Mangiare molta carne non ti rende “più maschio” ma mette a rischio la salute tua e del Pianeta - THE VISION

Nel novembre 2017, lo youtuber britannico di estrema destra Paul Joseph Watson ha pubblicato un video dal titolo The Truth about Soy Boys (La verità sui “ragazzi soia”), in cui spiegava come nel panorama politico di sinistra molti uomini, invece di bere il virile e puro latte di mucca e nutrirsi di carne, avessero iniziato a bere latte di soia e a mangiare tofu, alimenti che li rendevano deboli ed effeminati. Rifacendosi a degli studi (poi messi in discussione) sul rapporto tra fertilità maschile e gli estrogeni presenti nella soia e nei suoi derivati, infatti, Watson e svariati gruppi di estrema destra iniziarono a diffondere notizie false riguardo a una presunta minaccia nei confronti del genere maschile orchestrata dalla sinistra, dai movimenti femministi e dai censori del “politicamente corretto”. L’hashtag #SoyBoy divenne virale su Twitter e iniziò a essere utilizzato in senso dispregiativo verso quegli uomini considerati come “privi di qualunque tratto maschile”. Da un lato, infatti, c’erano i “veri uomini”: bianchi, eterosessuali, aperti sostenitori dei leader sovranisti – Trump in testa – e di una maschilità tossica che vede nel nutrirsi di carne la propria affermazione: dall’altro i nuovi maschi considerati fragili e delicati, il cui livello di testosterone si sarebbe abbassato a causa del femminismo e di una dieta priva di proteine di origine animale. 

Il rapporto tra nutrizione e identità di genere e il nesso stereotipato che porta ad associare la virilità a un consumo smodato di carne non è però un’invenzione dei movimenti di estrema destra contemporanei, quanto un retaggio patriarcale, sessista e razzista vecchio di secoli. Come spiega la scrittrice femminista Carol J. Adams nel libro Carne da macello, infatti, nelle società occidentali la carne era ed è considerata un simbolo di virilità, sia perché richiama l’immagine del cacciatore che procura il cibo per sé e per la sua famiglia, sia perché la carne ha avuto per molto tempo un elevato valore economico, per cui solo chi aveva soldi e potere poteva consumarla – e in Occidente i soldi e il potere sono tendenzialmente sempre stati nelle mani di uomini bianchi ed eterosessuali. “Chi deteneva il potere”, scrive Adams, “ha sempre consumato carne. L’aristocrazia europea si rimpinzava di piatti a base di ogni genere di carne mentre i lavoratori si cibavano di carboidrati”.

Nel Diciannovesimo secolo, ad esempio, l’alimentazione a base di carne era considerata tratto distintivo della supremazia dell’uomo bianco. Nel suo saggio, Carol J. Adams riporta a prova di ciò un testo del medico George Beard, il quale distingueva le esigenze alimentari dei “lavoratori intellettuali” e quelle dei “selvaggi”, ovvero gli appartenenti alle classi sociali “inferiori” e chiunque non fosse bianco. Secondo Beard, infatti, l’uomo bianco civilizzato aveva bisogno di carne magra per nutrire il proprio intelletto perché gli animali rappresentavano una forma di cibo più vicina a lui in termini di sviluppo, mentre i “selvaggi” potevano cibarsi di vegetali e cereali, visti invece come alimenti di seconda classe nella scala evolutiva. A sostegno di questa tesi, Beard menzionava ad esempio gli africani che mangiavano “radici, aglio, larve di formiche e cavallette” o gli arabi che apprezzavano i datteri: cibo povero, adatto solo a “poveri selvaggi e intellettualmente molto inferiori ai mangiatori di carne di ogni razza”. La ragione alla base di questa distinzione era la ricerca di una giustificazione di superiorità etnica e culturale per l’espansione coloniale: “i mangiatori di riso” cinesi e “i mangiatori di patate” irlandesi ad esempio erano giudicati inferiori e dunque sottomettibili dai più forti mangiatori di carne inglesi. 

Allo stesso modo, Adams ritiene che l’affermazione del filosofo Hegel, secondo cui gli uomini siano più vicini agli animali e le donne siano placide come le piante, sia un modo per separare nettamente e con un giudizio di valore contrapposto il maggiore prestigio della carne e la debolezza dei vegetali, e dunque la superiorità dell’uomo e la docilità della donna. Secondo Adams, però, definire la carne come elemento determinante di supremazia è fallace prima di tutto perché, nelle società occidentali, la carne non è stata per molto tempo accessibile a tutti, per cui il suo consumo contribuiva a rimarcare sia le differenze di classe sia quelle di genere. Come emerge dalla prima ricerca nazionale sulle abitudini alimentari britanniche del 1863 citata dall’autrice, ad esempio, “la principale differenza nella dieta degli uomini e delle donne della stessa famiglia era la quantità di carne consumata” e non per volontà delle donne, ma perché se la carne a disposizione era limitata, era agli uomini che l’avevano procurata che veniva servita. 

Per secoli, dunque, l’alimentazione è stata la chiave per l’espressione di un dominio maschile che reputava chiunque non corrispondesse all’identikit dell’uomo bianco come molto più vicino allo status della “bestia” che quello stesso uomo bianco mangiava e come tale poteva essere trattato, ovvero senza alcuna forma di rispetto nei confronti della sua esistenza e dei suoi diritti.

Mangiare carne, consumarla, deriva da un atto violento che non solo priva l’animale della vita, ma anche della sua identità di essere vivente, riducendolo a oggetto. Adams riconosce questo stesso stimolo nell’oggettificazione che si manifesta nel consumo di immagini femminili: “Il consumo è il compimento dell’oppressione, l’annientamento della volontà, lo smembramento dell’identità”, scrive l’autrice, facendo riferimento all’ipersessualizzazione dei corpi in numerosi contesti in cui vengono rappresentati. Adams individua un denominatore comune che risiede nella dinamica patriarcale “oppresso-oppressore” e in nell’esigenza della maschilità dominante di manifestare di continuo il proprio controllo. In una società patriarcale come la nostra, infatti, la maschilità non è mai data: è invece una caratteristica identitaria che va provata di continuo, uno standard in base al quale tutti gli uomini vengono valutati e giudicati. Ogni uomo, dunque, deve costantemente dimostrare di essere “abbastanza uomo” e per farlo si trova costretto ad assumere una serie di atteggiamenti che rimarchino quanto più possibile lo stereotipo del maschio dominante. Il consumo di proteine animali è uno di questi. 

Nonostante molti studi scientifici abbiano più volte ribadito l’urgenza di ridurre il consumo di carne rossa e carni processate, come insaccati e salumi, sono infatti ancora moltissimi gli uomini che per questioni identitarie non rinuncerebbero mai a mangiare carne. Uno studio del 2019, per esempio, ha evidenziato come negli Stati Uniti siano proprio gli uomini i maggiori consumatori di carne rossa e di carni lavorate, sostenendo di non poterne fare a meno a causa della convinzione che sia una dimostrazione della propria virilità. Allo stesso modo, è stato notato come sia gli uomini che le donne considerino gli uomini che diventano vegetariani o vegani come meno virili. Non solo: secondo uno studio del 2016 condotto dalla docente e ricercatrice Margaret A. Thomas, non è tanto l’alimentazione a base vegetale a essere considerata “femminile” (e quindi debole e incompatibile con l’identità del “vero uomo”), quanto la scelta in sé di diventare vegani o vegetariani per motivi etici. Di fronte all’affermazione di aver dovuto abbandonare la carne e i derivati animali per questioni di salute, infatti, per il momento la virilità sembra non essere messa in discussione. 

Alla scelta vegana viene associata una componente emotiva e compassionevole, sentimenti positivi che dovrebbero essere alla base delle nostre relazioni ma che nelle società patriarcali vengono considerati come tratti tipici della femminilità e che quindi il maschio dominante deve rigettare. Non è un caso che l’alimentazione vegetale sia molto più diffusa tra le donne e non tra gli uomini, e che anche la ragione alla base di questa scelta sia differente: come dicono i dati Eurispes 2021, per esempio, gli uomini che hanno optato per una nutrizione vegana o vegetariana sono stati spinti principalmente dalla volontà di abbracciare una nuova filosofia di vita e prendersi cura della propria salute, mentre le donne lo hanno fatto soprattutto per rispetto nei confronti degli animali e dell’ambiente. Sempre i dati Eurispes ci dicono anche che, se prendiamo in considerazione solo l’alimentazione vegana, sono leggermente di più gli uomini rispetto alle donne ad averla adottata in Italia nel 2021 (parliamo di un 2,7% contro un 2%): uomini che, per qualunque motivo, hanno deciso di abbandonare la carne e i derivati animali e – in qualche modo – di sfidare anche le logiche patriarcali correlate, mettendo in discussione il loro ruolo sociale e smascherando l’anacronismo e le ossessive limitazioni che definiscono lo standard di una maschilità egemonica. 

I vantaggi di un’alimentazione vegetale da un lato e l’impatto che il consumo di carne elevato ha sulla salute e sul pianeta dall’altro sono ormai ben noti a tutti. Nel 2018 l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro ha inserito le carni lavorate nella classificazione “cancerogeno di tipo 1”, a significare che esistono abbastanza elementi per sostenere che aumentino o provochino l’insorgenza di tumori, e le carni rosse nella classificazione “cancerogeno di tipo 2”, ovvero con  prove limitate a carico che dimostrino un nesso tra carne rossa e sviluppo di cancro al colon-retto. Uno studio, pubblicato nel 2020 sul Journal of the American Medical Association, ha invece rilevato come un maggiore consumo di carni rosse, carni lavorate e pollame sia associato a un aumento di malattie cardiovascolari. A questo si aggiunge che la produzione di carne è poi tra le principali fonti di emissioni di gas serra e contribuisce notevolmente al surriscaldamento globale e all’inquinamento del pianeta: è stato infatti dimostrato più volte come un minore consumo di carne e prodotti lattiero-caseari possa realmente fare la differenza in termini di impatto ambientale. 

Nonostante queste evidenze scientifiche, però, per molti uomini il futuro del nostro habitat e della loro stessa salute ha molta meno importanza dell’essere riconosciuti come “veri uomini”: meglio continuare a devastare l’ambiente e mettere a rischio la propria vita, che rischiare di essere considerati meno virili. Certo è che se la paura più grande del maschio dominante è essere associato alla sfera femminile tanto da preferire il farsi uccidere lentamente, la sua identità deve essere molto più fragile di ciò che prova a far credere.

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