Autovetture, furgoni, camion e autobus producono oltre il 70% delle emissioni di gas serra generate dai trasporti, con il restante 30% che deriva, invece, da quelli marittimi e aerei. L’intero comparto continua, quindi, a essere una delle maggiori fonti di inquinamento atmosferico da sostanze come particolato e biossido di azoto, dannose per la salute umana e per l’ambiente: nonostante un calo nell’ultimo decennio nelle emissioni atmosferiche – effetto delle norme sui carburanti e dell’uso di tecnologie più avanzate ed efficienti – le concentrazioni di inquinanti nell’aria sono ancora troppo alte e infatti l’Unione Europea pone tra i suoi obiettivi la decarbonizzazione e, in generale, la riduzione dell’inquinamento derivante dai trasporti. Per farlo, intervenire sul parco auto è uno degli interventi urgenti che avrebbero effetti positivi maggiori anche sulla vivibilità delle nostre città: elettrificare non basta – oltre a nascondere alcune insidie, come il problema del riciclo e dello smaltimento delle batterie – dato che bisogna ridurre radicalmente anche il numero complessivo di mezzi in circolazione; per farlo, bisogna puntare sui veicoli pubblici che permettono anche di ridurre il traffico cittadino, risolvendo il problema delle strade intasate di auto a cinque posti con a bordo il solo guidatore.
La soluzione del problema potrebbe, indirettamente, essere favorita dalla contingenza: l’attuale crisi economica e la guerra in Ucraina – che purtroppo non accenna a risolversi – potrebbero portare, pur nella loro drammaticità, a ripensare i nostri consumi, abitudini di trasporto comprese, in termini più sostenibili. Qualche effetto si vede, in effetti: l’acquisto di auto nuove sta vivendo la crisi peggiore dagli anni Settanta in poi ma, se il traffico non cala, è perché la gente continua a guidare la stessa vecchia auto più a lungo di quanto vorrebbe; già nel 2021 l’età media dei veicoli era cresciuta a 12 anni e due mesi, quattro mesi in più rispetto al 2020. A contribuire è stata la carenza dei componenti e, quindi, la difficoltà nel produrre auto nuove, ma anche l’aumento del costo dell’automobile stessa, che, sommandosi all’aumento del costo della vita, rende per le famiglie sempre più difficile investire in un mezzo nuovo. Anche perché il trend dei prezzi è in aumento da anni, di pari passo con la crescente presenza di elettronica a bordo, mentre pandemia, guerra, lockdown della Cina – grande produttrice di componenti – e prezzo dei carburanti fanno il resto.
Oltre al costo del veicolo, infatti, c’è quello del carburante, che ha segnato gli aumenti più consistenti, di oltre il 33% tra 2020 e 2021, anche perché soggetto da sempre alle oscillazioni geopolitiche delle relazioni tra Italia e Paesi produttori, e quindi tema sempre sensibile; oggi, non a caso, è al centro di un tira e molla sulle accise, prima tagliate dal governo Draghi, poi rimesse dal governo Meloni – non quelle sul cherosene dei jet privati, devastanti per l’ambiente, non sia mai – che, accusando nemmeno troppo velatamente i benzinai di rincarare in modo truffaldino i prezzi, ha anche dato origine a uno sciopero dei distributori. Anche il prezzo della manutenzione ordinaria e delle riparazioni straordinarie è in rialzo, del 17% abbondante, così come quello delle assicurazioni, che subiscono l’effetto della crescente inflazione: la RC Auto, ad esempio, nel solo periodo tra gennaio e aprile 2022 è aumentata di poco meno del 4%. Complessivamente, quindi, nel 2021 la spesa necessaria semplicemente a possedere e mantenere un’automobile è cresciuta di oltre il 16%, rispetto all’anno prima.
Tutti questi costi sommati indurrebbero chiunque a decidere in un attimo che l’auto è meglio abbandonarla, da mezzo inefficiente, costoso e anacronistico qual è. Il problema è che per molti non è fattibile e queste spese, quindi, non sono evitabili: si cerca di far durare di più l’auto vecchia invece di cambiarla, spendendo comunque per il mantenimento, l’assicurazione e il carburante. Soprattutto perché le alternative valide spesso non ci sono: secondo i dati del Report mondiale sul trasporto pubblico 2022 dell’app Moovit, prendere un mezzo pubblico in Italia significa – tra corse dilazionate e ritardi – aspettare un tempo che può arrivare fino alla mezz’ora, come nel caso degli utenti siciliani, più del doppio della media italiana. Anche il tempo di viaggio per arrivare a destinazione è notevole, con una media di 41 minuti e picchi che in Sicilia arrivano a un’ora e dieci di media; in alcune città del Nord, tra cui Bologna, Genova e Savona, le cose vanno meglio e si devono aspettare solo 10 minuti, per 36 minuti di percorrenza. Andare al lavoro ogni mattina a Roma è un viaggio particolarmente epico, con 7 km e mezzo percorsi in 52 minuti, come a Parigi, distanza che a Firenze si copre in 39 minuti. La situazione di Roma si conferma critica per i trasporti urbani da tutti i punti di vista, mentre Milano si attesta sulla media di altre grandi città europee.
In generale, comunque, di fronte ai tempi italiani per molti è preferibile avere un veicolo proprio, almeno per arrivare al lavoro in orario, soprattutto se per farlo di mezzi se ne devono prendere due o tre, magari con cambi da prendere al volo tra un ritardo e l’altro; e il problema riguarda a maggior ragione chi abita non in una grande città ma in provincia, dove i paesi sono spesso mal collegati tra loro e con il capoluogo, e le distanze moltiplicano la durata degli spostamenti, con tutto lo stress che questo comporta nel tentativo di incastrare in agenda lavoro, spese, commissioni e – magari – tempo libero.
Come rileva l’ultimo rapporto Pendolaria di Legambiente, gli investimenti per la mobilità previsti tra fondi nazionali ed europei, compreso il PNRR, non bastano a recuperare le lacune. Basti pensare che nel 2019 e 2020 in Italia non è stato inaugurato neanche un tratto di linee metropolitane e nel 2021 soli 1,7 km, mentre per le tranvie nel 2020 e nel 2021 non è stato inaugurato nemmeno un km e soli 5,5 km sono stati realizzati nel 2019. La situazione è impietosa, soprattutto confrontandola con il resto d’Europa, anche per le ferrovie suburbane, proprio quelle dei pendolari. Le linee dei pendolari, come suburbani e intercity, nel corso degli ultimi dieci anni hanno perso costantemente passeggeri, in parte – per chi se lo può permettere – convogliati sull’alta velocità, in parte probabilmente sul trasporto privato, esasperati dai disservizi e dai costi. Secondo Legambiente uno dei motivi del limitato utilizzo in Italia di treni regionali, metropolitane e tram, in particolare, non è solo l’inadeguatezza della rete, ma contribuiscono anche l’affollamento dei convogli e la frequenza inadeguata rispetto alla domanda; oltre a estendere la rete e migliorare l’infrastruttura, quindi, bisogna anche far sì che il servizio vada incontro alle necessità dei viaggiatori, distribuendolo meglio in termini di territorio e di fascia oraria: a oggi, infatti, ci sono servizi, anche recenti come la metroferrovia tra Messina e Giampilieri, che viaggiano con convogli semivuoti e, al contrario, altre situazioni prese d’assalto dai pendolari, soprattutto nelle aree urbane nelle ore di punta.
Se, grazie ai fondi del Recovery Plan, sono in cantiere o almeno finanziati oltre 116 km di metropolitana e 235 km di linee di tram su tutto il territorio, tuttavia manca ancora un piano organico nazionale per la mobilità sostenibile nelle aree urbane, con una legge che permetta ai Comuni di programmare e accedere ai finanziamenti necessari. Di contro, si continua a investire su strade e autostrade, che tra il 2002 e il 2019 hanno assorbito il 60% degli stanziamenti statali per la mobilità e i trasporti. Oltre a intervenire sulle infrastrutture per migliorare il servizio, per dare la spinta decisiva ai cittadini ad abbandonare l’auto in un Paese come l’Italia, dove l’abitudine alle quattro ruote è estremamente radicata, bisognerebbe incentivare, anche economicamente, i mezzi pubblici e la micromobilità; invece, i costi dei biglietti di autobus e metro sono aumentati a inizio anno, come era stato preannunciato nel 2022. Ad andare incontro ai cittadini, alle prese con il costo della vita, sono alcuni amministratori locali, come il Comune di Bari che ha ridotto il prezzo dell’abbonamento annuale degli autobus, da 250 euro ad appena 20, mentre in Emilia-Romagna prosegue il progetto Bike to work con cui i Comuni aderenti possono usufruire delle risorse della Regione per concedere bonus economici a chi va a lavoro in bici. Oggi, quindi, sono le amministrazioni pubbliche a prendere le decisioni che imprimono davvero un balzo in avanti alla mobilità sostenibile, riducendo anche il traffico cittadino. I governi, però, possono e devono fare di più per incoraggiare e sostenere queste iniziative, perché non tutti i Comuni se le possono permettere, e in diversi casi anche per convincerle, dato che non tutti gli amministratori sono illuminati e lungimiranti.
Educare i cittadini alla mobilità sostenibile è fondamentale, sensibilizzandoli sull’impatto dell’automobile e cercando di scardinare la mentalità per cui le quattro ruote sono un bene così irrinunciabile – essendo per certi versi ancora considerato uno status symbol, quando non una strategia materiale per compensare quelle che sono percepite come altre mancanze – che chi non ha un’auto viene visto come minimo come un ingenuo idealista o anche come un pazzo. Ma non bisogna scaricare sul senso civico dei singoli la responsabilità di rendere il settore dei trasporti più ecologico e meno intasato, sempre che se lo possano permettere: bisogna, piuttosto, aiutarli a fare le scelte migliori per una società più pulita e meno stressata. Non saranno certo le accise sul prezzo della benzina, infatti, a convincere i cittadini a lasciare la macchina in garage, se non hanno un’alternativa efficiente, economicamente sostenibile e compatibile con gli spostamenti che devono compiere ogni giorno.