Tra il 24 e il 25 luglio nel territorio sardo dell’Oristanese oltre diecimila ettari di bosco hanno iniziato a bruciare. Il rogo ha coinvolto in un primo momento Bonarcado e Santu Lussurgiu, per poi diffondersi verso Cuglieri, Sennariolo e Tresnuraghes, interessando anche altri più piccoli comuni del territorio. Secondo Christian Solinas, Presidente della Regione Sardegna, i danni a persone e cose non sono ancora stimabili con certezza, ma, per ora si parla di oltre ventimila ettari di territorio distrutti e di 1500 cittadini sfollati. E i roghi non sono ancora stati sedati. Secondo Coldiretti, serviranno 15 anni a ricostruire il patrimonio naturale, paesaggistico e agricolo distrutto dagli incendi. Le cause non sono ancora state individuate dalle autorità competenti, e anche se si fa sempre più strada l’ipotesi dell’origine dolosa, non si può ignorare il legame, provato da diversi studi, tra la violenza dei roghi e il surriscaldamento globale.
Tra il 2000 e il 2017 nel bacino del Mediterraneo 611 persone sono morte a causa degli incendi boschivi, soprattutto tra i soccorritori. Nel nostro Paese, secondo il più recente Rapporto sullo stato delle foreste e del settore forestale in Italia ogni anno vengono distrutti in media 107mila ettari di bosco, equivalenti all’estensione dell’intero comune di Roma. Gran parte di questo patrimonio naturale potrebbe essere salvato tramite una gestione più attenta e sostenibile del territorio, che non si limiti ad interventi punitivi nei confronti dei piromani, e che si concentri soprattutto sulla prevenzione degli incendi, ma questo avviene solo nel 18% dei casi. I grandi incendi in Italia degli ultimi anni, come quello del Monte Serra nel 2018 o quello che ha interessato la Sardegna stessa nel 2019, hanno mostrato tutta la nostra debolezza nella gestione del patrimonio boschivo, che è improntata su strategie puramente difensive, che non comprendono calcolo e prevenzione dei rischi per infrastrutture e persone. Mancano infatti, a differenza di quanto avviene in altri Paesi, rapporti periodici sulle cause di questi fenomeni, e in particolare sulle condizioni metereologiche che li favoriscono. Come sottolinea Greenpeace, la confusa ridistribuzione delle competenze dell’ex Corpo Forestale dello Stato, attivo fino al 2016, ha reso particolarmente difficile la raccolta dei dati e la realizzazione di un’analisi sistematica delle cause degli incendi.
Il discorso pubblico sulle cause dei roghi si concentra prevalentemente sulla loro accensione, quindi sulla figura del piromane, ma il vero pericolo degli incendi boschivi sta nella loro propagazione, che dipende dal clima, dall’orografia e dalle caratteristiche della vegetazione. In tutta Europa le fiamme si propagano sempre più facilmente: il 2% degli incendi è responsabile dell’80% della superficie bruciata ogni anno. Questa maggiore estensione e violenza degli incendi pare inscindibile dalla crisi climatica e dai comportamenti umani. Le variabili più influenti nella formazione di vasti incendi sono l’aumento delle temperature, le estati secche contro le abbondanti precipitazioni invernali, l’urbanizzazione non pianificata, i cambi di destinazione d’uso del suolo, le attività agricole e industriali non sostenibili e lo spopolamento delle aree rurali.
Se si guarda ai dossier pubblicati dal Corpo Forestale dello Stato, negli anni scorsi, appare chiaro come la realtà sia molto diversa da quella raccontata dai grandi media. Nell’ultima indagine pubblicata, risalente al 2017, si nota che su circa 7.800 incendi in quell’anno sono state denunciate per incendio colposo solo 429 persone. Al 22% di questi eventi non è stata attribuita una causa, e nel 57% degli incendi dolosi la causa viene ritenuta comunque dubbia. Il Report del Corpo Forestale dell’anno 2007 – anno in cui il numero di incendi furono ben 10.639 – sottolinea infatti che solo nel 7% dei casi il rogo era stato acceso “per turbe comportamentali o piromania”. Più spesso invece le cause sono le stesse attività agricolo-forestali (nel 43% dei casi) che avvengono nel totale disinteresse della salute dell’ambiente. È evidente che perfino l’origine dolosa si riallaccia al tema della gestione del territorio non sostenibile dal punto di vista climatico. Tra i tanti, basti a esempio il dato secondo cui nell’Europa meridionale il 70% degli incendi è legato al tentativo di ampliare e rendere più produttivi i pascoli.
Dai censimenti degli incendi operati dai Carabinieri Forestali, Davide Ascoli e Greenpeace hanno ricavato un collegamento con i cambiamenti climatici. La relazione tra la superficie bruciata e l’indice di predisposizione meteorologica agli incendi continua ad aumentare anno dopo anno, nonostante il potenziamento dei sistemi antincendio regionali (AIB) e della Protezione Civile a livello nazionale. Le statistiche confermano che anche in Italia si verifica il cosiddetto “paradosso dell’estinzione”: spegnendo efficacemente gli incendi in anni in cui le condizioni climatiche sono miti e nella norma, diventiamo meno capaci di fermare gli incendi che si verificano in condizioni più estreme e che coinvolgono la vegetazione alla quale si è impedito di bruciare negli anni precedenti. Su un totale di 197 incendi che hanno superato i 500 ettari di superficie nel periodo 2004-2017, il 50% si sono verificati nel 2007 e nel 2017, ossia gli anni interessati da condizioni climatiche più anomale. Mantenere i sistemi di estinzione periodica degli incendi, con costi piuttosto elevati, finisce quindi per risultare controproducente nel lungo periodo, mentre emerge sempre più la necessità di agire sulla causa climatica del fenomeno.
Mentre la crisi climatica peggiora, e in particolare aumenta il surriscaldamento globale, la pericolosità e la frequenza degli incendi aumenta. In Italia l’indice di pericolosità media annuale degli incendi era stimato a 25 per il periodo 1971-2000, ma oggi si prevede un aumento del 20% per il periodo 2041-2070 e del 40% per la fine del secolo. Inoltre si stima che la stagione degli incendi si allunghi di almeno 40 giorni entro il 2100, con un aumento importante anche dell’area bruciata. La crescita degli incendi in numero e in violenza determina a sua volta un incremento delle emissioni di Co2, con conseguenze negative per la salute delle comunità locali interessate dal fenomeno.
Il G20 su clima e ambiente tenutosi a Napoli tra il 22 e il 23 luglio si è aperto con un messaggio di solidarietà alle comunità distrutte dalle alluvioni nell’Europa centrale. Le 20 più ricche potenze mondiali hanno ammesso che gli eventi meteorologici estremi si stanno moltiplicando in conseguenza alla crisi climatica, e che la prevenzione dell’ulteriore surriscaldamento del globo attraverso una riduzione drastica delle emissioni inquinanti non può che essere prioritaria. Nonostante ciò la conferenza si è conclusa con un fallimento. L’accordo è stato trovato su 58 dei 60 punti inizialmente proposti, ma ad essere rimasti inapprovati sono gli obiettivi più importanti: restare sotto l’aumento di 1.5°C della temperatura globale entro il 2030 ed eliminare l’uso del carbone nella produzione energetica entro il 2025. Il Communiqué su clima ed energia adottato a Napoli è un testo vuoto, che si compone in larga parte di impegni vaghi e generici, che non sono stati quantificati o sottoposti a scadenze temporali rilevanti.
Il fallimento della conferenza G20, che riunisce i Paesi responsabili dell’80% delle emissioni inquinanti globali, è piuttosto sconfortante in vista della COP26 – la conferenza globale sul clima – che si terrà a Glasgow il prossimo novembre. Come ha sottolineato la Segretaria generale dell’UNFCCC Patricia Espinosa “non esiste una via per tenerci sotto il +1.5°C senza il G20”. Il G20 di Napoli avrebbe infatti dovuto trovare l’accordo da sottoporre al resto della comunità internazionale, ma quanto raggiunto non può essere sufficiente a combattere le grandi sfide che la crisi climatica ci sta presentando. L’incontro organizzato dalle Nazioni Unite rischia ora di essere l’ultima opportunità per arginare il surriscaldamento globale di 3°C previsto per il 2050 da diversi studi.
Mentre la Sardegna brucia e l’Europa centrale è ancora devastata dalle conseguenze di un’alluvione senza precedenti storici, il Ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani esibisce come “storico” un accordo che non è riuscito a vincere l’opposizione di Cina e India alla decarbonizzazione e a ottenere il contrasto al surriscaldamento, ormai certo, di +1.5°C nel 2030. Gli impegni miti dei 20 Paesi leader del mondo non sono sufficienti e il problema maggiore sembra ancora la consapevolezza del problema. Contrariamente a quanto è avvenuto per le alluvioni nell’Europa centrale, ancora nessun leader italiano si è pronunciato sugli incendi in corso in Sardegna riconducendoli alla crisi climatica, e i grandi media nazionali sembrano ancora lontani dal contestualizzare il maltempo come un problema sistematico dovuto all’attività umana quando è il nostro Paese ad essere interessato da questi eventi.
Il decennio che si è appena aperto è cruciale per arginare il collasso di interi ecosistemi ed evitare il raggiungimento del cosiddetto “punto di non ritorno” oltre il quale gli scenari previsti diventano sempre più disastrosi. Ragionare in termini di compromessi tra clima e produttività del sistema economico non è più possibile.