Nel dicembre scorso Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha annunciato l’European Green Deal, un programma per la transizione ecologica dei Paesi membri. L’obiettivo è quello di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, con il proposito nel breve termine di ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra del 50-55% rispetto ai livelli del 1990. Un pilastro di questo programma è il fondo Just Transition Mechanism per supportare la conversione ecologica nelle regioni europee con un’economia basata sull’estrazione e consumo di fonti fossili. Per questo il Paese che è riuscito a ottenere la fetta più generosa di questo fondo da 7.5 miliardi di euro è la Polonia che ne riceverà due. Nel frattempo il governo italiano sta facendo pressing perché parte delle spese per la riconversione dell’ex Ilva di Taranto arrivino dal programma Just Transition.
Lo European Green Deal vuole essere la risposta di Bruxelles al Green New Deal proposto negli Stati Uniti nel corso dell’ultimo anno da un’ampia coalizione di movimenti ecologisti e personalità politiche dell’ala più progressista del partito democratico. Prendendo a modello il piano di riforme economiche e sociali promosso dal Presidente Roosevelt per risollevare gli Stati Uniti dalla Grande depressione del 1929, il Green New Deal esprime un netto rifiuto dell’approccio neoliberista nel fronteggiare la crisi ecologica. Per questo i sostenitori del Green New Deal statunitensi difendono l’importanza di uno “Stato imprenditore” che affronti l’incertezza di investimenti costosi e non remunerativi nel breve periodo per trasformare il sistema infrastrutturale nazionale, in modo da orientare sul lungo periodo le scelte economiche di un settore privato oggi molto concentrato su strategie di prospettive temporali limitate.
Uno “Stato imprenditore” dovrebbe mettere in campo politiche pubbliche capaci di andare oltre agli interventi che modificano i prezzi relativi (come la carbon tax e i sussidi per le tecnologie verdi), imponendo limiti stringenti alle emissioni e standard ambientali rigidi (vietare la vendita di autoveicoli a benzina e diesel, obbligare i produttori a diminuire gli imballaggi, vietare l’obsolescenza programmata). I democratici statunitensi promotori del Green New Deal insistono anche sulla necessità di un’espansione del welfare per assicurare protezione sociale e accesso ai servizi essenziali a tutti i cittadini, in particolare in un periodo di profonda trasformazione economica e di disastri ambientali sempre più frequenti.
Se è lecito sostenere che un progetto strutturale di decarbonizzazione può essere più facilmente intrapreso a livello europeo che nazionale, è altrettanto necessario riconoscere che l’impostazione neoliberista dei trattati europei contraddice il welfarismo e dirigismo al cuore del Green New Deal promosso dai dem statunitensi. Come sostiene Giuliano Garavini sul Fatto Quotidiano, l’European Green Deal sembra “privilegiare l’aspetto green (economia verde) rispetto a quello New Deal (investimento pubblico e giustizia sociale)”. Infatti, la proposta di von der Leyen ha già incassato severe critiche.
Innanzitutto, il finanziamento stanziato ammonta a mille miliardi di euro da qui al 2030, ma servirebbe un investimento almeno 10 volte superiore. La cifra stanziata verrà però coperta solo in parte dal budget comunitario, mentre il restante dovrà essere stanziato dagli Stati membri. Sarebbe stato impossibile per la Commissione muoversi in modo diverso, dato che il bilancio comunitario rappresenta appena un punto percentuale del Pil europeo, contro il 21% di quello del governo federale statunitense. Qui entra in scena un punto fondamentale dell’European Green Deal: si metteranno in discussione le regole sull’austerity per finanziarlo? Senza la revisione chiesta da alcuni Stati membri, i governi potrebbero essere costretti a finanziare la transizione ecologica con tagli al welfare. La ragione del rigore fiscale europeo la offre Angela Merkel quando sostiene che la conversione ecologica deve rispettare il pareggio di bilancio per il bene delle generazioni future. La partita non è però ancora chiusa, dato che il commissario per il Mercato interno Thierry Breton ha proposto l’idea di focalizzare il programma di quantitative easing della Banca centrale europea – ossia l’acquisto da parte della Bce di titoli detenuti dalle altre banche in modo da favorire la circolazione di denaro nell’eurozona e una politica economica espansiva – sull’acquisto di green bond emessi dagli Stati membri per finanziare la conversione ecologica.
Un altro punto di debolezza è che l’European Green Deal replica un modello di partenariato pubblico privato ormai screditato. L’idea di fondo è quella di attirare finanziamenti privati per costruire impianti di energia rinnovabile grazie a una garanzia pubblica in caso di fallimento del progetto emessa dalla Banca europea per gli investimenti: la vecchia logica di privatizzare gli utili e socializzare le perdite. Negli ultimi anni questo modello di sviluppo infrastrutturale è stato bocciato anche dalla Corte dei conti europea. Il partenariato pubblico privato permette infatti ai privati di farsi carico solo dei costi variabili di un progetto lasciando al pubblico l’onere di quelli fissi. L’European Green Deal si inserisce nel percorso di liberalizzazione del settore energetico intrapreso negli ultimi vent’anni dall’Unione europea, che molti hanno accusato di essere fallimentare sia sul fronte sociale che ambientale. L’elettrificazione del sistema energetico europeo e la sua decarbonizzazione possono infatti essere facilitati da strutture di proprietà pubblica e cooperativa.
Ma il limite più evidente dell’European Green Deal è la scarsa ambizione nel voler decarbonizzare l’economia europea solo entro il 2050. L’obiettivo si fonda sui modelli climatici sviluppati dallo Ipcc che indicano come le emissioni di gas serra debbano essere azzerate entro il 2050 per limitare il riscaldamento globale sotto la soglia del +1.5 gradi Celsius rispetto ai livelli pre-industriali. Questo target deve essere poi modulato sul principio di “comuni ma differenziate responsabilità” al cuore della Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici che stabilisce la necessità di valutare la responsabilità dei vari Paesi nell’emergenza climatica. Considerando che le emissioni cumulative nel periodo 1850-2011 degli Stati Uniti ammontano al 27% del totale globale, i sostenitori del Green New Deal propongono di ridurre a zero le emissioni statunitensi entro il 2030. Seguendo lo stesso ragionamento, l’Unione europea – responsabile del 25% del totale – dovrebbe darsi lo stesso limite temporale.
Esiste una contraddizione ancora più sostanziale tra l’European Green Deal e quanto necessario per evitare il collasso ambientale e sociale: abbandonare il paradigma della crescita economica. Ursula von der Leyen ha infatti cercato di convincere il Parlamento europeo a sostenere il programma assicurando che si tratta di una nuova “strategia di crescita inclusiva dell’Europa” e che “permetterà di ridurre le emissioni, creando impiego e migliorando la nostra qualità di vita, senza dimenticare nessuno”. Ha concluso tentando di includere le imprese nel suo discorso, promettendo loro delle “nuove prospettive economiche”. Eppure le evidenze empiriche contro il mito del disaccoppiamento tra attività economica e impatto ambientale sono ormai inconfutabili ed è tempo di ridiscutere l’idea di un sistema economico in costante crescita in un mondo di risorse finite. La vera sfida è quindi quella della riduzione dei consumi aggregati accompagnata da una ridistribuzione dei consumi tra classi sociali. La lotta alla povertà deve passare per una riduzione delle diseguaglianze e non per un’ulteriore crescita del Pil. A tale scopo è indispensabile riorganizzare il modo in cui produciamo e consumiamo, così da permettere a tutti di vivere dignitosamente utilizzando poche risorse, producendo pochi rifiuti e garantendo la dignità del lavoro.
Ma esistono proposte alternative a quelle dell’European Green Deal? Qualcosa si sta muovendo: un passo nella giusta direzione è rappresentato dalla campagna Green New Deal for Europe del movimento paneuropeo DiEM25. La sua idea di fondo è fronteggiare la crescente disuguaglianza economica e la crisi ecologica con una lista di 80 proposte che vanno dal finanziamento pubblico della transizione energetica fino alla sussidiarietà decisionale a favore delle comunità locali, da un programma di lavoro di cittadinanza per la messa in sicurezza del territorio fino al sostegno dei movimenti per la giustizia climatica. Inoltre, uno dei pilastri di questa campagna è proprio la fine al dogma della crescita infinita.
Il decennio appena iniziato rappresenta l’ultima chiamata per un’inversione di rotta ormai sempre più urgente e che non possiamo più permetterci il lusso di rimandare. Ci rimangono pochi anni per azzerare le emissioni inquinanti e soprattutto ridiscutere l’identità stessa della società occidentale basata su un modello di consumo irresponsabile. L’European Green Deal deve trovare la forza di avere progetti e una visione molto più ambiziosi di quelli proposti a gennaio al Parlamento europeo. Al momento rischia di essere un progetto nato sotto il motto “troppo poco e troppo tardi”.