Durante un violento temporale, nel 2009, Shoshana Zuboff, psicologa sociale dell’università di Harvard, vide la sua casa dissolversi tra le fiamme, dopo essere stata colpita da un fulmine. Nonostante si fosse diffuso per la casa un fumo nero e asfissiante, Shoshana si era limitata a chiudere qualche porta per bloccarlo, senza pensare a un altro pericolo imminente: l’esplodere di un incendio. Solo l’arrivo dei vigili del fuoco riuscì a farle comprendere la gravità della situazione. Poco dopo Zuboff e la sua famiglia si erano ritrovati all’esterno, davanti alla loro casa sventrata dalle fiamme. Erano increduli, ma ancora vivi. Libri, appunti, materiali di ricerca: l’incendio di quella notte avrebbe portato via tutto, facendole comprendere “quanto fosse cruciale il fatto che ciò che non ha precedenti sia irriconoscibile”. Sono queste le parole lapidarie con cui Zuboff accompagna il racconto dell’incendio all’interno del suo ultimo, monumentale lavoro: Il capitalismo della sorveglianza. Se infatti qualcuno dovesse chiederle che cos’è il capitalismo della sorveglianza, Zuboff direbbe che è innanzitutto un fatto nuovo, un prodotto della “seconda modernità” che non ha precedenti nella storia dell’uomo. È un evento inaspettato che non eravamo pronti a fronteggiare, proprio come un fulmine che si abbatte sulla tua casa portandoti via ogni cosa.
Shoshana Zuboff ha lavorato al suo progetto per oltre dieci anni, ricostruendo tanto la logica quanto la preistoria di quello che chiama capitalismo della sorveglianza. Questa strana creatura, che ha i suoi predecessori ideali nella catena di montaggio fordista e nel capitalismo manageriale della General Motors, è stata perfezionata dagli attuali giganti del web. Il capitalismo della sorveglianza, in un certo senso, è sempre intorno a noi. Lo puoi avvicinare quando ordini un prodotto su Amazon, o quando ti esprimi su Facebook. Puoi averci un contatto persino quando, tra lo spiritoso e l’innocente, chiedi a Google Assistant di raccontarti una freddura o di cantarti una filastrocca. Eppure quel contatto è sempre qualcosa di anonimo, perché il capitalismo della sorveglianza non si rivolge agli esseri umani in quanto persone. Esso, a differenza di quanto potremmo essere spinti a credere, non è pensato per noi, ma nonostante noi. Per la docente di Harvard il vero grande pioniere del capitalismo della sorveglianza è senza dubbio Google, l’azienda fondata nel 1998 da Larry Page e Sergey Brin. Google è stata la prima vera azienda a mettere in piedi e sfruttare quell’imponente apparato di data mining in grado di generare enormi profitti dall’elaborazione di ciò che Zuboff definisce “surplus comportamentale”.
Per capire di cosa si tratta occorre tornare in quella fase adolescenziale del web, che risale ai primissimi anni Zero. È infatti all’alba terzo millennio che esplose la cosiddetta “bolla dot-com”. La bolla dot-com, come tutte le bolle finanziarie, consistette in una speculazione ingiustificata sulle azioni delle aziende nel settore informatico; speculazione seguita da un drastico calo del loro valore azionario. Le aziende in questione, tra cui la stessa Google, erano piccolissime, scarsamente capitalizzate e con una previsione degli utili sostenuta dall’euforia nei confronti di Internet più che da un piano aziendale sostenibile, come ogni tanto accade nel mercato azionario. Quando nel marzo del 2000 il bubbone esplose, le piccole realtà come Google si trovarono di fronte a un bivio: spiccare il volo o soccombere. “I primi guadagni di Google,” scrive Zuboff, “derivavano dai contratti di licenza esclusiva per offrire servizi web a portali come Yahoo! e il giapponese BIGLOBE. Modesti ricavi derivavano anche dagli ads linkati alle parole chiave ricercate. Non bastava. Bisognava considerare altri modelli”. L’azienda aveva inoltre stabilito un patto non scritto con i propri fruitori, dichiarandosi formalmente restia al pieno sfruttamento dell’advertising per ragioni di trasparenza e di tutela del consumatore. E tuttavia, nonostante Google Search venisse già considerato il miglior motore di ricerca in circolazione, Page e Brin temevano che la loro azienda non potesse più avere un futuro. Qualcosa doveva cambiare.
Lentamente i fondatori di Google, insieme all’ex CEO Eric Schmidt, decisero di infrangere quel tacito patto con gli utenti per spalancare le porte all’advertising targettizzato: gli ads non sarebbero stati più semplicemente legati a una query, una ricerca specifica sul motore di Google Search, ma sarebbero diventati, per così dire, a misura di utente. In una parola, sarebbero diventati mirati. Da quel momento in poi gli inserzionisti potevano – e possono tuttora – acquistare un posizionamento migliore per i loro ads pagando Google non più solo in base al tasso di click-trough, cioè al numero di click effettivi sui banner, ma anche in base alla probabilità, stimata da Google, che un utente possa davvero cliccarvi. Per calcolare una simile tendenza è necessario conoscere i gusti degli utenti e fare previsioni sui loro desideri, e questo – secondo Zuboff – è reso possibile proprio dall’estrazione del già citato surplus comportamentale. Durante la navigazione online gli utenti, infatti, si lasciano alle spalle un’enorme mole frammentaria e disordinata di dati personali che, se ben processati, possono funzionare da modelli predittivi per il loro comportamento.
Inizialmente una parte rilevante di questi dati, secondo Zuboff, veniva impiegata da Google col solo scopo di migliorare i servizi a disposizione dell’utente. Questo periodo coincise con l’epoca felice del patto tra azienda e consumatori. Ma per rendere possibili i guadagni esorbitanti dell’advertising targettizzato, Google avrebbe dovuto violare il patto e dare il via a un processo di estrazione dei dati personali senza precedenti. Tutti quei “dati di scarto” che Google conservava nelle sue imponenti banche ora sarebbero stati riesumati, analizzati e sfruttati per la pubblicità. Poco importa se in mezzo a quei dati c’erano – e ci sono tuttora – dettagli fondamentali della nostra vita.
Il processo di assemblaggio in modelli predittivi del surplus comportamentale culmina poi nel “mercato dei comportamenti futuri”, ossia con la vendita dei modelli predittivi agli inserzionisti e alle parti terze; veri clienti del capitalismo della sorveglianza. I semplici utenti non sono il beneficiario finale del ciclo di reinvestimento del valore. Per la docente di Harvard noi siamo solo materie prime inconsapevoli, involucri di surplus comportamentale da estrarre e riassemblare. “Gli utenti non erano più uno scopo,” scrive Zuboff commentando la perdita d’aureola di Google, “ma un mezzo per raggiungere gli scopi di altre persone”. In un’originale rilettura della teoria marxista del valore, l’autrice reinterpreta il concetto di plusvalore – che in Marx era estratto dalla carne viva dell’operaio – come surplus comportamentale, la traccia residuale dell’internauta pronta per una nuova, inedita estrazione: quella dei capitalisti della sorveglianza.
La logica del capitalismo della sorveglianza fin qui descritta è contenuta nei primi capitoli del libro. Il resto del volume è dedicato alle conseguenze, talvolta inquietanti, che seguono dalle pratiche di reinvestimento del surplus comportamentale. Infatti, se da un lato il capitalismo della sorveglianza è attento alla dimensione quantitativa dell’estrazione, dall’altro è anche interessato a estendere il potere dei suoi strumenti per raggiungere porzioni di realtà non ancora sottoposte al rendering, alla traduzione sotto forma di dati. È il caso di alcune smart tv della Samsung in grado di registrare “qualunque cosa venisse detta in prossimità della tv”; di giocattoli per bambini della Genesys Toys, che una volta abbinati a un’apposita app mobile iniziavano a registrare ogni frase del bambino, spingendolo a fornire informazioni sensibili. “Compreso il luogo dove vive”. O ancora: tutte quelle forme di geotargeting, di pubblicità basata sulla geolocalizzazione, che sono rese possibili dalla semplice attivazione del rilevatore GPS sul nostro telefono. Per non tacere infine dell’invasione, da parte dei social media, di una zona del reale che pensavamo sicura: quella delle nostre emozioni. Celebre in questo caso è stato l’esperimento sociale condotto nel 2010 da Facebook negli Stati Uniti. Quell’anno si stimò che il social media di Zuckerberg avesse indirettamente spinto a votare circa 340mila persone in più per le elezioni di medio termine del Congresso.
Negli ultimi capitoli del volume l’attenzione alle pratiche di estrazione si stempera e lascia il posto a una rivendicazione accorata della propria privacy. Quell’apparato digitale onnipervasivo ora diventa la metafora del Grande Altro, del perenne osservatore silenzioso che vìola gli spazi interdetti della nostra stessa intimità. Il saggio di Zuboff, in fondo, è una storia sull’intimità negata, la stessa che le era stata sottratta oltre dieci anni fa da quel fulmine che distrusse la sua casa. Ecco perché, forse, l’ultimo capitolo non poteva che essere la pretesa di un “diritto al santuario”. Esso è il diritto che ognuno di noi dovrebbe poter invocare nell’epoca del capitalismo della sorveglianza: quello a un luogo di disconnessione totale. Questo luogo dovrebbe essere la nostra casa. Il santuario di tutto ciò che dovrebbe rimanere precluso all’esterno. L’invito a riconoscere e reclamare un diritto al santuario non ha nulla di religioso, è un invito del tutto laico a tracciare un confine consapevole tra noi e il Grande Altro, affinché un giorno nessuno possa vedere invasa la propria esistenza più profonda, come un fulmine che irrompe nella nostra casa rischiando di distruggerla per sempre.