Versatile, resistente, leggera e a basso costo, la plastica ha portato una vera e propria rivoluzione nella storia dell’umanità. Per questo è ovunque, nonostante gli effetti collaterali che la rendono un materiale estremamente nocivo per l’ambiente, dato che dei 300 milioni annui di tonnellate di rifiuti di plastica prodotti al mondo solo il 9% viene riciclato, un 12% viene bruciato negli inceneritori e tutto il rimanente finisce nelle discariche per migliaia di anni. Otto milioni di tonnellate finiscono ogni anno negli oceani, mentre il resto si degrada al punto da raggiungere la dimensione di microparticelle. Queste vengono poi assorbite dagli esseri viventi che vi entrano in contatto al punto che, come ha dimostrato recentemente una ricerca italiana, dei microframmenti si trovano persino nella placenta delle donne incinte. Ci sono settori in cui la plastica, almeno per il momento, non può essere eliminata, come in quelli medicale e farmaceutico, e altri nei quali davvero i benefici che apporta superano i danni, come nel caso della conservazione di alcuni alimenti. Ma la plastica è ancora troppo presente anche quando le alternative esistono, nonostante i rischi per la salute, di animali, piante ed esseri umani. La sua presenza e il suo contatto con l’organismo sono così pervasivi che di recente uno studio condotto dall’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e dal Politecnico delle Marche, pubblicato sulla rivista scientifica Environment International, ha per la prima volta mostrato le prove del ritrovamento di microplastiche nella placenta umana, in sei donne sane tra i 18 e i 40 anni che stavano portando avanti gravidanze non a rischio. Attraverso la microspettroscopia Raman – una tecnica di analisi dei materiali che impiega una radiazione elettromagnetica monocromatica – i ricercatori hanno identificato 12 frammenti di materiale plastico di dimensioni comprese tra i 5 e i 10 micron, dei quali tre di polipropilene (con cui sono prodotti bottiglie di plastica e tappi, tra le altre cose) e nove di materiale sintetico verniciato. La provenienza dei microframmenti è da far risalire probabilmente a cosmetici, smalto per unghie, dentifricio, creme per viso e corpo e adesivi di vario tipo. Cinque delle particelle rinvenute sono state trovate nella parte di placenta attaccata al feto, quattro erano invece nella parte che aderisce all’utero materno e tre tra le membrane che avvolgono il feto. Gli interrogativi in merito alla salute umana che emergono non riguardano più, a questo punto, solo un continuo e prolungato contatto con le microplastiche, ma anche l’esposizione che subiamo prima ancora di nascere. La nostra convivenza con la plastica, in altre parole, è più lunga e più ravvicinata di quanto si pensasse fino a oggi. I rischi per la salute di bambini in questo caso non sono ancora noti, ma le ipotesi che si possono fare non sono affatto confortanti, dato che nel corpo umano le microplastiche possono accumularsi arrivando a esercitare livelli di tossicità che inducono o potenziano le risposte immunitarie e riducono i meccanismi di difesa contro i patogeni. Questo perché risultano corpi estranei rispetto all’organismo ospite – nel caso specifico, questa reazione è dovuta all’azione della placenta, che è un’interfaccia tra il feto e l’ambiente esterno – e, come tali, scatenano reazioni immunitarie locali. Un altro effetto consiste nell’alterazione dell’uso delle riserve di energia da parte dell’organismo, cioè del metabolismo dei grassi. Nel caso specifico del feto, poi, possono essere alterate le vie di regolazione cellulare nella placenta, come i meccanismi immunitari che agiscono durante la gravidanza, la segnalazione del fattore di crescita e le funzioni dei recettori che governano la comunicazione materno-fetale. Tra le criticità sono stati ipotizzati anche problemi in gravidanza come preeclampsia e riduzione della crescita fetale, oltre a danni al metabolismo e al sistema riproduttivo. Inoltre, la plastica può funzionare a sua volta come vettore per sostanze chimiche inquinanti e additivi, che entrano così nell’organismo e possono gradualmente raggiungere alti livelli di tossicità. In ogni caso, è meglio evitare una tale esposizione alle microplastiche, che secondo i ricercatori avviene principalmente in due modi: da un lato attraverso l’apparato respiratorio e quindi il circuito ematico, dall’altro tramite l’alimentazione con l’assorbimento a opera dell’intestino. Le microplastiche, infatti, si trovano nel cibo, specialmente nei frutti di mare, nel sale marino e nell’acqua potabile, sia in bottiglia che del rubinetto. Microplastiche si trovano nel tratto gastrointestinale degli animali marini, compresi quelli che poi mangiamo, ma anche in quello umano, come ha dimostrato il loro ritrovamento in campioni di feci. Gli effetti che producono nel corso del tempo all’interno dell’organismo umano, dal momento in cui vi entrano a quello in cui vengono espulse, saranno da studiare sul lungo periodo, ma va ricordato che le microplastiche si accumulano e alcuni hanno ipotizzato una loro correlazione anche con patologie gravi come il cancro. In sintesi, respiriamo plastica e mangiamo plastica. Il materiale è presente a tutti i livelli della catena alimentare e in molti dei prodotti di cui ci cibiamo, dal formaggio – particolarmente a rischio perché gli ftalati impiegati negli imballaggi si legano chimicamente ai grassi – al pesce, che li ingerisce direttamente dal suo ambiente naturale o dai mangimi usati negli allevamenti, alle bevande in bottiglia come quelle delle bibite gasate, che nel 2020 sono state quelle rinvenute più di frequente in discariche, fiumi e parchi in 51 su 55 Paesi considerati. Il problema riguarda anche il sistema idrico: ogni anno, infatti, più di 8 milioni di tonnellate di plastica vengono riversati nei corsi fluviali e nei laghi. Alla plastica che ingeriamo con il cibo si aggiunge quella che assorbiamo con i prodotti per la cura del corpo e i cosmetici; sono realizzati a partire da leghe plastiche anche diversi tessuti (dal nylon all’acrilico al poliestere, solo per citare i più diffusi) che compongono molti degli indumenti che indossiamo e da cui, a ogni lavatrice, vengono rilasciate particelle nell’acqua. Contengono plastica le sigarette e persino diversi tipi di bustine da tè, che a contatto con l’acqua calda rilasciano microframmenti di poliestere. Questo processo riguarda anche prodotti da utilizzare a stretto contatto con l’organismo, come assorbenti e tamponi. Le microplastiche a cui il feto è esposto già in utero si aggiungono a quelle da cui sarà circondato il bambino prima e l’adulto poi. Le microplastiche ci circondano per tutta la vita, se si considera che secondo un recente studio svedese gli ftalati che impattano sull’organismo come interferenti endocrini tossici per la riproduzione si trovano nelle confezioni di hamburger, biscotti, patatine fritte e popcorn, ma anche cannucce e piatti, involucri per muffin e imballaggi per cereali da colazione. Dobbiamo quindi ridurre in modo drastico e rapido la quantità di plastica che permea ciascuna delle nostre attività quotidiane, diminuendo quella impiegata in tutti i settori nei quali non è indispensabile e migliorandone il riutilizzo e il riciclo in quelli in cui non è sostituibile. Qualche tentativo è già stato fatto, per esempio con la direttiva Ue 2019/904 – che impone il riciclo del 77% delle bottiglie di plastica entro il 2025 e del 90% entro il 2029, l’uso di materiali riciclati al 30% nel 2030 e che vieta la plastica monouso. Parte di questa misura ha però subito un rallentamento per effetto della pandemia, come la Plastic Tax, sospesa per l’emergenza Coronavirus e ulteriormente posticipata al prossimo luglio. Gli effetti saranno importanti, dato che circa la metà dei rifiuti legati a consumo e asporto di cibo che si trovano sulle spiagge è costituita da bicchieri, posate e piatti usa e getta. Proprio quella monouso rappresenta una grossa fetta del “problema plastica”, con oltre il 40% dei 300 milioni di tonnellate annui di produzione globale di materiale. Eliminare le sostanze plastiche che non ricoprono un ruolo essenziale e che danneggiano l’ambiente e qualunque forma di vita è uno dei capitoli del contrasto all’emergenza climatica che devono essere affrontati con la maggiore urgenza. Oggi sappiamo che è uno sforzo necessario per la salute di tutti, persino prima della nascita.
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