Una frana, un’enorme massa d’acqua che travolge paesi e centrali idroelettriche, la corsa contro il tempo per recuperare i dispersi. Agli occhi del pubblico italiano può sembrare la cronaca del disastro del Vajont dell’ottobre 1963, quando un’enorme massa rocciosa si staccò dal monte Toc, sul confine tra Veneto e Friuli, nel bacino della diga del Vajont, provocando un’inondazione che rase al suolo i paesi circostanti e uccise più di 2mila persone. Invece è accaduto il 7 febbraio scorso nello Stato di Uttarakhand, nel nord dell’India: una parte del ghiacciaio Nanda Devi dell’Himalaya si è staccato crollando su due centrali idroelettriche in costruzione, la cui distruzione ha a sua volta provocato l’esondazione di due fiumi Alaknanda e Dhauliganga, che hanno inondato la valle nel distretto di Chamoli. Nel caso del Vajont le responsabilità dei dirigenti dell’ente gestore della diga – che nascosero la non idoneità delle sponde del bacino e l’elevato rischio idrogeologico della zona – furono acclarate. Anche per quanto riguarda l’incidente in India la responsabilità è ancora una volta umana, e di chi continua a ignorare l’emergenza climatica e le sue conseguenze sempre più gravi.
A provocare il disastro dell’Uttarakhand con un numero imprecisato di vittime e centinaia di dispersi, infatti, è stato lo scioglimento anomalo del ghiacciaio Nanda Devi. Oltre alle drammatiche perdite umane, bisognerà anche contare quelle economiche e sociali, legate alla distruzione di strade e ponti e all’evacuazione dei villaggi della zona, già periodicamente funestata da potenti terremoti.
L’evento del 7 febbraio non è accaduto senza preavviso: prima del disastro la montagna mandava da tempo i suoi avvertimenti, ma le autorità locali hanno preferito ignorarle. Ora a pagarne le conseguenze sono le vittime e le centinaia di sfollati; gli abitanti dell’area denunciano di aver ricevuto ripetute rassicurazioni da parte delle autorità riguardo ai progetti di sviluppo della regione, ma anche che non sono mai state date loro indicazioni né organizzati programmi di addestramento sulla gestione di situazioni d’emergenza, anche in un ambiente fragile e ad alto rischio idrogeologico come quello del distretto di Chamoli.
Le autorità hanno ignorato le conseguenze della crisi climatica, che nel bacino idrografico del Rishiganga, nella regione colpita, ha portato almeno otto ghiacciai a perdere il 10% della loro massa nell’ultimo trentennio, un arco di tempo nel quale l’altitudine della linea di equilibrio dei ghiacciai – ossia di quella linea immaginaria lungo cui gli accumuli e le perdite di ghiaccio si equivalgono – ha subito ampie variazioni. Queste condizioni hanno contribuito all’instabilità dell’area himalayana che, come è noto da anni, si sta riscaldando a un ritmo allarmante, che porta i circa 15mila ghiacciai della regione a ritirarsi a una velocità compresa tra i tre e i sei chilometri al decennio, aumentando il rischio di inondazioni e smottamenti e rendendo questo ambiente del tutto inadatto alla costruzione di progetti di grossa portata. I laghi alimentati dallo scioglimento dei ghiacci, infatti, possono da un momento all’altro esondare in un mare di ghiaccio e detriti rocciosi, causando inondazioni catastrofiche.
Già nel 2012 un gruppo di esperti aveva raccomandato di non costruire dighe nella regione del bacino del Rishiganga, pareri scientifici che però non sono stati presi in considerazione al momento di promuovere progetti di sviluppo energetico. Questi, come hanno ripetutamente avvertito gli scienziati, rappresentano una scommessa altamente rischiosa. Il governo indiano ha però preferito dare priorità all’economia, ignorando le perplessità degli esperti e le proteste degli abitanti, e avviando invece numerose iniziative per sfruttare l’energia idroelettrica e per migliorare i trasporti e l’accesso alla regione dell’Uttarkhand. Tra queste c’è anche il progetto di sviluppare oltre 800 chilometri di autostrada, contestato dai movimenti ambientalisti che mettono in guardia anche dal rischio di erosione del suolo, e quindi di frane.
Il governo indiano continua a inseguire il progresso e la crescita economica senza curarsi di degrado ambientale e inquinamento. E contribuisce così a quella crisi climatica che non solo minaccia l’ambiente, ma gioca anche un ruolo centrale nell’ampliare un divario economico e sociale che proprio in Asia mostra i suoi aspetti più controversi. La Banca Mondiale ha avvertito che le condizioni di vita di circa 800 milioni di persone in Asia meridionale sono peggiorate a causa della crisi climatica. In Nepal, regione particolarmente vulnerabile, questo sta già accadendo: il cambiamento climatico ha costretto interi villaggi a spostarsi per sopravvivere alla crisi idrica. Mano a mano che il fragile equilibrio dell’Himalaya viene compromesso, a essere messa a rischio non è soltanto la maestosa bellezza di questo paesaggio solo apparentemente incontaminato, ma anche le risorse vitali per gli abitanti della regione. Inoltre, più di un miliardo di persone dipendono dalle acque originate dai ghiacciai dell’Himalaya, che alimentano, tra gli altri, l’Indo – che da solo sostiene il 90% del settore agricolo del Pakistan – e gli altri grandi fiumi dell’Asia meridionale.
Proprio per cercare di rispondere alla crisi climatica molti governi stanno incentivando negli ultimi anni la costruzione di dighe e centrali idroelettriche come fonte energetica alternativa e più sostenibile rispetto ai combustibili fossili, come sottolinea Manju Menon, ricercatrice presso l’istituto indiano Centre for Policy Research. Una misura in parte vanificata a causa dell’incuria e dei mancati investimenti nella manutenzione, che finiscono per sprecare acqua e per essere messe a rischio dai fenomeni atmosferici estremi che l’emergenza climatica rende sempre più violenti e imprevedibili.
A questo si aggiunge un crescente traffico di persone sulla catena dell’Himalaya che, a dispetto del suo aspetto maestoso, è un ambiente estremamente fragile e minacciato dalle attività antropiche. Tra i principali flussi c’è quello turistico, che porta ogni anno 100mila persone a visitare la sola riserva naturale del Sagarmatha National Park, creata nel 1976 proprio per proteggere questa regione. Non si tratta solo di quello legato all’alpinismo, ma anche di quello religioso dei pellegrinaggi indù diretti alla grotta tra le vette del Kashmir, lungo il cammino dell’Amarnath Yatra, dove la tradizione vuole che oltre 5mila anni fa la divinità indù Shiva rivelò il segreto dell’immortalità e della creazione dell’universo. Questi viaggi rappresentano un’importante entrata per un’economia locale che si regge sulle paghe dei portatori Sherpa che assicurano gli approvvigionamenti ai campi base, sugli introiti dei lodge lungo gli itinerari e soprattutto sulle tasse che bisogna versare a Cina, Nepal, Pakistan o India per ottenere il visto e il permesso per accedere alle vette più alte del mondo.
Il cambiamento climatico, intanto, continua a sciogliere i ghiacciai, anche dopo un’estate particolarmente calda. Gli scienziati si aspettano che nei prossimi anni tragedie come quella dell’Uttarakhand si moltiplicheranno a causa del sovrasfruttamento dei fiumi della regione. Con questa prospettiva, quanto accaduto sull’Himalaya non può essere considerato un disastro naturale, ma va letto come un avvertimento di ciò che ci attende con l’aumento delle temperature.