La COP27 in Egitto si è chiusa con l’adozione del documento per la creazione di un Fondo per le Perdite e i Danni (“Loss and Damage”), riconoscendo così finalmente tra i temi centrali dei negoziati sul clima, al fianco di mitigazione e adattamento, anche quello delle riparazioni nei confronti dei Paesi che più subiscono gli effetti della crisi climatica e che meno vi contribuiscono. Mentre si decideva questo passo avanti importante – pur senza che novità rivoluzionarie, accordi epocali o decisioni radicali in tema di mitigazione climatica emergessero dalla COP27 – circolava una notizia: l’obiettivo di mantenere l’aumento delle temperature entro 1,5°C rispetto alle medie preindustriali è ormai utopico e, anzi, continuando a questi ritmi di emissioni e sfruttamento di risorse, siamo sulla strada per raggiungere i +2,6°C. La notizia provoca sconcerto e appare in dissonanza con le discussioni diplomatiche tenutesi a Sharm el Sheikh e poi al G20 di Bali, altra occasione di confronto dei potenti del Pianeta, ma soprattutto non se ne sta parlando come sarebbe necessario. I dati dicono chiaramente che non basta frenare la crisi climatica – cosa che comunque non sta avvenendo, dato che le emissioni di gas serra stanno continuando ad aumentare – ma bisogna invertire la rotta.
Nonostante qualche piccolo, lento progresso, infatti, i programmi climatici dei Paesi responsabili di quasi il 90% delle emissioni globali, che hanno adottato o annunciato piani per arrivare allo zero netto nella seconda metà del XXI secolo rimangono utopici. È vero che l’energia pulita sta diventando più economica in modo più rapido del previsto, come sottolinea il Guardian, con un calo del prezzo di dieci volte negli ultimi dieci anni per il solare e di due terzi per l’eolico, ma con gli attuali trend, anche calcolando i progressi fatti, realisticamente è molto probabile che l’aumento delle temperature globali superi 1,5°C già entro il 2030. E i decenni successivi non prospettano niente di meglio, anzi: già nel 2021 la stragrande maggioranza degli scienziati climatici e degli esperti collaboratori dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) intervistati da Nature sosteneva che prima della fine del secolo il Pianeta si riscalderà di oltre 1,5°C rispetto alle medie preindustriali – prevedendo quindi uno sforamento degli attuali obiettivi – e addirittura il 60% di loro prevedeva un riscaldamento di almeno 3°C. Il più recente report dell’ONU sul clima, in effetti, concorda con questo pronostico, calcolando per il 2100 il raggiungimento dei 2,8°C, in caso si prosegua a livello globale con gli attuali comportamenti; mentre se le promesse in termini di politiche climatiche fossero davvero realizzate si potrebbe abbassare questa cifra catastrofica a 2,6°C o 2,7°C; se a essere attuate fossero le politiche climatiche delle nazioni più ambiziose, infine, le temperature aumenterebbero comunque di circa 1,8°C.
Anche la differenza tra +1,5°C e +2°C però non è indifferente: con quest’ultimo scenario infatti raddoppierebbe il numero di persone che non hanno accesso all’acqua, la popolazione a rischio caldo estremo passerebbe dal 14% di quella globale a poco meno del 40%, le estati artiche resterebbero senza più ghiaccio almeno una volta ogni dieci anni invece che ogni cento come avvenuto finora. Mezzo grado di differenza, poi, può determinare la distruzione di interi habitat naturali, la sopravvivenza delle barriere coralline tropicali, la capacità dei nostri sistemi economici di adattarsi all’andamento di un clima ormai irrimediabilmente mutato.
Certo, matematicamente non sarebbe impossibile riuscire a restare nell’obiettivo di +1,5°C, ma per farlo – sottolinea ancora il rapporto ONU – bisognerebbe iniziare subito a mettere in atto un radicale stravolgimento dell’intero sistema, che includa i settori della produzione di energia elettrica, dell’industria, dei trasporti e dell’edilizia e quelli alimentare e finanziario. Sono questi settori a dover essere investiti immediatamente da una vera e propria rivoluzione climatica – che però all’orizzonte non si vede, con i piccoli, limitatissimi progressi che a ogni occasione internazionale vengono salutati come risultati gloriosi – e parallelamente devono essere messe in atto strategie di eliminazione dell’anidride carbonica dall’atmosfera, per esempio attraverso vasti piani di protezione delle foreste, piantumazione di alberi e cambiamento della gestione dei terreni agricoli e dei pascoli, per incrementare il potenziale di assorbimento e deposito di carbonio da parte di piante, suoli e sistemi naturali, al momento capaci di sequestrare un quarto dell’anidride oggi emessa. Le soluzioni tecnologiche possono aiutare, ma sono più costose e più difficilmente concretizzabili, per cui risulta più economico ridurre le emissioni a monte che rimuoverne gli effetti dall’atmosfera dopo. In poche parole, è più pratico far sparire milioni di auto a benzina, chiudere immediatamente le centrali elettriche a combustibili fossili o convertirle alle fonti rinnovabili, proteggere le foreste; e, ancora, convertire il comparto agricolo attraverso un efficientamento della produzione, optando per le colture meno esigenti di acqua e scegliendo di produrre direttamente per l’alimentazione umana invece che per il bestiame; e far sì che le banche smettano di finanziare i settori inquinanti. Il Patto di Glasgow sul clima, formulato nella scorsa COP, la numero 26, riconosceva l’urgenza di una riduzione rapida e radicale delle emissioni di gas serra per contenere il riscaldamento globale a +1,5°C, per esempio attraverso un taglio alle emissioni di anidride carbonica del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010, per poi raggiungere la neutralità climatica a metà secolo.
Tutte le strategie sono necessarie e lo sono adesso, perché l’impatto della crisi climatica supera in velocità i tempi di discussione e attuazione dei negoziati, e considerando che ciascuno di questi interventi porta inevitabilmente con sé mutamenti sociali ed economici importanti, è realistico ritenere che non saremo in grado di attuare questa transizione. Basti pensare ai costi di ciascuna di queste trasformazioni: nel 2021 il mondo ha speso un totale di 755 miliardi di dollari soltanto per ridurre – comunque troppo poco – le emissioni. Secondo l’ONU, a oggi non esiste alcun percorso credibile verso i +1,5°C, la cifra su cui 200 Paesi hanno modellato fino a ora i loro piani climatici. Quasi nessuno sembra avere il coraggio di dirlo pubblicamente: secondo Glen Peters, esperto di politiche climatiche e direttore del Centro Internazionale per il Clima e la Ricerca Ambientale, in Norvegia, il motivo è che dichiarare pubblicamente tale fallimento potrebbe far smorzare l’azione globale, perché rischierebbe di far passare il messaggio che tutto è perduto.
E ovviamente non è così: abbiamo ancora molto da perdere. Lo stravolgimento portato dall’aumento delle temperature medie globali e da tutti i fenomeni a esso correlati – aumento del livello dei mari, siccità severe e prolungate, aumento dei fenomeni meteorologici violenti e così via – intanto sta avvenendo con una rapidità e con un andamento difficilmente prevedibili. Non possiamo fare affidamento sulla resilienza, né del corpo umano, né tantomeno dei nostri sistemi sociali ed economici o degli ecosistemi naturali. Come sottolineano gli scienziati, anche a questo c’è un limite: persone ed ecosistemi in diverse parti del mondo sono già di fronte a problemi di adattamento e se il Pianeta si riscalda oltre 1,5°C, o addirittura 2°C, i livelli massimi di sopportazione del corpo umano, delle società e dell’ambiente sono sempre più vicini. Ecco perché non possiamo rinunciare a un valido piano di mitigazione, senza cui non può esserci alcun adattamento; per realizzarlo bisogna, però, essere realistici e avere ben chiari gli scenari verso cui ci stiamo dirigendo, aggiornando quindi i programmi climatici sulla base dei dati più recenti, e non proseguire sulla base di obiettivi stabiliti nel 2015 a Parigi, quando la situazione era molto diversa.
I piani climatici di tutti i governi devono aggiornarsi, tenendo conto delle considerazioni degli esperti, non per gettare la spugna, ma per intensificare gli sforzi. Come ha sottolineato per primo l’Economist – evidenziando che già oggi l’aumento è di circa 1,2°C, avendo in questi anni accresciuto la quantità di emissioni anziché ridurla – è ragionevole pensare che non saremo capaci di recuperare in pochi decenni quanto non è stato fatto finora e procedere verso la transizione. È come essere rimandati a settembre con cinque materie insufficienti, solo che il risultato non è una bocciatura, ma molto peggio. Questo, comunque, non significa che tutto è perduto e allora tanto vale fregarsene. No, perché potrebbe anche andare molto peggio, dato che secondo l’ONU negli scenari peggiori nel 2030 potremmo arrivare a +3°C e fino a +4°C a fine secolo: è proprio questo quello che bisogna evitare. Inoltre, la scienza dice che se riuscissimo ad azzerare le emissioni, anche a prescindere dal raggiungimento dell’obiettivo climatico, sarà possibile invertire la rotta e le temperature medie del Pianeta torneranno ad andamenti normali. È questo l’obiettivo che dobbiamo porci, costi quel che costi.