Stiamo correndo dritti verso il punto di non ritorno. Dobbiamo rallentare o moriremo tutti. - THE VISION

Il 15 maggio scorso è stato l’Overshoot Day dell’Italia, il giorno in cui sono già state consumate tutte le risorse del pianeta che abbiamo a disposizione in un anno. Per la Terra sarà il 28 luglio, un giorno prima del 2021, confermando una ripresa dei ritmi frenetici delle attività umane, dopo l’anno eccezionale della pandemia di Covid-19, in cui il mondo era stato costretto a fermarsi, e le risorse erano terminate il 22 agosto, quasi un mese più tardi. Secondo gli studi, attualmente l’umanità ha un’impronta ecologica di 2,7 ettari globali medi (gha) pro capite, mentre la biocapacità del nostro pianeta si ferma a 1,6 gha. Questo significa che l’umanità sta vivendo come se avesse a disposizione non una, ma 1,7 Terre, consumando risorse più velocemente di quanto la sua biocapacità – la capacità di rigenerazione degli ecosistemi – le permetterebbe. Il nostro Paese, nello specifico, ha un’impronta di ben 4,5 gha pro capite, a fronte di una scarsa biocapacità (0,9 gha): questo vuol dire che se volessimo continuare a vivere agli stessi livelli di oggi, avremmo bisogno di 5 territori pari a quello italiano all’anno; se invece volessimo rispettare il limite di biocapacità del nostro Paese, saremmo costretti a ridurre il nostro impatto dell’80%. Lo stile di vita dell’uomo è quindi sempre più inquinante e dannoso per la Terra. Ne è una dimostrazione la riduzione di biodiversità registrata in Europa tra il 1997 e il 2011, con una perdita annua stimata tra 3.500 e 18.500 mld di euro, secondo la Commissione europea. Una situazione causata, fra le altre cose, dalla sovrapproduzione e dall’ossessione per la produttività, che non solo distrugge gli ecosistemi e depreda le risorse, ma ci esaurisce fisicamente e mentalmente.

Un’altra delle conseguenze legate al nostro sistema predatorio è l’accentuarsi della crisi climatica. L’abbattimento delle foreste, gli allevamenti intensivi, l’utilizzo dei combustibili fossili sono fra i principali responsabili dell’aumento dei gas serra nell’atmosfera e quindi del riscaldamento globale, che provoca reazioni a catena, come lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari, con effetti devastanti sulla natura e sulla vita di centinaia di milioni di persone. Per provare a limitare gli effetti nocivi del riscaldamento globale, nel 2015 è stato stipulato l’accordo di Parigi fra gli Stati membri delle Nazioni Unite, che ha stabilito l’obiettivo di mantenere l’aumento la temperatura globale sotto i 2 gradi entro il 2030. Le ambizioni dell’Ue sono ancora più alte: ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 e raggiungere le zero emissioni entro il 2050, grazie al Green Deal, un insieme di iniziative politiche nel campo del clima, dell’energia, dei trasporti e della fiscalità che puntano a far diventare l’Europa il primo continente a impatto climatico zero. Tutte queste misure, però, da sole non bastano: deve necessariamente accompagnarsi un cambiamento radicale delle abitudini e dello stile di vita dei Paesi più sviluppati. Un invito a vivere in modo più armonioso con l’ambiente che ci circonda e, soprattutto, a rallentare dai ritmi frenetici a cui siamo abituati. Non a caso, negli ultimi anni diversi esperti e studiosi hanno iniziato a parlare di slow living, decrescita felice e slow productivity, ovvero di stili di vita alternativi e più sostenibili e di nuovi indici di sviluppo che non prendano in considerazione solo la produttività ma anche il benessere delle persone. Lo slow living o slow life, letteralmente “vita lenta”, è una filosofia di vita che critica la frenesia del modello capitalista mentre prende a modello la lentezza e la ciclicità dei ritmi della natura. 

Coniato negli anni ’80, lo slow living è nato come risposta alla globalizzazione e a un sistema basato sulla velocità e su una modalità usa e getta delle risorse. A differenza di altre culture, come quella induista e buddista, in quella occidentale, infatti, il tempo segue uno schema lineare: è una risorsa finita e limitata che dev’essere sfruttata subito e al meglio. Il modo più semplice per farlo è ovviamente aumentando la velocità – di produzione, di consumo, di ritmi –, in una sorta di gara a tappe verso un traguardo che si rivela però illusorio perché irraggiungibile. La fretta, però, è spesso cattiva consigliera e, se unita a elevati ritmi di lavoro, comporta rischi più alti di burnout, problemi di salute mentale e aumento del turnover dei dipendenti, e quindi, un calo della produttività. Come spiega l’esperto di produttività Chris Bailey, quando abbiamo esaurito le nostre energie, è impossibile essere produttivi. Soltanto staccando la spina, possiamo ricaricare le batterie e tornare operativi. In risposta a questo problema è nato il concetto di produttività lenta. Ridurre le ore di lavoro, come stanno facendo diverse aziende in alcuni dei Paesi più avanzati del mondo, secondo i teorici della slow productivity non basta: è tutto il sistema che deve essere ripensato a partire dalle sue fondamenta. Deve cambiare il nostro approccio al lavoro, che siano 4 o 5 giorni alla settimana, part-time o full time: se non usciamo dalla trappola dello stacanovismo e della iper-produzione, non sarà il numero di ore che dedichiamo al lavoro a fare la differenza, ma il peso e il ruolo che il lavoro ha nelle nostre vite. A questo pensiero si è affiancato nel tempo il concetto di decrescita felice, teorizzato nei primi anni Duemila dal saggista Maurizio Pallante, sulla base degli studi dell’economista Serge Latouche. Per decrescita si intende una riduzione controllata, selettiva e volontaria della produzione economica e dei consumi. Il suo obiettivo principale è quello di ripensare le relazioni tra uomo e natura in un’ottica di equilibrio ecologico, in opposizione al modello di crescita economica misurato attraverso il PIL. Un traguardo che può essere raggiunto, secondo i suoi sostenitori, soltanto applicando uno sviluppo sostenibile e utilizzando indici di sviluppo alternativi, come il World Happiness Report o l’Indice di sviluppo umano. Sempre secondo loro, la decrescita del PIL non comporterebbe un abbassamento di questi indici perché si tratta di fattori non correlati tra loro. Per i fautori di questo pensiero, infatti, la felicità delle persone dipende in misura maggiore dal benessere e non dalla ricchezza materiale. Per questo, una decrescita sostenibile potrebbe, paradossalmente, rendere le persone più felici.

Anche il sistema dell’informazione è vittima della frenesia contemporanea. Nonostante, secondo il Pew Research, ci riteniamo meglio informati sulle notizie e il 31% degli adulti è online quasi costantemente, il bombardamento mediatico a cui siamo sottoposti non è una garanzia della qualità dell’informazione, mentre l’uso compulsivo degli smartphone e dei social network ci rende sempre più depressi, soli e ansiosi, soprattutto i più giovani. L’aumento del tempo che passiamo di fronte agli schermi dei nostri telefoni, inoltre, sembrerebbe collegato al calo costante di creatività registrato tra i giovani statunitensi dagli anni ’90 a oggi. Quantità non è mai stato sinonimo di qualità. Rallentare resta quindi l’unica opzione possibile per tornare a vivere una vita più sana ma anche più attiva, e quindi creativa. I vantaggi dello slow living sono numerosi in effetti: avendo più tempo a disposizione per pensare e per immaginare, secondo la ricerca, sarebbe più facile stimolare la nostra creatività e migliorare le nostre capacità di problem solving.  


Un invito che gli olandesi sembrano aver colto al balzo: loro è infatti la pratica del cosiddetto niksen, ovvero l’abitudine di ritagliarsi del tempo per non fare letteralmente nulla. Lo scrittore cileno Luis Sepúlveda arriva addirittura a paragonare la lentezza a un gesto rivoluzionario: “È una nuova forma di resistenza, in un mondo dove tutto è troppo veloce. E dove il potere più grande è quello di decidere che cosa fare del proprio tempo”,scrive nella favola Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza. Molto prima di loro sono stati però gli antichi romani e greci a decantare nei loro testi il valore della lentezza e l’importanza dell’otium. A partire dalla celebre favola di Esopo, scrittore greco del VI secolo a.C., sulla lepre e la tartaruga, che ci insegna a non giudicare delle apparenze e che a volte ci vuole molta calma e pazienza per ottenere quello che davvero si desidera. Secoli dopo, parecchia fortuna ha avuto l’espressione “dolce far niente”, oggi spesso associata alla cultura italiana, così descritta da Plinio Il Giovane nell’ottavo libro delle Epistole: “È un pezzo che non ho letto, né scritto un verso. È un pezzo che non so cosa sia né ozio, né quiete, né infine quel neghittoso sì, ma pur beato non fare e non essere nulla”. Anche il filosofo romano Seneca, nel suo De Brevitate Vitae, ha approfondito il tema del tempo che passa e la sua gestione da parte dell’uomo. Anche se è passato alla storia come colui che invita a non sprecare il tempo prezioso, in realtà il suo messaggio è molto più profondo: non invita, infatti, a consumare il tempo che abbiamo a disposizione più in fretta e voracemente possibile, ma a riprendere in mano il controllo della nostra vita, e quindi, del nostro tempo, impegnati come siamo a pianificare il nostro futuro e presi da questioni futili e superficiali, dimenticandoci così di vivere il presente. Rallentare oggi, in un sistema votato al capitalismo e all’iperattività, è molto difficile ma serve provare a immaginare un futuro diverso, grazie all’impegno comune di individui e istituzioni, in cui le parole chiave siano “meno” e “sostenibile”. Un mondo ideale, dunque, ma non irraggiungibile, dove rallentare non è più sinonimo di insuccesso, ma un imperativo morale che può rendere le persone più equilibrate e felici e salvare il pianeta. 

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