Natale è il più grande disastro ambientale annuale e arriva sempre prima, anche con 25 gradi fuori - THE VISION

Questo è il periodo dell’anno in cui, in teoria, è possibile osservare l’affascinante fenomeno del foliage, ovvero il mutamento autunnale del colore delle foglie degli alberi che passa gradualmente dal verde al giallo, all’arancione al rosso. Uno spettacolo della natura che ci permette di apprezzare lo scorrere del tempo e la ciclicità delle stagioni. Negli ultimi anni, però, a causa del cambiamento climatico e del riscaldamento globale, questi mutamenti avvengono sempre più tardi e si esauriscono in un arco di tempo più ristretto. L’aumento delle emissioni di anidride carbonica e degli altri gas serra nell’atmosfera, unito a un incremento della piovosità e del caldo, comporta, infatti, una velocizzazione del processo di crescita delle piante. Però “esistono dei limiti naturali entro i quali le piante possono compiere la fotosintesi”, spiega Marc Abrams, esperto in scienze forestali. A un aumento di concentrazioni di CO2 in atmosfera corrisponde una diminuzione della capacità delle piante di utilizzarla, un fenomeno noto come saturazione da CO2. Questo mutamento ha delle conseguenze anche sul foliage: se il periodo di crescita si allunga, anche il cambiamento del colore delle foglie viene posticipato. Ad esempio, nell’area nord-orientale degli Stati Uniti il fenomeno inizia ormai con 10-14 giorni di ritardo rispetto allo standard. Piogge torrenziali, tempeste e gelate improvvise spezzano poi bruscamente questo processo, rendendolo anche più breve.

Non solo nella caduta delle foglie, gli effetti dei cambiamenti climatici sono riscontrabili anche nelle elevate temperature di questi giorni, che hanno raggiunto valori al di fuori della norma, e che non accennano a diminuire, tanto che si parla di prima novembrata della storia: espressione ricalcata sulla falsariga dell’ottobrata romana, con cui si fa riferimento a quel periodo dell’anno in cui le temperature nella capitale sono ancora miti ed è possibile organizzare gite fuoriporta. Ad approfittare del clima tropicale sono soprattutto le zanzare, che in questo periodo hanno continuato a riprodursi e che infestano di nuovo le nostre case, i parchi e i giardini. In generale, come spiegano gli esperti, questo sconvolgimento dell’equilibrio climatico causa disorientamento ex modifiche importanti nel comportamento e nelle abitudini degli animali, che, per esempio, ritardano ad andare in letargo o, nel caso degli uccelli, a migrare, restando più tempo nelle città dove le temperature sono sempre più alte, anche durante i mesi invernali.

Nonostante questo scenario preoccupante, per le strade, nei negozi e nei supermercati delle grandi città iniziano già a spuntare i primi addobbi natalizi, le lucine per l’albero e addirittura panettoni e pandori a prezzi vantaggiosi. Un contrasto stridente fra l’afa e il caldo eccezionale che percepiamo all’esterno e quei simboli tipici dell’atmosfera natalizia, che fanno riferimento a uno scenario tipicamente freddo e invernale. Ogni anno, infatti, il Natale arriva sempre prima. Non solo per via della grande distribuzione, ma anche attraverso la comunicazione di massa: radio, tv e ora anche i social media iniziano a bombardare il pubblico con pubblicità, promozioni e jingle natalizi, ben due mesi prima della Vigilia. Una questione non certo solo culturale, ma soprattutto di marketing e di soldi: per fare un esempio, la cantante statunitense Mariah Carey guadagna dalla sua iconica “All I Want For Christmas Is You” circa 600mila dollari all’anno, da ventotto anni, ovvero da quando è stata pubblicata la canzone, nel lontano 1994: un tesoretto che a oggi ammonta a oltre 60 milioni di dollari. Con un fatturato globale di oltre 16 milioni, si tratta del singolo di Natale di un’artista femminile più venduto di tutti i tempi.

Mariah Carey, 1994

Dopo tutto, non è un mistero che il business legato al Natale sia molto fiorente – solo in Italia, nel 2021 Confcommercio ha stimato che per i regali di Natale sono stati spesi circa 6,9 miliardi di euro, mentre per la National Retail Association il giro d’affari negli USA si attesta sui 500 miliardi di dollari – e lo shopping natalizio, anche grazie alla spinta dell’e-commerce, inizia sempre prima per i consumatori: secondo il report di Jungle Scout’s del 2021, il 31% degli intervistati comincia a comprare i regali già entro la fine del mese di ottobre. A questo trend negli ultimi anni si è aggiunto il capolavoro del marketing, che coniuga perfettamente tradizione, religione e consumismo: il Black Friday, ovvero il venerdì successivo al giorno del Ringraziamento, che cade il quarto giovedì di novembre. Una data cruciale per aziende e imprenditori che segna il via per una serie di offerte scontistiche molto vantaggiose e principalmente online, che possono arrivare a protrarsi fino al lunedì seguente, definito Cyber Monday, o a coprire addirittura una settimana intera, soprannominata Black Week. Il colore nero avrebbe avuto inizialmente una connotazione negativa, perché si riferiva al colore dello smog causato dal traffico e dagli enormi ingorghi di macchine in coda per accaparrarsi i prodotti in offerta. In seguito, però, la sua accezione sarebbe diventata positiva, quando passò a indicare l’elevato numero di vendite che permetteva a molte aziende di far passare i conti dal rosso (in perdita) al nero (in attivo).

A creare poi un’associazione diretta tra il Natale, in particolare il suo protagonista, Babbo Natale, e un brand, è stata Coca-Cola, a partire dalla sua campagna pubblicitaria natalizia del dicembre 1931, in cui compare per la prima volta l’immagine, oggi iconica e universalmente riconosciuta, di Babbo Natale vestito di rosso e con una lunga barba bianca. Da quel momento in poi tutti i grandi brand hanno iniziato a realizzare spot e campagne pubblicitarie a tema natalizio, per rafforzare il legame con i consumatori e coinvolgerli anche dal punto di vista emotivo, sempre con lo scopo di incrementare i guadagni. Molti di questi spot e jingle, con il tempo, hanno finito per perdere il legame originale con il marchio e diventare parte del nostro immaginario comune, a riprova dell’enorme potere comunicativo e persuasivo della pubblicità. Un esempio tutto italiano è quello dello spot della Bauli “A Natale Puoi”, diventato ormai un classico natalizio, al di là del prodotto in questione.

Questo trend non è però circoscritto alle festività natalizie, ma riguarda tutte quelle celebrazioni che il consumismo di massa ha trasformato in occasioni di guadagno e di spreco. Da San Valentino alla Pasqua fino alla Festa della Mamma, per ogni ricorrenza il sistema capitalista ha inventato e prodotto gadget, simboli e veri e propri rituali collettivi dove l’aspetto economico viene prima di quello storico e sociale. Così l’acquisto dei regali non è un gesto simbolico, che testimonia il nostro affetto per un parente o una persona cara, ma un’azione meccanica e ripetitiva, da svolgere sempre prima e nel più breve tempo possibile per liberarci dall’ansia e dallo stress che ci causa il dover fare tanti regali diversi nello stesso periodo. Questa corsa all’acquisto, però, che ci spinge spesso a comprare prodotti e oggetti superflui, di cui non si ha realmente bisogno, aumentando così il nostro impatto sull’ambiente.

Un problema niente affatto secondario della ‘commercializzazione’ del Natale è sicuramente l’impatto ambientale che questo ha sul pianeta. Non a caso, il Natale è considerato dagli ambientalisti il più grande disastro ambientale annuale. Secondo uno studio della società di gestione dei rifiuti Biffa, durante questo periodo dell’anno la quantità di rifiuti prodotta aumenta dal 25 al 30%, mentre più di 100 milioni di sacchi della spazzatura pieni vengono inviati in discarica. Nella sola Gran Bretagna tutto questo corrisponde a circa 365mila chilometri di carta da imballaggio non riciclabile – abbastanza da avvolgere l’equatore nove volte – e a 1 miliardo di carte che finiscono ogni anno nel cestino.

Anche gli alberi di Natale hanno un costo in termini ambientali, ma esistono differenze tra quelli veri e quelli artificiali. Secondo Carbon Trust, un albero di Natale vero ha un’impronta di carbonio “significativamente più bassa” rispetto a un albero artificiale, soprattutto se viene smaltito correttamente. L’organizzazione ha calcolato che un albero di Natale vero, alto circa 2 metri, che viene smaltito in una discarica, ha un’impronta di circa 16 chili di CO2, per via delle emissioni di metano che rilascia quando marcisce. Mentre un albero smaltito attraverso la combustione o triturato o ripiantato, produce circa 3,5 chili di CO2. Al contrario, l’impatto di un albero di Natale artificiale di 2 metri ha un’impronta di carbonio molto più alta: circa 40 chili di CO2, a causa dei processi di produzione che necessitano dell’utilizzo di molta energia. Per far sì che l’impatto ambientale sia pari a quello di un albero vero smaltito in modo responsabile, il proprietario dovrebbe usarlo per almeno un decennio. Inoltre, se tradizionalmente la preparazione dell’albero avveniva l’8 dicembre, assieme al Presepe, in occasione della festa dell’Immacolata, negli ultimi anni, complice l’elevata competizione social, gli alberi vengono addobbati e accesi ogni anno un po’ prima, aumentando il consumo di energia. 

La commercializzazione delle festività, alimentata dal marketing e dalla pubblicità, oltre a svuotare spesso questi riti collettivi dal loro presunto senso profondo, inquina pesantemente il pianeta. Per contrastare il materialismo imperante è importante ricordarsi allora che il Natale, come così tutte le altre feste, è principalmente un’occasione di ritrovo e di convivialità. Dopo due anni di pandemia e restrizioni, che ci hanno spesso costretti a stare lontani dai nostri cari, la nostra priorità dovrebbe essere quella di passare il Natale assieme alle persone che amiamo, al di là dei regali e degli addobbi, senza lasciarci irretire dalle sirene del consumismo che vogliono convincerci che l’affetto si dimostra solo attraverso prove materiali.

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