A 14 anni dalle Olimpiadi estive, Pechino è l’unica città ad aver ospitato sia l’edizione estiva che quella invernale dei Giochi. Non è però questo, purtroppo, il suo record più importante: il primato sarà invece quello dell’Olimpiade con meno neve di sempre. Il governo cinese si è impegnato a garantire un evento a impatto zero, pubblicizzando l’efficienza energetica, le iniziative di riforestazione e gli impianti alimentati al 100% da energie rinnovabili. Questi piani ambiziosi non garantiscono, però, il raggiungimento degli obiettivi fissati dal Partito comunista cinese e non tolgono che queste Olimpiadi saranno le più impattanti a livello ambientale fino a oggi.
I Giochi invernali di Sochi del 2014, in Russia, sono stati giudicati i meno sostenibili della storia in base a un’analisi dei gravi danni ecologici inflitti alla città che li ha ospitati per effetto della costruzione di strutture e infrastrutture olimpiche e per l’impatto ambientale dell’innevamento artificiale, a cui già allora fu necessario ricorrere. Le Olimpiadi di Pechino hanno promesso di differenziarsi, ma le premesse non sono delle migliori: la Cina vanta numerose delle città più inquinate del mondo e nell’ultima settimana di gennaio nella capitale la concentrazione del Pm2,5 ha raggiunto i 205 microgrammi per metro cubo, un livello quattro volte maggiore rispetto a quello ritenuto sicuro, mentre le concentrazioni di ozono sono state di 149 microgrammi per metro cubo, anche queste ben sopra gli standard massimi fissati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La piantumazione massiccia di alberi e l’apertura di nuove centrali eoliche e solari che la potenza asiatica ha attuato negli ultimi tempi sono misure che rientrano nel contesto degli investimenti green del Presidente Xi Jinping, ma con la prospettiva del 2050 il percorso green della Cina è appena agli inizi.
Oltre al problematico inquinamento atmosferico, ad allarmare nei Giochi di Pechino è l’assenza di neve. I vertici del Comitato olimpico Internazionale hanno espresso preoccupazione per il fatto che quest’inverno nella zona interessata dai Giochi la prima nevicata sia arrivata soltanto il 14 gennaio, con circa tre mesi di ritardo rispetto alla norma, e che in tutte le località delle gare le quantità delle nevicate sono molto scarse. Tutto questo fa sì che, a meno di sorprese meteorologiche, quelle pechinesi saranno ricordate come le prime Olimpiadi invernali rese possibili dalla neve artificiale, anche se, purtroppo, probabilmente non saranno le ultime.
È già da qualche anno, in realtà, che la Cina tenta diverse strade per salvare sport e turismo invernali: a inizio 2017 il governo annunciò un progetto milionario per modificare le precipitazioni con il sistema del cloud seeding, una tecnologia conosciuta da tempo ma ancora non convincente né affidabile, che consiste nell’innescare la formazione di cristalli di ghiaccio direttamente nelle nuvole, tramite l’aggiunta di particelle di ioduro d’argento, fatta impiegando aerei o razzi, per provocare piogge o nevicate. Chiaramente questa strategia non è risolutiva: oltre all’enorme impatto ambientale dei mezzi usati, sarebbe imponente anche il costo, tanto da rendere proibitivo lo svolgimento stesso degli eventi sportivi se ci si dovesse basare largamente sul cloud seeding.
Per ora si punta sull’innevamento artificiale: diversi giorni prima dell’inaugurazione a Zhangjiakou, una delle località dei Giochi di Pechino, sono stati in azione i cannoni per innevare le piste. Ma anche questa non è una soluzione soddisfacente perché la neve artificiale richiede grandi quantitativi di acqua ed energia: circa 4mila metri cubi d’acqua e 25mila kWh di energia per ettaro di pista innevata. E se si vogliono prendere per buone le rassicurazioni di Pechino sul fatto che il prelievo d’acqua non sta riducendo le risorse idriche locali a uso della popolazione, è invece certo che l’ambiente ne risulta danneggiato, non solo per il dispendio energetico, ma anche perché la neve artificiale contribuisce all’erosione dei suoli – essendo più pesante e compatta di quella naturale – e può inquinare il terreno tramite gli additivi impiegati per produrla. È un impatto ancora difficile da quantificare, che riguarda non solo la Cina ma tutte le località sciistiche, e che si aggiunge a quello complessivo dovuto alla costruzione di piste e impianti di risalita a scapito della vegetazione; a questo si aggiungono poi l’edilizia turistica e il traffico che arriva in ecosistemi fragili come quelli di montagna, dove frammenta e intacca gli habitat della fauna locale, riduce la biodiversità e porta inquinamento luminoso e acustico.
Se questi fattori suscitano l’interesse di pochi addetti ai lavori, è bene ricordare che la neve artificiale può rappresentare un problema anche per la sicurezza degli atleti: la riduzione del manto nevoso e la necessità di ricorrere a quella artificiale per rendere possibili le gare possono metterli a rischio; a sottolinearlo è uno studio dedicato al futuro delle Olimpiadi alla luce della crisi climatica basato su un sondaggio su 339 atleti professionisti e allenatori di 20 Paesi in relazione a parametri come nebbia, neve fresca farinosa, neve artificiale, ghiaccio e vento. La ricerca rileva come la frequenza di condizioni di gara non eque e non sicure per gli atleti sia aumentata negli ultimi 50 anni in tutte le località che hanno ospitano i Giochi invernali. C’è da chiedersi fino a quando gli atleti saranno disposti ad accettare questi rischi per competere.
Oltre ai rischi, anche il fattore economico per permetterli è una criticità sempre più pressante per gli sport invernali. Il problema va molto più in là dei Giochi di Pechino, dato che, se non verrà applicato l’accordo di Parigi, entro la fine del secolo tra le varie ex sedi delle Olimpiadi invernali si potrà sciare ancora solo a Sapporo, in Giappone, sede dei Giochi nel 1972, ma già entro il 2050 non si scierà più a Bardonecchia, Cortina d’Ampezzo, Saint Moritz, Chamonix, Innsbruck, Calgary, Salt Lake City e Vancouver. Applicando l’Accordo di Parigi, invece, qualcuna di queste località potrà ancora essere praticabile. Non saranno altrettanto fortunate Sochi, come anche nessuna località nei Balcani e nelle Alpi, dove l’aumento delle temperature rispetto alle medie preindustriali è stato di due gradi, il doppio rispetto a quello registrato nell’emisfero nord nel suo complesso.
Il problema non riguarda solo i grandi eventi sportivi, ma tutto il turismo invernale, dal momento che le alte temperature sono un fattore limitante per il turismo d’alta quota, anche perché riducono la durata della stagione sciistica. Per le Alpi sarebbe una catastrofe economica: si dovrebbe dire addio ai 60-80 milioni di turisti – senza contare coloro che vi si recano solo per sciare in giornata – che annualmente le visitano secondo i calcoli dell’Ocse, che già nel 2006 metteva in guardia dalle disastrose conseguenze economiche della crisi climatica. Si tratta di un comparto che in Italia vale complessivamente 60mila posti di lavoro e 12 miliardi di euro di fatturato l’anno, ora in crisi non solo per le restrizioni anti-Covid, ma sempre più anche per l’emergenza climatica. Trattandosi di una forma di turismo molto concentrata, con solo l’8,3% dei comuni delle Alpi che basano la loro sussistenza sul settore, con l’aumento delle temperature e dei prezzi delle villeggiature intere località potrebbero svuotarsi del tutto, peggiorando la situazione della montagna.
Bisogna iniziare a considerare l’impatto degli impianti sciistici e degli eventi sportivi, ma anche a ripensare all’economia delle nostre montagne. Possibili soluzioni riguardano la riduzione dell’impatto delle infrastrutture stesse. Oggi è ancora troppo elevato perché in occasione di grandi eventi spesso non si utilizzano gli impianti già esistenti, che vengono smantellati per costruirne di più grandi e moderni. A questo si somma la realizzazione di collegamenti stradali, che richiede di smuovere ampie porzioni di terreno, rendendo più difficile il rimboschimento.
Con le temperature medie globali che continuano ad aumentare, tutte le strategie e soluzioni a nostra disposizione non sembrano abbastanza per allontanare la prospettiva che in pochi decenni i Giochi olimpici invernali si trasformino in un ricordo di un’altra epoca.