La rivoluzione verde è fragile, basata su risorse minerarie scarse, fonti di guerre e sfruttamento - THE VISION
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Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha annunciato un obiettivo rivoluzionario per il 2035: eliminare del tutto la dipendenza del Paese dai combustibili non rinnovabili per produrre energia. Anche la Commissione Ue ha adottato un programma ambizioso, “Fit for 55”, che punta a ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030. Anche Londra, entro il 2024, intende chiudere gli ultimi impianti a carbone ancora operativi in Gran Bretagna, per tagliare il traguardo delle emissioni nette a zero entro il 2050. Xi Jinping, il presidente della Cina, la potenza asiatica che da sola produce un quarto dei gas serra al mondo, un anno fa ha dichiarato di voler raggiungere la neutralità carbonica, ovvero “emissioni zero”, entro il 2060 e garantisce che il suo picco di emissioni di gas serra si esaurirà entro il prossimo decennio.

Sembrerebbe quindi che alcuni tra i Paesi più sviluppati e benestanti del mondo, e anche più inquinanti, siano destinati ad abbandonare per sempre i combustibili fossili e passare alle fonti di energia rinnovabili, come il vento e il sole. Questa transizione, però, difficilmente potrà avvenire in modo disteso e pacifico. Come spiegato in un articolo del marzo 2017 su Nature, riportato anche nel rapporto della Banca Mondiale del 2017 “[…] una transizione verso una società ad emissioni zero [è] un cambiamento che richiederà ingenti quantità di metalli e minerali. Le risorse minerarie e il cambiamento climatico sono estremamente legati, non solo perché l’attività estrattiva richiede una grande quantità d’energia, ma anche perché il mondo non potrà affrontare il cambiamento climatico senza un’adeguata fornitura di quelle materie prime necessarie alla produzione delle tecnologie verdi.”

Un ruolo, quello ricoperto dai metalli necessari per le fonti di energia rinnovabili, che sarà sempre più importante nei prossimi anni e che potrebbe causare futuri conflitti e tensioni geopolitiche, proprio com’è sempre avvenuto per i combustibili fossili. Nel libro La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica digitale, il giornalista francese Guillaume Pitron ripercorre i processi di produzione dell’energia “verde”, dall’estrazione dei metalli rari al loro impiego nella produzione di energia elettrica. Un lavoro di inchiesta durato sei anni e corredato di interviste con funzionari, esperti e attivisti, che ha l’obiettivo di svelare le contraddizioni di una “rivoluzione verde” che promette di essere “pulita” e “ totalmente sostenibile”, ma che si poggia su basi piuttosto fragili: la rarità dei metalli e un sistema di produzione capitalistico che alla lunga si rivelerà impossibile da mantenere.

Cobalto, rame, gallio, berillio, litio, tungsteno, nichel, zinco e terre rare (scandio, ittrio e lantanoidi): questi sono solo alcuni dei metalli rari necessari alla fabbricazione di pannelli fotovoltaici, motori elettrici, marmitte catalitiche e infrastrutture ICT. Il problema è che sono molto scarsi, più del petrolio, e concentrati in poche aree del mondo. Le terre rare, in particolare, sono molto richieste perché di fondamentale importanza per molteplici applicazioni, dai sistemi d’armamento agli schermi LED, e per questo potrebbero diventare un motivo di scontro geopolitico, soprattutto con la Cina, leader in questo campo, nel travagliato percorso di transizione energetica e digitale che abbiamo appena iniziato.

Ad oggi, l’energia eolica e quella solare contribuiscono al 10% circa della produzione globale di energia, mentre i veicoli elettrici rappresentano circa l’1% dei mezzi in circolazione, con un balzo impressionante nell’ultimo anno, nonostante la pandemia: nel 2020 le vendite di macchine elettriche sono aumentate del 49% rispetto all’anno precedente. Come mostra il Global Electric Vehicle Outlook 2021, sono state le politiche mondiali di incentivo all’acquisto di veicoli elettrici che hanno permesso la straordinaria crescita del settore. Secondo le stime, nel 2030 i veicoli elettrici potrebbero raggiungere una cifra compresa tra le 145 e le 230 milioni di unità, coprendo il 12% del mercato mondiale di auto, in base allo sforzo messo in campo dai governi per contrastare la crisi climatica.

Oggi, quindi, la produzione di questi minerali, è ancora più o meno proporzionata alla domanda. Tuttavia, se gli Stati Uniti e le altre potenze mondiali punteranno esclusivamente sulle fonti rinnovabili, come si evince dalle loro dichiarazioni e dagli obiettivi di politica ambientale ed energetica firmati, la loro domanda salirà alle stelle con inevitabili ripercussioni sul commercio globale delle risorse interessate. Basti pensare che un’auto elettrica richiede sei volte il quantitativo di minerali di un veicolo convenzionale a benzina, e tra questi c’è il rame per il cablaggio elettrico, il cobalto, il litio, la grafite e il nichel necessari per le batterie, la resistenza e la densità di energia e le terre rare, che sono fondamentali per i magneti permanenti montati nei motori elettrici.

Secondo un recente studio dell’Agenzia Internazionale per l’energia (Iea), se il mondo si impegnerà a sostituire rapidamente veicoli a petrolio con quelli elettrici nel 2040 la domanda di litio potrebbe essere 50 volte superiore a oggi e quella di cobalto e grafite 30 volte maggiore. Inoltre, a differenza del petrolio e del gas naturale, alcune di queste risorse sono fortemente concentrate in poche aree del pianeta, che sono, tra l’altro, fra le più instabili, povere o repressive al mondo. Sempre secondo l’Iea, la Repubblica Democratica del Congo produce da sola più dell’80% del cobalto mondiale, la Cina il 70% delle terre rare; la produzione di litio è invece affidata ad Australia (58%), Cile (20%), Argentina (6%) e ancora alla Cina (11%), che insieme coprono il 95% dell’offerta mondiale.

Non è improbabile che una così scarsa disponibilità di metalli preziosi, unita ad un’alta concentrazione in pochi Paesi geograficamente lontani dagli Stati Uniti – a oggi ancora la principale potenza militare del pianeta – possa scatenare nel futuro prossimo conflitti e attriti geopolitici fra le maggiori potenze del pianeta, com’è già accaduto in passato per il controllo delle aree produttrici di petrolio in Medio Oriente. Come se non bastasse, l’estrazione sotterranea di minerali e il conseguente processo di raffinazione comportano spesso l’uso di acidi, sostanze tossiche e grandi quantità d’acqua, che causa l’inquinamento del suolo, dei fiumi e dell’atmosfera circostante, ma anche gravi problemi di salute, con un aumento esponenziale dei casi di cancro registrati in prossimità dei giacimenti.

A fare un uso massiccio e sconsiderato di queste sostanze è soprattutto la Cina, che conta circa 10mila miniere, con conseguenze ambientali e sanitarie disastrose. Un caso esemplare è rappresentato dalla provincia cinese Jiangxi, la più grande area di estrazione dei metalli rari del Paese. Qui, l’acqua usata per la raffinazione, avvelenata da acidi e metalli pesanti, viene sversata nei fiumi, creando un territorio inadatto alla vita e alla coltivazione. O ancora, le miniere di Baotou, nella Mongolia Interna, dove gli agricoltori vivono nei cosiddetti “villaggi del cancro” respirando aria tossica. Una situazione che potrebbe diffondersi rapidamente in tutte quelle regioni del mondo dove sono presenti grandi giacimenti di metalli rari, se la domanda – come mostrano gli studi – dovesse crescere in modo esponenziale e se le potenze occidentali continueranno a incentivare la delocalizzazione delle proprie industrie inquinanti.

La corsa agli investimenti nel settore delle rinnovabili, in realtà, è già diventata terreno di scontro fra Cina e Stati Uniti. Secondo le stime di BloombergNEF, nel 2019 Pechino e Washington occupavano rispettivamente il primo e il secondo posto per investimenti nel settore, coprendo metà dei 282 miliardi di dollari spesi a livello mondiale. Per cercare di ostacolare la crescente sfera d’influenza della Cina nel controllo e nella vendita dei metalli rari, il dipartimento di Stato americano ha lanciato un’iniziativa, l’Energy Resource Governance Initiative (Ergi), che punta a coinvolgere partner commerciali da tutto il mondo in un grande sforzo multilaterale atto a promuovere l’estrazione in loco dei 15 minerali necessari a coprire la domanda esponenziale di componenti chiave dei motori elettrici e delle turbine eoliche. Dal canto suo la Cina detiene il 72% delle riserve di cobalto, un monopolio che si basa sulla proprietà di moltissime miniere del prezioso metallo sul territorio del Congo, che produce circa i 2/3 del mercato globale di questo materiale e che ha a disposizione la metà delle riserve mondiali. Attraverso un complesso sistema di investimenti, finanziamenti di progetti infrastrutturali e rimozione dei dazi sulle merci provenienti dal Paese africano, oggi Pechino controlla di fatto l’economia congolese, l’estrazione e il commercio dei suoi preziosi minerali.

Di fronte a uno scenario tanto incerto e complesso l’energia nucleare potrebbe rappresentare ancora una soluzione alternativa da prendere in considerazione, pur con tutti i suoi limiti e difetti. A oggi il nucleare contribuisce ancora al 10% della produzione di energia elettrica mondiale e recentemente è tornato al centro del dibattito anche in Italia, a seguito delle dichiarazioni del ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, secondo il quale “se a un certo momento si verifica che i chili di rifiuto radioattivo sono pochissimi, la sicurezza elevata e il costo basso, è da folli non considerare questa tecnologia”.

“Non abbiamo nessuna certezza che vivere senza fossili sia compatibile con la crescita che i fossili ci hanno garantito”, osserva nel suo Elogio del petrolio il professore di Economia energetica dell’Università di Torino Massimo Nicolazzi. Anzi, è molto probabile che la transizione verso fonti rinnovabili comporti una minore disponibilità energetica e ci costringa a diminuire drasticamente il volume dei nostri consumi. Affinché ciò accada, insieme al passaggio alle energie rinnovabili – che dovrà comunque essere graduale e diversificato – è necessario mettere in profonda discussione le nostre abitudini e il sistema socio-economico entro cui viviamo, oggi fondato su sfruttamento, diseguaglianze e spreco, in modo da trovare per tempo alternative in grado di attutire il colpo prodotto dal cambiamento a cui per forza di cose stiamo andando incontro. Da questo dipenderà anche la possibilità dell’auspicata  felicità della decrescita, altrimenti i fatti lasciano pensare sarà tragica.

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