Clubhouse è un’app di social networking interamente basata sulla voce. Nessun post, nessun commento, nessun video: sulla piattaforma si parla – e si ascolta, soprattutto – all’interno di stanze gestite dai moderatori. Entrare in una room è come ritrovarsi dentro un podcast. Gli utenti possono chiedere di intervenire nella discussione, ma solo l’ospite (o un moderatore) può concedere loro la parola. L’ambiente è molto educato, e dichiaratamente esclusivo: per accedere all’app, infatti, è necessario passare attraverso l’invito di un altro utente. Nonostante questo rigido sistema di selezione della community (unito al fatto che l’applicazione funziona per il momento solo su IPhone) gli iscritti a Clubhouse aumentano in modo esponenziale da settimane, contribuendo a cambiare – forse – il futuro dei social network. Per essere chiari: nessun’altra piattaforma aveva mai strutturato il proprio modello comunicativo sulla voce. Fino a pochi giorni fa era quasi impossibile immaginare un social capace di rinunciare alla testualità visiva, almeno all’interno di in un contesto mediale basato sull’egemonia estetica di Instagram e TikTok. Ed è proprio questa peculiarità a rendere Clubhouse tanto interessante. Lo studio di un fenomeno simile porta con sé un’inevitabile lettura sociologica e psicologica della cultura digitale, ribadendo che nessuna disamina del nostro presente può prescindere da un’attenta analisi strutturale dei suoi sistemi di comunicazione.
Nell’ambito della psicologia dei media, esistono due opposte teorie che definiscono questo complesso rapporto fra società, individuo e tecnologia. Da un lato abbiamo il determinismo tecnologico, un modello teorico che esaspera le idee del semiologo Marshall McLuhan, secondo cui sono i media a plasmare la società che li utilizza; dall’altro troviamo il costruttivismo sociale di Williams, il quale afferma che la tecnologia si diffonde solo dove viene accettata, mutando e cambiando in funzione delle esigenze sociali e culturali che incontra. Per tutta la seconda metà del Ventesimo secolo questi due impianti teorici si sono sviluppati parallelamente, polarizzando un dibattito che ha ritrovato una sintesi solo negli ultimi vent’anni. A ben vedere, infatti, le due teorie non sono in antitesi. Anzi. McLuhan e Williams analizzano due diverse fasi dello stesso identico fenomeno. La recente Teoria dell’inter-azione situata ha creato una sintesi tra deterministi e costruttivisti, spiegando che laddove i primi analizzano gli effetti che un medium innegabilmente produce nella società, i secondi studiano l’evoluzione compiuta dalla tecnologia per farsi accettare. Esiste infine un “momento tecnologico” (per citare la locuzione dello psicologo Thomas Hughes) che individua il culmine della transizione. Vissuta quella singolarità, la tecnologia passa da “determinata” a “determinante” per la cultura di appartenenza. In altre parole, dopo una fase di adattamento e ridefinizione, è Lei, la tecnologia (internet, parlando di rivoluzione digitale) a cambiare noi.
Il fenomeno Clubhouse, in questo senso, possiede due differenti piani di lettura. Se scegliamo di analizzare l’app all’interno del suo contesto – e dunque allarghiamo la disamina all’intero ecosistema dei social network – appare chiaro che il “momento tecnologico” noi l’abbiamo già vissuto: i Social hanno ridefinito completamente la nostra esperienza di vita, modificando comportamento, dinamiche sociali e abilità cognitive. Tuttavia, concentrandosi solamente sulle peculiarità del nuovo social (che contrastano ampiamente con il modello strutturale degli altri network) risulta più puntuale un’analisi costruttivista del medium, il quale probabilmente subirà numerose mutazioni affinché possa essere accettato da un’utenza massificata. Il momento tecnologico di Clubhouse, per essere chiari, non si è ancora manifestato. Ma attenzione, anche in questo caso è possibile produrre una sintesi fra le due diverse analisi. Il successo di un social costruito sulla comunicazione vocale si compie entro un territorio già digitalizzato, non certo in uno spazio vergine. I social media hanno creato un contesto sociale specifico, e questo è bene ricordarlo. Clubhouse intercetta delle esigenze “create” dalla tecnologia, stavolta in senso deterministico; i motivi del successo dell’app rimarcano una traiettoria già tracciata dai nuovi media, soddisfacendo un bisogno interno alla comunicazione virtuale. In pratica, Clubhouse ci racconta chi siamo e – soprattutto – cosa stiamo diventando.
Marshall McLuhan è stato il primo studioso a individuare l’importanza cruciale dei mass media nella storia dell’umanità, offrendo una chiave interpretativa inedita all’interno dell’antropologia culturale. Ne La Galassia Gutenberg McLuhan afferma che grazie all’avvento della stampa a caratteri mobili (perfezionata nel 1455) si compie definitivamente il passaggio dalla cultura orale a quella alfabetica. Se la parola nasce come medium autentico e naturale, nella cultura alfabetica diviene un testo, un significato mentale legato all’interpretazione consequenziale del messaggio. Tutta l’esperienza di codifica si riduce a un solo senso: la vista. Questa transizione sensoriale ha generato profondissime ripercussioni sull’intelligenza degli individui, sulla loro psiche e sulla loro dimensione emotiva. La comunicazione orale crea uno stato relazionale intenso, capace di amplificare il nostro senso di comunità. La comunicazione scritta, unicamente veicolata dalla vista, reitera invece una modalità di relazione più distanziante e priva di empatia. La lettura finisce per esercitare maggiormente la nostra singolarità e razionalità: la stampa è dunque il medium dell’individualismo, della meccanizzazione, della tecnica, è la tecnologia dell’era moderna. Da questa analisi appare evidente il motivo per cui l’intero impianto teorico di McLuhan viene spesso riassunto con la fase “il medium è il messaggio”, una locuzione formulata per la prima volta all’interno del libro Gli strumenti del comunicare. Il semiologo, nel saggio del 1967, ribadisce la centralità del mezzo di comunicazione rispetto ai testi che vengono diffusi “grazie” al medium. La forma del messaggio è dunque essa stessa il messaggio. Il contenuto della comunicazione risulta marginale, quasi insignificante. È la tecnologia, sempre, a trasformare la società: soprattutto nel Ventesimo secolo. McLuhan scrive “Nelle ere della meccanica abbiamo operato un’estensione del nostro corpo in senso spaziale. Oggi, dopo oltre cent’anni di impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio”. I media “elettrici” sono ovviamente Radio, Cinema e Televisione: agli albori della cultura di massa, lo studioso intravedeva la deriva dell’iper-connessione (e del senso di simultaneità interno al mondo del web) generata da un medium digitale che all’epoca suonava solo come un’ipotesi fantascientifica.
È interessante, ora – e fondamentale per il nostro discorso sui Social – sottolineare l’analisi che McLuhan compie a proposito del rapporto individuo/medium/collettività. Secondo il semiologo, l’invenzione della stampa a caratteri mobili avrebbe de-tribalizzato la società, accentuando l’individualismo e l’intelligenza logica, mentre in epoca più recente la TV ha sostanzialmente ricostruito un “villaggio globale” in cui tornano preminenti le logiche tribali. Moda, modificazioni comportamentali, culto della personalità, omologazione, modelli visivi stereotipati, voyeurismo: la comunicazione televisiva ha ri-tribalizzato la società, sviluppando uno spazio di fruizione che accomuna temporalmente l’esperienza di milioni di spettatori. La televisione, secondo McLuhan, non crea alcuna novità: è semmai un mezzo che conforta, consola e immobilizza gli utenti in una stasi fisica e mentale, alienando il pubblico all’interno di un rapporto mai veramente interattivo. Internet, in quest’ottica, ha creato invece una rivoluzione radicale. L’interattività dei sistemi digitali è il vero elemento inedito della comunicazione del Ventunesimo secolo. E sebbene questo sia innegabile, la rivoluzione nata in seno alla diffusione degli smartphone ha creato una curiosa dicotomia. Da una parte, per ricalcare la tesi di McLuhan, i social media hanno consolidato quella tribalità che oggi riverbera nelle bolle e nelle echo-chambers; dall’altra risulta evidente che la tecnologia digitale abbia in qualche misura “separato” le persone sul piano materiale, alienando i rapporti umani in favore delle relazioni virtuali. La natura estensiva dei social rimette al centro l’esperienza sensoriale visiva, attualizzando quella fase di individualizzazione tipica dell’uomo tipografico.
Questo è il motivo per cui l’analisi del fenomeno di Clubhouse risulta così preziosa. La fenomenologia dei media digitali non aveva mai prodotto un medium tanto tribale, capace di riportare il “villaggio” alla comunicazione orale. C’è però una differenza sostanziale fra la “parola” pronunciata all’interno di un sistema relazionale solido e totalizzante e ciò che avviene nel nuovo social. Clubhouse permette anche una fruizione passiva, interstiziale, rilassata (definita lean back experience) che può essere sempre complementare ad altre attività svolte. È come se l’umanità digitalizzata avvertisse il bisogno di immergersi in un flusso comunicativo costante, distratto e “assente”. Le voci degli utenti di Clubhouse si sovrappongono e ricreano infine un brusio assoluto, un rumore bianco da cui è impossibile estrapolare dei contenuti duraturi (l’audio delle conversazioni viene cancellato per sempre quando si chiude il dibattito). Il senso del medium, dopotutto, è il medium stesso: il ronzio delle parole pronunciate nell’immaterialità delle stanze virtuali riempie ogni fessura del nostro quotidiano. E se è vero che la voce deve necessariamente essere ascoltata per produrre significato, è altrettanto vero che la tribalità artificiale delle piattaforme audio risulta straniante. Gli utenti preferiscono lasciarsi attraversare dalla voce di un perfetto sconosciuto piuttosto che ascoltare quello che accade attorno a loro. La rivoluzione digitale, dopo aver vissuto il suo “momento tecnologico”, si sta lentamente contorcendo su sé stessa, ritrovando il senso del suo progresso all’interno di una definitiva sostituzione virtuale. I social stanno riassorbendo le dinamiche proprie di ogni altro media, producendo una specie di medium assoluto capace di contenere tutte le informazioni del mondo. La natura estensiva dei media non si è mai intrecciata con una tecnologia così profonda: il rischio di perdere ogni contatto con la realtà nell’abisso digitale non è un’ipotesi così remota. Anzi, per qualcuno è perfino auspicabile. La sensazione è che l’utenza digitale oggi senta il bisogno di percepire la prossimità delle persone con cui interagiamo sui social. La voce, in questo senso, è il medium primordiale. Racconta la voglia di ritornare alla relazione autentica, priva del filtro che si deposita sulle immagini iper-costruite dei social “classici”. Clubhouse racconta la necessità di riportare l’esperienza virtuale all’interno del contesto più umano possibile. Il problema è che la risposta a un’esigenza così atavica non può essere intercettata nel perimetro di uno smartphone. E sarebbe bene comprenderlo prima che la sostituzione si compia del tutto.