Perché è diventato impossibile riparare ciò che possediamo?

Secondo l’Unione europea, dal 2004 al 2012 gli elettrodomestici che hanno richiesto sostituzione entro cinque anni dall’acquisto sono passati dal 3,5 all’8,3%. Un dato più recente ha anche evidenziato come il 10% delle lavatrici finite in discarica avrebbe meno di cinque anni di vita, mentre la durata media degli smartphone è di appena tre.

Gli elettrodomestici e gli altri dispositivi elettronici durano troppo poco e questa tendenza sembra un trend in crescita. “Un tempo le cose duravano di più” è una frase che si sente ripetere spesso alle persone più anziane, ma questo è vero non per una minore qualità dei prodotti, quanto per una scelta precisa delle aziende. L’obsolescenza programmata è una strategia che definisce il ciclo vitale di un prodotto in modo da limitarne la durata a un periodo prefissato, e da evitare la saturazione del mercato. In questo modo si tutela un’economia basata sul consumo, nonostante esistano tutte le competenze tecniche per produrre oggetti in grado di durare a lungo. Nel 2018, Apple e Samsung sono state multate dall’Antitrust italiana proprio per questo motivo. Si è trattato di una sentenza storica, con sanzioni per le due società rispettivamente di 10 e 5 milioni di euro per la violazione degli articoli 20, 21, 22 e 24 del Codice del Consumo. Secondo l’Antitrust, “Le società hanno infatti indotto i consumatori – mediante l’insistente richiesta di effettuare il download e anche in ragione dell’asimmetria informativa esistente rispetto ai produttori – a installare aggiornamenti su dispositivi non in grado di supportarli adeguatamente, senza le fornire  informazioni idonee, né alcun mezzo di ripristino delle originarie funzionalità dei prodotti”.

Tim Cook

I dispositivi che si rompono dopo pochi anni, o l’obbligo imposto dalle grandi compagnie di avvalersi esclusivamente del proprio personale per le riparazione a causa dei pezzi di ricambio unici, spingono molti consumatori a evitare la riparazione quando la loro lavatrice o lavastoviglie smette di funzionare. Il risultato è che nella maggior parte dei casi si sceglie l’acquisto di un nuovo prodotto, innescando una spirale viziosa a livello ambientale: si forza il ciclo produttivo, con tutta la richiesta di risorse che questo comporta, per soddisfare la domanda di nuovi elettrodomestici dovuta alla loro non riparabilità. Oltre allo spreco di materie non rinnovabili, si alimenta il problema dei rifiuti con sempre più dispositivi semi-nuovi che passano e stazionano nelle discariche prima di entrare nei lunghi e dispendiosi iter di smaltimento. Per combattere questo fenomeno e tutelare i consumatori, così come per ridurre l’impronta ecologica di ciascuno di noi, da alcuni anni si sta affermando con sempre più forza il right to repair, il diritto alla riparabilità.

A ottobre l’Unione europea ha approvato una normativa che vedrà la sua applicazione nel 2021 e che di fatto impone alle aziende produttrici di una ristretta categoria di elettrodomestici di assicurare ai clienti il diritto di riparazione, in uno spazio temporale di almeno 10 anni dall’acquisto. Saranno coperte lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi e apparecchi destinati all’illuminazione, mentre per il momento sono esclusi altri dispositivi come gli smartphone. “In sostanza, i produttori dovranno garantire ai consumatori maggiori possibilità di risolvere un guasto chiamando un qualsiasi tecnico abilitato e non per forza quello che porta il marchio dell’azienda”, spiega il portale di informazione legale La Legge per Tutti, “Il cliente finale, inoltre, eviterà di comprare un apparecchio nuovo, magari di un modello successivo arrivato nel frattempo sul mercato”.

Tony Domanski

Le novità legislativa dell’Ue vuole intervenire sulle scelte di consumo dei cittadini comunitari, ma nasce e si sviluppa anche sulle considerazioni di specifici studi ambientali sul tema. L’European environmental bureau (Eeb) ha realizzato un rapporto dal titolo “Coolproducts don’t cost the Earth” a proposito dell’impatto climatico dei dispositivi di elettronica domestica in rapporto al loro utilizzo e all’energia necessaria per realizzarli. Dallo studio pubblicato nel settembre 2019 è emerso che se si allungasse la durata media di questi apparecchi di un solo anno si avrebbe un risparmio di emissioni di anidride carbonica annuale a livello europeo pari a 2 milioni di automobili. Se si arrivasse a un prolungamento di 5 anni, le tonnellate di CO2 “risparmiate” sarebbero 10 milioni, l’equivalente delle emissioni di 5 milioni di veicoli. Fare durare più a lungo i dispositivi domestici è allora una scelta sostenibile che non deve venire solo dai cittadini, ma soprattutto da parte delle aziende. La nuova legislazione europea sul right to repair, così come le recenti sentenze dell’Antitrust, vogliono intervenire proprio su questo punto.

La sensibilità sul tema sta crescendo anche negli Stati Uniti. La California e altri 19 Stati hanno una legge sull’argomento in fase di discussione: in breve questa obbligherebbe i produttori di dispositivi elettronici a fornire ai clienti un documento con le informazioni relative ai componenti riparabili, agli strumenti necessari e agli strumenti diagnostici. Di recente la questione è entrata anche nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2020. “Oggi nelle zone rurali degli Stati Uniti gli agricoltori non possono nemmeno riparare i propri trattori o altre attrezzature a causa dell’avidità di aziende come la John Deere”, ha dichiarato a giugno il candidato alle primarie democratiche Bernie Sanders, promettendo “una legge nazionale sul right to repair che conferisca agli agricoltori degli Stati Uniti i diritti sui macchinari che acquistano”. Sulle colonne del New York Times, intanto, lo scorso novembre è comparso un lungo editoriale firmato da una capitana e ufficiale logistico dei Marines, Elle Ekman, a proposito del diritto alla riparabilità in ambito militare. Nell’articolo si sottolinea come i soldati sul campo spesso perdano notevoli quantità di tempo in attesa che le apparecchiature rotte vengano spedite negli Stati Uniti, riparate e rispedite nei teatri operativi. I contratti e le licenze prevedono questo iter, nonostante un right to repair militare permetterebbe di ottimizzare i tempi e avrebbe ripercussioni positive anche sul piano strategico. “Cosa succederà quando le apparecchiature si romperanno da qualche parte con scarsa comunicazione e trasporti? Il Dipartimento della Difesa rimarrà impantanato a causa delle clausole contrattuali sulla riparazione?”, si chiede Ekman.

the-vision-partito-democratico-sanders
Bernie Sanders

Mentre il right to repair è sempre più presente nelle agende politiche statunitensi ed europee, anche in Italia l’attenzione sul tema è in crescita. La pressione sulle istituzioni europee per l’approvazione della nuova normativa arriva anche dal nostro Paese, dove nell’ottobre del 2018 è stata lanciata una petizione su Change.org che ha raccolto oltre 100mila firme, per spingere i parlamentari italiani ad abbandonare la compagna di ostruzionismo e sostenere l’iter legislativo. “L’Italia deve sostenere il diritto alla riparazione, che allo stesso tempo aiuterà i nostri portafogli, e salverà il Pianeta”, si legge nel documento proposto da alcune realtà italiane impegnate nell’economia circolare, come Giacimenti Urbani e Restarters.

“Finalmente si è stabilito il concetto che gli oggetti devono essere costruiti in modo che possano essere riparabili. Ben venga una legislazione che impone nuovi criteri, non solamente per il riciclo dei materiali a fine vita degli oggetti, ma proprio per la loro riparazione”, sostiene Savino Curci, coordinatore di Restarters Milano. “Il risultato dell’Unione europea ci soddisfa, ma c’è ancora tanto da fare. Quello su cui dobbiamo spingere ora è che manuali, pezzi di ricambio e via dicendo siano disponibili per tutti e non solo per i professionisti”. I Restarters, infatti, salvaguardano il lavoro dei riparatori multimarca, che si contrappongono ai centri di riparazione autorizzati dalle grandi aziende che spesso hanno il monopolio della riparazione. Vorrebbero però andare oltre, dando a ciascuno di noi i mezzi per sistemare i propri dispositivi danneggiati, senza che il sistema obblighi con viti non svitabili, termosaldature e altri espedienti a ricorrere all’assistenza esterna. I Restarters organizzano dei veri e propri party in giro per l’Italia, a cui possono partecipare tutti i cittadini con le loro apparecchiature danneggiate. “Facciamo la riparazione insieme a chi ci porta l’oggetto, non tanto per far vedere quanto siamo bravi, quanto per mostrare come chiunque, senza la necessità di grande strumentazione, può provare a riparare i propri beni”, spiega Curci. “Nel 60-70% dei casi la riparazione va a buon termine e si riesce effettivamente a rigenerare il dispositivo”.

Alla base dell’attività dei gruppi come Restarters c’è la filosofia della condivisione, in particolare delle competenze, ma anche un principio ecologico relativo all’economia circolare e alle salvaguardia ambientale. “La riparazione dei nostri oggetti, al posto del ricambio, si traduce in una minore immissione di anidride carbonica in atmosfera. Per esempio, se tutti gli smartphone in Europa durassero in media 4 anni, invece che 3, sarebbe come tagliare di punto in bianco l’inquinamento causato da milioni di automobili”, conclude Curci.

Riparare è una scelta green, ma soprattutto è sempre più alla portata di tutti. Prolungare la vita dei dispositivi elettronici è una di quelle azioni individuali che sommate possono davvero iniziare a fare la differenza nel gestire l’emergenza ambientale.

Segui Luigi su The Vision | Twitter | Facebook