La Pasqua, insieme al Natale e altre feste comandate, è uno dei momenti di maggior spreco. Neppure oggi che non abbiamo problemi – almeno nel nostro Paese – a recuperare il cibo necessario alla sopravvivenza, riusciamo a liberarci dell’abitudine assurda di servire più cibo del necessario, ancor più nei giorni di festa in cui la tradizione – retaggio di tempi di ristrettezze – vuole abbondanza e strappi alla regola, soprattutto in termini di quantità. Parlando di spreco alimentare bisogna più correttamente distinguere tra food losses e food waste: il primo termine indica le perdite che avvengono all’inizio della catena, nelle fasi di raccolta o allevamento e di trattamento delle materie prime; il secondo, invece, si riferisce allo spreco nelle fasi di trasformazione industriale, nel caso in cui non vengano utilizzate tutte le parti della materia, o quando i metodi produttivi sono poco efficienti, come avviene negli impianti datati o quelli in cui non si fa manutenzione. Queste due forme di spreco sono più frequenti nei Paesi meno industrializzati, mentre nelle aree più ricche, dove mettere un pasto in tavola non è più la maggiore preoccupazione quotidiana e non si sente la necessità di fare economia fino all’ultima briciola, una grossa fetta è rappresentata dagli sprechi domestici. Si compra in quantità eccessive, attratti dagli sconti al supermercato, per poi dimenticare il cibo in frigorifero e infine gettarlo. Spesso si tratta di alimenti ancora commestibili: in Italia sei persone su dieci, secondo l’indagine 2018 di Waste Watcher, gettano circa una volta al mese ancora buono. Nove su dieci ammettono di provare un forte senso di colpa per questo spreco e le campagne di sensibilizzazione stanno contribuendo nel nostro Paese a promuovere comportamenti più virtuosi rispetto al passato, ma in un anno un italiano spreca ancora in media 36 kg di cibo – una media di 3 kg al mese.
Scesi nel 2015 sotto la soglia degli 800 milioni, gli individui denutriti al mondo sono tornati a salire, toccando quota 804 milioni nel 2016 e 821 nel 2017. La denutrizione è l’impossibilità di assumere i nutrienti necessari attraverso l’alimentazione, e non va confusa con la malnutrizione, termine ampio che comprende tutti gli squilibri dovuti a un’alimentazione scorretta, che sia insufficiente o, come quasi sempre accade in Occidente, eccessiva. Anche i dati riferiti a quest’ultima sono allarmanti, e sottolineano il paradosso della malnutrizione, tra chi non mangia abbastanza e chi mangia troppo. Nel 2017 un adulto su otto al mondo è obeso. La quota continua a crescere dagli anni Settanta, con una recente accelerata, e riguarda sempre di più – almeno nei Paesi in cui un medio livello di benessere è diffuso – gli strati sociali più poveri, in cui si acquistano prodotti poco costosi e molto calorici, dall’apporto nutritivo scarso e squilibrato. Sul totale della popolazione mondiale si ha in leggera diminuzione la percentuale di denutrizione e malnutrizione, ma solo perché il numero di bocche da sfamare è sempre più alto e trovare un modo sostenibile per farlo è una necessità che non si può procrastinare. Secondo le stime dell’Onu, nel 2100 la popolazione mondiale sarà di circa 11 miliardi di persone. E i tassi di fertilità sono più alti proprio nei Paesi in cui la denutrizione è un problema di ampie fette di popolazione. Grazie alla maggiore produttività agricola e a un migliore stato sociale per famiglie in difficoltà, nel 2015 per 29 Paesi è stato raggiunto l’obbiettivo di dimezzare la quota di persone denutrite stabilito nel 1996 dal Vertice Mondiale dell’Alimentazione. Nonostante ciò, i Paesi africani che hanno subito crisi alimentari nel 2015 sono stati il doppio del 1990 e, ancora, le crisi alimentari stesse non sono più, come due decenni fa, dei fenomeni intensi, drammatici e brevi ma perdurano nel tempo, con effetti sul lungo periodo. E se migliorano tendenzialmente le condizioni dell’Estremo Oriente, oggi ad accusare di più il colpo sono i Paesi dell’America meridionale e dell’Africa sub-sahariana.
La crisi economica mondiale, legata a doppio filo alla crisi dei prezzi (già concausa delle cosiddette primavere arabe), i dissesti politici e le guerre (Siria e Yemen sono gli esempi più noti) hanno pesato sullo stato della nutrizione mondiale. A questi si aggiungono i fenomeni atmosferici estremi, sempre più frequenti, che distruggono terreni agricoli e derrate alimentari; la scarsità di risorse e i tempi necessari alla ricostruzione proiettano sul lungo periodo fame e carenza di nutrienti. Ci troviamo in un circolo vizioso: attualmente circa un terzo del cibo prodotto globalmente ogni anno va perso o sprecato, e questo spreco di cibo implica uno sfruttamento inutile di territorio, risorse, energia e lavoro e produce inoltre emissioni nocive contribuendo così al cambiamento climatico, causa di quegli eventi atmosferici distruttivi. Oltre al problema etico della sperequazione tra chi ha troppo e chi ha troppo poco o non ha del tutto, come analizzato dalla FAO, c’è il nodo dello sfruttamento delle risorse, in primo luogo idriche, impiegate nell’agricoltura, per le coltivazioni e per il sostentamento degli animali. Nel caso della carne, ad esempio, si aggiunge l’elemento delle vite animali sprecate, dei costi di mantenimento e delle cure. Infine, i costi indiretti, ambientali ed economici, dello smaltimento dei rifiuti alimentari che non possono più essere recuperati e delle emissioni provocate dalla produzione.
In Italia, nel 2017, circa 2,7 milioni di persone hanno avuto bisogno di assistenza per nutrirsi, usufruendo di pacchi alimentari (la stragrande maggioranza) e mense per i poveri; a queste ultime si rivolgono prevalentemente i senzatetto, una minima parte di quei circa 5 milioni di residenti in Italia che per l’Istat sarebbero in condizioni di povertà assoluta, tra i quali pensionati, disoccupati e padri separati. L’attività quotidiana delle associazioni caritatevoli – ben distribuite sul territorio – porta alla luce il paradosso drammatico di casa nostra: sono 36,92 i chili di cibo gettati da ogni famiglia italiana nel 2017. E se la Coldiretti mostra fiducia riportando il dato del 71% degli italiani che oggi avrebbero diminuito o azzerato gli sprechi alimentari rispetto al 2016, di fatto il miglioramento è merito soprattutto di enti, supermercati e aziende. Lo spreco complessivamente sarebbe diminuito del 40% rispetto al 2016, infatti, in coincidenza con l’entrata in vigore della legge Gadda (14 settembre 2016). La direzione è quella giusta, ma come singoli cittadini non stiamo ancora facendo abbastanza, né abbastanza in fretta. Lo Stato è intervenuto nella nuova era della lotta allo spreco con la legge 155/2003, la cosiddetta “legge del Buon Samaritano”; su questo nome evitabile che le è rimasto appiccicato tra l’altro si potrebbero aprire lunghe riflessioni sullo stato in cui la nostra etica sociale versa. La nuova norma 15 anni fa permise di snellire i passaggi necessari a grande distribuzione e mense per la donazione di pasti e cibo invenduto, equiparando le organizzazioni solidaristiche a consumatori finali; l’eliminazione di alcune documentazioni prima obbligatorie circa le modalità di preparazione, conservazione e trasporto dei prodotti hanno semplificato i passaggi. La legge 155/2003 è stata abrogata nel 2013. Un passo avanti si è avuto con la cosiddetta legge Gadda 166/2016 per la riduzione degli sprechi alimentari e farmaceutici, che semplifica le procedure di donazione delle eccedenze per finalità di solidarietà sociale, promuove agevolazioni fiscali (tra cui la possibilità per i Comuni coinvolti di alleggerire per i donatori la tassa sui rifiuti) e campagne di sensibilizzazione in radio e televisioni. Secondo quanto riportato dalla stessa onorevole Maria Chiara Gadda, promotrice della l. 166/2016, in un anno gli sprechi sarebbero stati tagliati del 21%, con picchi virtuosi in Emilia-Romagna, Toscana, Puglia, Lombardia e Veneto.
Un passo importante della l. 166/2016 è stata l’introduzione della distinzione tra data di scadenza (tassativa, riservata ai prodotti freschi) e termine minimo di conservazione (“consumare preferibilmente entro”), facilitando, in teoria, l’azione più immediatamente praticabile per un consumatore. Quella che comunemente chiamiamo “scadenza” è in realtà un’indicazione di utilizzo: indica che il produttore garantisce il gusto e le proprietà nutritive di quell’alimento fino a quella data, ma che oltre possono iniziare a degradarsi. Nonostante ciò, quei numerini stampati sulle confezioni inchiodano ancora i consumatori alla propria colpevolezza di fronte al bidone dell’umido. Basterebbe stare attenti al significato delle parole e conoscere le corrette modalità di conservazione dei cibi: in troppi prendono l’indicazione come un divieto, pena odori nauseanti, malesseri e ogni genere di pericoli. Alla base della 166/2016, però, c’è ancora lo stesso presupposto controverso di sempre: affidarsi al dono come strumento di lotta allo spreco alimentare e di risoluzione del problema della povertà. Per quanto la solidarietà sociale sia un pilastro indispensabile per una società sana e coesa, uno Stato non può rimettersi al buon cuore dei cittadini e all’assistenzialismo su base volontaria per tamponare gli effetti paradossali dei suoi cortocircuiti. È un aspetto, questo, messo in luce anche da Last Minute Market, che sottolinea anche come la norma del 2016 si rivolga quasi unicamente agli sprechi che intervengono nella grande distribuzione e nella somministrazione di cibo, senza intaccare le abitudini sbagliate dei privati. Ma come in tante altre sfere della vita sociale, il cambiamento non è reale se resta imposto dall’alto: serve una presa di coscienza da parte dei cittadini, che devono smettere di comportarsi come negli spensierati anni Ottanta e adeguare, invece, l’economia domestica all’attualità.
Il limite, tipicamente italiano, è quello di correre ai ripari per tamponare i danni fatti, laddove bisognerebbe investire di più sulla prevenzione, per rendere possibile quello è che è forse l’unico vero strumento: il cambiamento culturale. Un esempio di quanto siamo ancora lontani da quel momento è rappresentato dallo spreco di frutta e verdura (il più alto, insieme a quello di latticini e prodotti da forno) non esteticamente perfette: talvolta i produttori scelgono di non raccogliere gli esemplari non conformi ai criteri estetici dei banchi del mercato, perché resterebbero comunque invenduti; lo sottolinea una recente ricerca dell’Università di Edimburgo. Questo contribuisce alla media dell’Unione Europea di 180 kg di cibo pro-capite annui sprecati; negli Stati Uniti l’andamento è lo stesso, con il 30% di alimenti prodotti non consumati e sprechi prevalenti a livello domestico. In Francia la legge del 2016 contro gli sprechi alimentari ha scelto la linea dura, in direzione opposta rispetto alla Legge Gadda che premia i comportamenti positivi: ai supermercati si impone di donare le eccedenze e si vieta di gettare l’invenduto, i ristoratori sono obbligati a mettere a disposizione le doggy bag. Per il momento l’Unione europea si limita a dichiarazioni d’intenti e invita agli Stati membri a impegnarsi di più. D’altronde, con la Dichiarazione congiunta contro lo spreco alimentare del 2010, ancora una volta l’iniziativa è partita dal basso: dall’evento organizzato da Last Minute Market è scaturita la Dichiarazione, e da questa la Relazione su come evitare lo spreco alimentare: strategie per migliorare l’efficienza della catena alimentare nell’UE, approvata dal Parlamento Europeo nel 2012 per sensibilizzare sul tema Commissione Europea e Stati. A parte alcune iniziative, molte dichiarazioni più o meno vaghe – in occasione del 2014, “Anno europeo contro gli sprechi alimentari” – e l’organizzazione di corsi scolastici sul tema, in questi anni i Paesi membri dell’Unione hanno faticato a coordinarsi, pur sostenendo lo stesso obbiettivo dell’Agenda ONU per lo Sviluppo Sostenibile, quello cioè di dimezzare entro il 2030 gli sprechi complessivi, come sottolineato nel 2016 dalla EU Platform on Food Losses and Food Waste che spingeva i Paesi a trovare strategie di prevenzione, condividere le best practice e a valutare i progressi. Tra le ultime chiamate alle armi, la Revised EU Waste Legislation, adottata il 30 maggio 2018, è un aggiornamento delle precedenti direttive in materia di sprechi, riduzione e riciclo, non solo in ambito alimentare, che stabilisce i nuovi obbiettivi di riduzione sulla base di dati più aggiornati.
Nella pratica, però, al di là del termine minimo di conservazione, è difficile per l’Unione influenzare le abitudini domestiche dei suoi cittadini: se leggi e progetti volti alle imprese contribuiscono ad abbattere gli sprechi nella filiera produttiva e distributiva, lo scandaloso peso dello spreco domestico è ancora nelle mani e nelle coscienze dei singoli. Una volta individuate le cause degli sprechi ai vari livelli della filiera produttiva e distributiva, bisogna trovarne le cause e agire di conseguenza. A livello domestico la parola chiave è ridurre: solo così, con acquisti più attenti e porzioni più piccole, non sarà necessario recuperare, fase che, nel caso dei consumi dei privati cittadini, è la più difficile. Bisogna sdradicare abitudini consolidate dal dopoguerra, esplose con la scoperta dell’abbondanza del boom economico, a partire da nuovi comportamenti apparentemente facili da mettere in pratica: fare la lista della spesa prima di andare a far compere, comprare solo la quantità necessaria e verificando le date di scadenza e servire porzioni consone, sono solo alcune delle piccole svolte che chiunque può fare. Poco a poco si diffonde l’abitudine di richiedere la doggy bag per gli avanzi al ristorante e sono molte anche le app – come My Foody che segnala i prodotti (scontati) prossimi alla scadenza nei supermercati – che aiutano a gestire al meglio l’economia domestica per combattere gli sprechi e risparmiare. La prevenzione non può che passare per l’informazione. E l’educazione dei bambini è la chiave di volta. Scongelate per cena una porzione di lasagne avanzate dal Natale è un atto educativo molto più grande di quanto sembri.