Il ticket d’ingresso a Venezia ci mostra il futuro del Paese. Un luna park a tema. - THE VISION

Da dopo la pandemia vedo Trieste, dove abito, somigliare sempre di più a Venezia: non solo per lo stile dei palazzi del centro, né per la presenza di un Canal Grande, ma per la gestione turistica che si sta delineando. Qui, infatti, la regolamentazione delle Grandi Navi fatta finalmente a Venezia, ha portato a un boom di crociere, che nel 2022 hanno contato un +158% sull’anno prima, con un totale di 425mila passeggeri, e arrivando fino a quattro approdi alla settimana in alta stagione, trasformano la scenografica Piazza Unità d’Italia da la piazza più grande d’Europa affacciata sul mare alla più grande affacciata sulle navi. Ma somigliano sempre di più a Venezia anche tante altre “città d’arte” italiane, dove l’economia del turismo comincia a schiacciare come un bulldozer ogni cosa. Fino a quando le autorità decidono di prendere in mano la situazione e, non sapendo bene come farlo, arrivano a decisioni come quella del Comune di Venezia, che qualche giorno fa ha approvato l’introduzione di un ticket d’accesso da 5 euro e l’obbligo di registrazione su una piattaforma online per i turisti giornalieri.

Se ne parlava da anni, sul modello delle tasse di sbarco applicate in alcune isole minori o ticket per alcune spiagge; la norma, autorizzata dalla legge di bilancio del 2019, arriva insieme alla notizia della mancata iscrizione della città lagunare nella lista dei patrimoni Unesco in pericolo. Alleviato ma non risolto tra inquinamento e incidenti – il problema delle Grandi Navi, per l’Unesco rimangono comunque insufficienti le misure di protezione della città e serve una strategia a lungo termine per evitare ulteriori danni e una perdita di autenticità storica di Venezia, che tra l’altro, come un boomerang, ridurrebbe l’attrattiva turistica stessa della città. Non mancano le perplessità davanti al ticket, che potrebbe rappresentare il  passaggio ulteriore di una crescente polarizzazione del turismo, diviso tra le masse in infradito e viaggi dei ricchissimi. E il rischio è che Venezia prefiguri il destino di tante parti d’Italia. 

Nonostante la parola “turismo” compaia 672 volte nel secondo volume dell’ultimo rapporto IPCC sulla crisi climatica, la dipendenza economica da questo settore di alcune località rende difficile regolamentare seriamente i flussi, come in alcuni posti si prova a fare: di recente New York con le restrizioni alla piattaforma Airbnb, nel tentativo di tutelare il costo degli affitti, o l’Alto Adige con la pianificazione del turismo per mantenere la vivibilità dei paesi e l’equilibrio montano, supportata dal lavoro di analisi e monitoraggio dell’Osservatorio per il Turismo sostenibile in Alto Adige

Archiviate le illusioni su un possibile nuovo modo di viaggiare, il turismo continua a essere considerato un asset economico irrinunciabile, da sostenere in qualsiasi modo, anche scriteriato: non a caso le iniziative turistiche sono finanziate dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) e dal Fondo Sociale Europeo (FSE+), grazie a cui per il 2021-2027 l’Italia dispone di 43 milioni di euro. Diverse amministrazioni puntano solo ad aumentare gli arrivi, senza pensare agli equilibri ambientali né tantomeno al costo della vita locale. Proprio Trieste sta vivendo un boom turistico insieme a tutto il Friuli Venezia Giulia, in cui nei primi sei mesi del 2023 si è registrato il +14,7% di presenze sullo stesso periodo dello scorso anno. Il caso del capoluogo giuliano è emblematico soprattutto per gli investimenti nel turismo di lusso, con il boom delle strutture ricettive dalle 4 stelle in su, tendenza che si sta delineando in tutta Italia, dove nel 2022 sono stati fatti investimenti alberghieri per 1 miliardo e 400mila euro, di cui molti da investitori internazionali e incentrati sulle catene di hotel. I soldi, cioè, non mancano, soprattutto per il turismo elitario, in una schizofrenia in cui le autorità promuovono il settore con fondi e marketing, per poi cercare di limitarlo nel nome del “turismo di qualità” e di presunte contrapposizioni tra turista e viaggiatore, che spesso nascondono un certo classismo.

Come rileva la ricercatrice Sarah Gainsforth, infatti, la regolamentazione del turismo promossa è spesso solo di ordine pubblico, come già nel 2019 con l’istituzione di “zone rosse” nell’ambito di quella che l’allora ministro dell’Interno Salvini chiamò “guerra totale al degrado”; si istituivano Comitati per l’ordine pubblico nelle aree urbane densamente abitate e meta di flussi turistici, da cui si voleva allontanare con Daspo urbano chi faceva cose (innocue) come sedersi sui gradini dei teatri o stazionare ai bordi delle strade; per farlo, i prefetti furono autorizzati a scavalcare i sindaci. Già prima c’erano state iniziative locali a Bologna e Firenze, ma se ne vedono un po’ dappertutto, fino a Portofino, sul cui molo è comparso un cartello che vieta la sosta a piedi; come sottolinea ancora Gainsforth, questo caso in particolare colpisce gli arrivi giornalieri portati dai battelli turistici, ma non i villeggianti più ricchi. 

Questi divieti, poi, non incidono sul problema dei troppi arrivi, mentre la motivazione del presunto decoro da mantenere agli occhi dei turisti “di qualità” limita anche la fruizione dello spazio urbano da parte dei cittadini. Anche loro, infatti, pagano le conseguenze della situazione del turismo in Italia. Sempre il Friuli Venezia Giulia, interessato da arrivi record, continua a perdere residenti – come Venezia, abbandonata in vent’anni da 14mila abitanti – mentre il paradosso del diritto alla casa diventa sempre più palese. In provincia di Trieste, infatti, mentre 747 appartamenti sono disponibili su una delle maggiori piattaforme di affitti brevi si contano 1200 appartamenti Ater inutilizzati e quasi 2800 famiglie in attesa dell’assegnazione di una casa dal Comune. L’amministrazione, intanto, è contraria alla stretta del governo sugli affitti brevi, che imporrebbe ad Airbnb, tra le altre cose, di affittare a chi si ferma almeno due notti e un tetto massimo annuale di 120 giorni, per evitare la concorrenza sleale agli alberghi e l’aggiramento – ormai la norma – dell’originario claim che aveva lanciato Airbnb, quello per cui un proprietario può arrotondare lo stipendio mettendo a frutto per qualche notte la stanza del figlio rimasta vuota. L’estremo nord-est italiano sembra imboccare – con l’entusiasmo di chi è nuovo al fenomeno – la strada che altre città conoscono già fin troppo bene. Firenze, per esempio, nel 2022 è stata visitata da una quantità di persone pari a 20 volte i suoi 366mila abitanti, per una media di 21mila turisti al giorno, per lo più concentrati negli stessi quartieri del centro. Mentre la regolamentazione proposta dal governo è insufficiente, quella fiorentina è tra le amministrazioni che rivendicano maggiore autonomia sulla gestione del turismo, rifacendosi alla sentenza della Corte di giustizia europea del 2020, che giudicò legittima una norma del governo francese che riconosce alle città il diritto di regolare gli affitti a breve termine.

Se, come a Firenze, ci si sente sempre di più ospiti a casa propria, si vedono aumentare prezzi e sporcizia e sparire i negozi di libri, giocattoli e ferramenta (sono 850 gli esercizi chiusi tra il 2012 e il 2022) in favore delle attività turistiche (+21% in dieci anni), viene facile, allora, prendersela con le masse di turisti in sandali coi calzini, dipinti come un gregge cafone che accompagna gli spaghetti bolognese con il cappuccino, colpevoli di voler vedere coi propri occhi le mete da cartolina, facilmente raggiungibili con mezzi low cost, di cui l’Italia tanto si vanta. Una vacanza di più giorni è certo più sostenibile di una gita in giornata – sia per ottimizzare l’impatto del trasporto sia per sostenere l’economia locale e non le catene di negozi e hotel standardizzati – ed è anche più piacevole per i turisti, che si ritrovano altrimenti a comprimere in poche, estenuanti ore il classico giro Canal Grande-San Marco-Ponte dei Sospiri per portarsi a casa niente più che un mal di piedi e un souvenir Made in China. Ma non è tanto colpa dei turisti se le campagne pubblicitarie martellano sempre con le stesse località – con mode periodiche, come dimostra la rinnovata attenzione su Napoli, dopo il periodo di crisi tra gli anni Settanta e Duemila – e i social media ne veicolano immagini romanticizzate o confermano stereotipi superficiali attraverso “virtual influencer” come la Venere della campagna “Italia Open to Meraviglia”. E non è colpa loro nemmeno il non poter sostenere il costo di una settimana in hotel o non poter prendere ferie al di fuori delle chiusure aziendali.

Così, mentre da un lato il ticket d’ingresso a Venezia è un tentativo di frenare il turismo “usa e getta”, dall’altro sembra sancirne la trasformazione in un parco a tema, paradossalmente proprio nel tentativo di evitarlo. Non pone, soprattutto, un tetto al numero degli arrivi e colpisce solo quelli in giornata, mentre un grosso problema è la sproporzione tra popolazione residente e turisti; nonostante alcuni interventi locali, come l’emendamento Pellicani del 2020 per la regolamentazione delle locazioni brevi, nella città antica, si contano poco più di 50mila residenti e oltre 20mila posti letto per turisti e in soli cinque mesi, tra aprile e settembre 2023, il numero dei posti letto ha registrato un +1.097. 

La riflessione sul turismo oggi deve innanzitutto considerare che è sostenibile il turismo che permette agli abitanti di continuare a vivere nella loro città; deve, invece, smettere di concentrarsi unicamente sui “turisti cafoni” come se fossero (solo) loro il problema, e cercare il modo per preservare ambiente e città; altrimenti la distopia veneziana – trovarsi sull’orlo dell’estinzione in parte proprio per un eccesso d’amore – non farà che indicare la via a tutte le altre città d’arte italiane; che rischiano sempre di più di diventare non-luoghi, senza abitanti e senza identità, mentre le autorità supportano investimenti nel lusso e nei voli, trascurando la mobilità sostenibile, i palazzi in centro vengono acquistati dagli investitori stranieri per farci l’ennesimo hotel di lusso, facendo impennare il costo della vita, e i milionari si arrampicano sui pochi ghiacciai rimasti. Se è vero che tutti viaggiano per motivi diversi, dobbiamo ancora trovare il modo di conciliare il legittimo desiderio di scoperta dell’essere umano con il dovere di proteggere l’ambiente e i diritti dei cittadini. Da un lato, dobbiamo superare la considerazione del territorio come di una risorsa da sfruttare e dall’altro evitare di trasformare il viaggio in una prerogativa per pochi nel nome della protezione dei luoghi. E sembra che per il momento non ci siamo ancora riusciti.

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