Il 5 aprile scorso un giovane podista di 26 anni, Andrea Papi, è morto a seguito di un’aggressione da parte dell’orsa Jj4 in Val di Sole, Trentino. Da giorni, la regione e tutto il Paese sono sotto shock, mentre la famiglia della vittima – comprensibilmente sconvolta – ha annunciato l’intenzione di denunciare la Provincia autonoma di Trento e lo Stato per aver reintrodotto gli orsi sul territorio. Non sono poche, poi, le voci che chiedono la morte dell’animale colpevole; al di là del desiderio di vendetta piuttosto assurdo, non hanno però tutti i torti coloro che, a partire proprio dalla famiglia di Papi, chiamano le autorità locali alle proprie responsabilità. È chi gestisce il territorio, infatti, a doversi occupare non solo della sicurezza dei cittadini, ma anche della loro educazione ambientale e civica e della salvaguardia degli habitat animali e della convivenza con essi. Tutti questi fattori sono coinvolti in una vicenda che può dire molto sul nostro rapporto con il mondo naturale, che oggi è parecchio distorto.
La notizia della morte del giovane sportivo ha scoperchiato il vaso di Pandora del problema che gli orsi rappresentano nelle province in cui da anni stanno aumentando gli avvistamenti e gli incontri ravvicinati con l’uomo. Di solito il tutto si risolve in un grosso spavento, ma, riducendosi la distanza tra animali e persone, cresce il rischio di incidenti. Stando al sito della Provincia Autonoma di Trento, comunque, in Italia, tra Alpi e Appennini si sono registrate solo due aggressioni nei confronti dell’uomo negli ultimi 150 anni, entrambe in Trentino in contesti in cui uomo e orso si sono trovati, a sorpresa, a distanza ravvicinata. “La prima – si legge sul sito – dell’agosto del 2014 sui versanti boschivi sopra Pinzolo, ad opera di un’orsa accompagnata dai suoi cuccioli nei confronti di un raccoglitore di funghi, la seconda, a giugno 2015 nei boschi di Cadine, ancora ad opera di una femmina accompagnata da cuccioli nei confronti di un podista con cane”. Nel momento in cui scriviamo, quindi, il sito non è aggiornato dato che la stessa Jj4, l’orsa che ha aggredito Papi, già nel 2020 era stata responsabile di un’aggressione ai danni di due escursionisti, scampando per un pelo alla cattura e all’uccisione, bloccata in quel caso dal Tar, anche in considerazione del fatto che l’orsa aveva tre cuccioli ancora dipendenti da lei. Emerge, comunque, che tutte le aggressioni sono avvenute in anni recenti, in particolare dal 2014, e tutte nella stessa provincia, che non sembra, quindi, ben organizzata in quanto a convivenza con la fauna selvatica. Se, da un lato, la copertura boschiva dell’Italia è in crescita, dall’altro è vero che questo dato non è accompagnato da una consapevolezza della popolazione nel rapportarcisi; inoltre, buona parte del territorio nazionale è fortemente cementificato e anche le aree apparentemente naturali sono spesso in realtà antropizzate, cosa che rende più probabili gli incontri con gli animali selvatici, che spesso si avvicinano attratti dai resti di cibo nella spazzatura.
Quanto a Jj4, è probabile che stavolta non sarà altrettanto fortunata. Di lei si sa parecchio proprio perché era monitorata da tempo: ha 17 anni ed è nata in Trentino da due esemplari provenienti dalla Slovenia, ricollocati tra il 2000 e il 2001, nell’ambito del progetto Life Ursus, che oggi è l’altro imputato sotto i riflettori. Si tratta di un progetto realizzato da Parco Adamello Brenta, Provincia Autonoma di Trento e Istituto Nazionale della Fauna Selvatica, con finanziamenti dell’Unione Europea destinati a ricostituire un nucleo vitale di orsi nelle Alpi Centrali, dove si stava estinguendo. L’obiettivo era di arrivare in qualche decennio a 40-60 esemplari, che si prevedeva si sarebbero poi espansi nelle province limitrofe. Forse per effetto di valutazioni errate o di una cattiva gestione, oggi si è al paradosso: il numero di orsi ha superato le previsioni e sembra che l’intento iniziale del progetto di ripopolamento si stia ribaltando, passando dalla protezione degli animali alla loro uccisione; si pensa così di risolvere un problema più ampio: il fatto che non siamo capaci di convivere con le altre specie. Non solo abbattiamo foreste distruggendo interi habitat, ma non riusciamo a rispettarle nel poco spazio che accettiamo di riservare loro.
Di fronte al risveglio di una paura atavica del pericolo che si nasconde nel bosco, l’opinione pubblica ha bisogno di individuare il colpevole di tragedie e avvenimenti che non riesce a collocare nel proprio orizzonte di senso. In questo caso tra i colpevoli rientra un orso, o addirittura la popolazione di orsi tutta, indistintamente, anche se non è del tutto corretto parlare di “colpa” quando si parla di un animale spaventato da un uomo, che vede come una minaccia per la prole e come un invasore del proprio territorio. L’orsa, di fronte al pericolo, agisce con le armi della paura, con gli strumenti che un esemplare della sua specie ha a disposizione per proteggere sé e soprattutto i propri cuccioli. Questo non significa che bisogna ignorare le richieste di aiuto di una popolazione spaventata, che vuole giustamente vivere la propria vita senza il terrore di essere attaccata da un carnivoro di oltre un quintale ogni volta che esce a fare una passeggiata. Il rischio è di essere spinti dalla paura allo stesso modo quando agiamo, magari vedendo nell’animale la logica di un comportamento umanizzato, che in realtà non gli appartiene. E in nome della colpa dell’assassino vogliamo assicurarlo alla giustizia umana. Di più: alla legge del taglione, il cui desiderio di vendetta solo i crimini più atroci e le paure più radicate risvegliano.
Perché la natura che esce dal tracciato in cui l’abbiamo costretta ci spaventa e, se un animale esce dai limiti che gli abbiamo attribuito, non corrispondendo più all’immagine rassicurante che vogliamo averne, va eliminato. Ma se un fungaiolo della domenica cucina il proprio raccolto senza averlo prima sottoposto all’esame micologico e si sente male – o, peggio, muore – dopo la scorpacciata, la responsabilità non è dei funghi. È la persona a doversi comportare in modo prudente e responsabile, a maggior ragione quando si avventura in territori in cui possono esserci pericoli. Si può e si deve, invece, rilevare la responsabilità delle autorità sia in termini di sicurezza del territorio, sia di educazione dei cittadini. In effetti, pare che la Provincia autonoma di Trento abbia delle responsabilità non da poco, come ha sottolineato l’ex ministro dell’ambiente Sergio Costa, secondo il quale avrebbe rifiutato un piano di convivenza con gli orsi che prevedeva, tra le varie iniziative volte alla riduzione dell’indice di rischio, il monitoraggio degli animali in tempo reale, un sistema di informazione per la popolazione e un piano di gestione dei rifiuti che riducesse al minimo la probabilità di attrarre gli animali vicino alle case. Il vero problema, quindi, non sono tanto gli orsi in sé, quanto una gestione errata o quantomeno approssimativa degli ambienti naturali da parte dell’essere umano e la perdita della sua capacità di relazione con essi.
Chi oggi inneggia all’abbattimento dell’orso assassino, in nome di “Occhio per occhio, dente per dente”, sta forse puntando l’attenzione su quello che non è l’aspetto centrale di questa drammatica vicenda; forse dovrebbe puntarla, invece, sul fatto che una parte della responsabilità della morte di Papi è anche nostra. Intanto le autorità cercano di correre ai ripari pianificando il trasferimento degli orsi dalle aree problematiche individuate dal ministero dell’Ambiente e dalla Provincia Autonoma di Trento insieme a un tavolo tecnico a cui siederà anche l’Ispra; la Provincia deciderà sull’abbattimento degli esemplari aggressivi – si parla di almeno tre animali – cercando di mettere così una toppa – violenta – a una situazione che invece non vede investimenti per la prevenzione, che potrebbe essere attuata per esempio attraverso corridoi faunistici per lo spostamento degli animali senza pericoli. A sottolinearlo è in particolare Alessandro Piacenza, responsabile per la fauna selvatica dell’OIPA (Organizzazione Internazionale Protezione Animali), che evidenzia anche l’importanza dell’informazione della popolazione.
Proprio quello di educazione e sensibilizzazione è un punto centrale. Vicende come questa, infatti, mettono in luce le lacune sempre più vaste dell’educazione ambientale e la mancata alfabetizzazione nel rapportarsi con la natura, anche in regioni in cui il contatto con questa è più frequente, come le aree boschive del Trentino Alto Adige o quelle montane del centro Italia. Un esempio di gestione funzionante però esiste: è quello realizzato nel Parco nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise in cui gli spostamenti escursionistici sono regolamentati sulla base della maggior o minor sicurezza delle aree e della presenza e degli spostamenti degli animali selvatici, con zone di riserva integrale e di riserva generale nelle quali è vietato uscire dai percorsi e dai sentieri segnati. E nel Parco, in effetti, non sono mai stati segnalati particolari problemi di convivenza tra orsi e umani. Questo modello, però, purtroppo non è lo standard a livello nazionale, ma solo un esempio virtuoso che avrebbe molto da insegnare agli enti gestori provinciali e regionali.
In ogni caso, la questione degli orsi è solo uno dei segnali del fatto che abbiamo perso la consapevolezza degli spazi naturali e degli habitat animali, della loro fragilità e della loro pericolosità. Quella che ai nostri occhi è natura bucolica può essere in realtà innanzitutto l’habitat di un animale schivo ma potenzialmente pericoloso, mentre noi siamo solo una tra le tante specie che popolano il territorio – anche se scoprire di non esserne gli assoluti padroni ci terrorizza. Dobbiamo riflettere sul confine tra paesaggio antropizzato e natura e su come rapportarci a esso. Come scrive l’antropologo Andrea Staid, la grande sfida del futuro è pensare l’ambiente come un territorio di relazioni e non come qualcosa da dominare; lo stesso Staid riflette sul fatto che “se l’ambiente diventasse per noi un’entità complessa da considerare fisicamente, ecologicamente e cognitivamente, potremmo percepirlo come un bene comune da condividere con gli altri animali e con le piante, ma soprattutto diventeremmo finalmente consapevoli del fatto che ce ne dobbiamo prendere cura con rispetto e dedizione”. Non è facile farlo, perché il nostro modello sociale e culturale è antropocentrico e predatorio. Ecco perché serve urgentemente un cambio di paradigma: ce lo dicono da anni la crisi climatica, le zoonosi e ora anche la morte di un ragazzo che poteva avere tutta la vita davanti.