app si trascinavano anche l’insidioso pregiudizio di essere state pensate a uso e consumo di chi non è proprio un campione in ambito sentimentale. Come a dire, ma davvero non riesci a trovarti qualcuno con cui uscire nella vita reale? Il motivo per cui questi pregiudizi nei confronti del mondo degli appuntamenti tra utenti di un’app sono ormai destinati all’estinzione è riconducibile proprio al presupposto su cui si basano: Tinder, e tutti i suoi simili, infatti, creano match, apprezzamenti reciproci che escludono quella dinamica univoca da maniaco in caccia di prede. Se c’è un match vuol dire che entrambe le persone si sono in qualche modo piaciute, un escamotage per evitare quello storico imbarazzo di dover dire a qualcuno che ci interessa e non dover dire a qualcun altro che invece non è così.
Eppure, nonostante la trovata geniale che sta di fatto cambiando il nostro approccio al rimorchio, ci sono ancora degli intoppi nel modo in cui ci poniamo rispetto alla dinamica dell’online dating. È la famosa storia delle ragazze che se la tirano e dei ragazzi che sono pressanti, tradotta in linguaggio telematico: lei non risponde ai messaggi, lui la inonda di parole non esattamente “auliche”. Persino nella realtà più moderna e teoricamente progressista in cui possiamo calarci per trovare partner e godere dell’iper-connessione del nostro presente, non riusciamo a fare a meno di quegli schemi ancestrali che ci portiamo dentro. Perché se una ragazza ha messo il like al profilo di un ragazzo allora non risponde ai messaggi che questo le manda? Siamo sicuri che i messaggi che ha mandato il ragazzo in questione non siano eccessivi, molesti o semplicemente stupidi? Su questo punto, ovvero la garanzia di una reciprocità della connessione e di conseguenza di possibile successo, si sono concentrate tutte le app di questo genere, per creare in laboratorio la versione perfetta di un sito di incontri, l’agenzia matrimoniale più efficace della storia che sarà in grado di garantire storie e avventure a tutti i suoi clienti.
OkCupid, per esempio, punta sulla scienza: “We use math to find you dates”. Come diffidare dalla matematica dell’amore? Attraverso un’infinita trafila di domande personali che spaziano dal credo religioso alle abitudini culinarie, senza escludere ovviamente rapporti con le droghe, orientamento politico, opinioni sull’aborto, predisposizione al matrimonio e tutto quello che c’è da sapere in una persona per tracciare un documento preciso e impeccabile sul suo carattere. Il sofisticato algoritmo di OkCupid si ripromette di accoppiarti senza troppe difficoltà con la tua mezza mela: il match perfetto esiste, basta solo fare qualche calcolo. Inutile dire che, ovviamente, non è così. Questo magico algoritmo non tiene conto di un po’ di cose, a partire dal fatto che purtroppo non basta una formula a capire se due persone sono compatibili, e mi pare anche un po’ scontato dirlo. Oltre a ricorrere alla “crazy math” del cuore, OkCupid non tiene in conto di un altro sgambetto alla corsa verso il vero amore: dare la possibilità anche a persone con cui non hai un match di mandarti messaggi accresce in modo esponenziale quella fastidiosa sensazione tipicamente femminile di sentirsi sopraffatta da una serie di attenzioni non richieste.
Stesso discorso per Once, che invece di sfruttare algoritmi si affida alla sapiente mano dell’uomo. Un match ogni ventiquattro ore dovrebbe frenarti dalla bulimia di compatibilità, spingendoti a condurre una ricerca dell’anima gemella con pazienza e costanza. Il tocco di umanità non cambia granché le cose: anche su Once la sensazione, perlomeno di una donna, è sempre quella si sentirsi appioppato qualcuno con cui avere una conversazione forzata e con “qualcuno” intendo un disperato in cerca di uno stralcio di attenzione. Sensazione che deriva principalmente da un dato numerico: sulle app di incontri le proporzioni uomo/donna sono talmente poco bilanciate che ogni ragazza appare di fatto come un animale rarissimo. Nemmeno il lavoro attento di un cupido umano riesce quindi a contrastare certi vizi mentali che ci portiamo dietro da chissà quanto.
Tinder sembrerebbe dunque il sovrano incontrastato di questo universo, lasciando spazio ai suoi utenti di gestire i propri gradimenti come meglio preferisce. Una foto serve a dare l’input iniziale, un superficialissimo ma più spontaneo gesto di swipe che nel momento del match diventa mutuo apprezzamento. Sì, Tinder funziona e anche in modo efficace, ma nonostante questo principio di base non mancano al suo interno situazioni grottesche e spiacevoli che sono state prontamente raccolte all’interno di profili Instagram come @tindernightmares, in cui possiamo assistere allo sfoggio più creativo di armi di seduzione digitale. Il vero lampo di genio in materia lo ha avuto Whitney Worfe Herd, la ventottenne co-fondatrice di Tinder che ha lasciato il marchio per fondare una sua app che ha come intento quello di far sentire le donne al sicuro, per eliminare una volta per tutte quell’alone di insistente pressione, presunto responsabile del frequente e deludente rifiuto femminile.
L’app che Herd ha progettato dopo aver abbandonato Tinder si chiama Bumble e le ha già consentito di rifiutare proposte da mezzo miliardo di dollari da parte di Match Group, la potentissima società che include nomi come Tinder e OkCupid. Il segreto del successo di questo progetto è molto facile da intuire. Bumble è un’app che lascia fare alla donna la prima mossa, che consente di trovare amiche con la funzione BFF e che ora si ripromette anche di creare reti di lavoro femminile con la versione Bizz. Insomma, è la trovata più intelligente ed efficace per questo momento storico.
Non saprei dire se Bumble sia empowering o meno, come si definisce nella sua presentazione, e non è facile distinguere gli interessi di un’azienda da miliardi di dollari da un movimento di emancipazione femminile. Ma una cosa è certa: Bumble, con le sue regole e i suoi divieti, va a scardinare proprio il punto più dolente di tutto il mondo del dating. Le ragazze che se la tirano e i ragazzi che si appicciano insistenti come se non ci fosse altro nella loro esistenza, uno scenario prevedibile e noioso. Obbligate a fare la prima mossa prima che la carrozza di Cenerentola ritorni zucca, ovvero prima che passino ventiquattro ore dall’eliminazione automatica del match, le donne dovrebbero avere una buona scusa per non “tirarsela”, e per non sentirsi in qualche modo fuori luogo a compiere il tanto discusso gesto di avvicinamento.
Una proposta come quella di Bumble può annullare questa dinamica stantia obbligando la donna a scrivere entro ventiquattro ore alla persona che le interessa e frenando l’uomo dal lanciarsi in messaggi di dubbio gusto? Forse, al di là di una rivoluzione lanciata da un’app che ci obbliga a fare il primo passo – contro ogni insegnamento di Top Girl che ci ha istruite su come farci desiderare, e contro ogni fastidioso approccio maschile che trasuda disperazione, risentimento o volgarità – sarebbe pure ora di smetterla con certa vecchia retorica. Tipo quella che da un lato cataloga la donna che prende l’iniziativa come una poco di buono, dall’altro l’accusa di rigidità quando non si fa avanti o quando rifiuta, quella dell’uomo che vuole solo una cosa perché è un animale, o che pur di farsi rispondere deve ricorrere a iniziative suicide in cui si gioca il tutto per tutto con inviti eccessivamente coraggiosi.