Nella regione dei Carpazi, che dalla Polonia orientale arriva fino alla Romania, si estendono le foreste primordiali di faggi più antiche d’Europa. Inalterate per migliaia di anni, sono una riserva di biodiversità di animali – come orsi, lupi, linci e le più grandi mandrie del quasi estinto bisonte europeo – ma anche di piante del sottobosco, funghi e insetti. Si tratta di un polmone verde di fondamentale importanza in un continente industrializzato e colpito dalla crisi climatica come quello europeo. Dopo aver vissuto indisturbate con i propri equilibri per migliaia di anni, oggi le foreste europee vergini sono solo il 4% sul totale dei boschi del continente e sono in pericolo. Se circa il 90% di questa copertura boschiva è collocata in aree protette, secondo la mappatura svolta dall’Università Humboldt di Berlino solo il 46% di queste sarebbe effettivamente sotto una stretta protezione. Oggi a vedere minacciata la propria sopravvivenza non sono solo gli alberi – materia prima per ricchi commerci legali e non – e le specie animali di cui sono l’habitat, ma anche le persone che li difendono.
Un caso emblematico è quello della più antica tra le foreste europee, quella di Białowieża, che si estende a cavallo del confine tra Polonia e Bielorussia ed è un sito Patrimonio dell’Unesco dal 1979. Cresciuta indisturbata per 7mila anni senza subire alcun intervento, per secoli è stata protetta come riserva di caccia di re polacchi e zar russi. Il servizio forestale nazionale polacco ritiene invece che nel Ventunesimo secolo la natura debba essere attivamente gestita tramite l’intervento umano. Anche gli ecologisti concordano che, se svolta in maniera limitata, l’attività dell’uomo possa non nuocere alla foresta, ma a condizione che la maggior parte di essa resti inalterata. Nove anni fa governo di Varsavia affermava di voler estendere a tutta l’area polacca di Białowieża la nomina a Parco Nazionale – che ne garantisce la protezione, pur coprendone meno del 20% –, ma riteneva difficile la realizzazione perché osteggiata da abitanti e guardie forestali. Chiedono l’estensione, invece, gli attivisti che da anni protestano con azioni non violente contro gli abbattimenti. I governi polacchi non sembrano essersi troppo impegnati in questo senso: addirittura l’ex ministro dell’Ambiente Jan Szyszko ha ordinato che il taglio di legname si intensificasse, fino a triplicare nel 2016. La decisione ha spinto nell’aprile 2018 la Corte europea di giustizia a imporre al governo polacco uno stop al taglio di legname. Una settimana dopo, però, il disboscamento era già ripreso indisturbato.
La scusa usata da Varsavia era che la foresta fosse infestata da un coleottero, per cui abbattere gli esemplari di alberi colpiti serviva a preservarla; il parere di molti scienziati, però, era che il coleottero non fosse un problema per la salute della foresta e che questa non dovesse essere abbattuta, anche perché gli esemplari morti sarebbero stati sostituiti da quelli nuovi, secondo i ritmi della natura. Il coleottero, poi, attaccando gli esemplari più deboli, si limiterebbe a mantenere pulito e in equilibrio l’ambiente. I ricercatori hanno più volte sottolineato che legno morto e piante in decomposizione sono importanti per l’ecosistema, fungendo da habitat e fonte di nutrimento per circa 6mila specie tra animali e funghi. I forestali, invece, volevano rimuovere le piante sul punto di morire, giudicandole un segno di degrado, ma tra le righe è evidente l’interesse per una redditizia fonte di legname da commerciare come materiale da costruzione o per la produzione di carta e mobili.
La partita per Białowieża non si giocava solo tra attivisti ecologisti e forestali: anche tra i residenti delle cittadine e dei villaggi nei pressi della foresta erano molti i favorevoli all’abbattimento. Da un lato si trattava di interessi politici e dall’altro, secondo il giornalista Adam Wajrak, i polacchi, pur sentendosi strettamente connessi alla natura, non sono ancora abituati a pratiche ecologiche come il risparmio energetico. Sono generalmente favorevoli al taglio del bosco perché non vedono motivo per smettere di continuare ad approfittare delle risorse naturali come fanno da secoli. Secoli in cui, però, la situazione ambientale e climatica non era drammatica come oggi e i cittadini non avevano consapevolezza dei rischi; oggi questa cultura deve cambiare, e deve farlo subito.
La Polonia, colpita nel corso della storia da ogni forma di sopruso e devastazione, ha nella natura forse la sua maggiore ricchezza. Secondo la sentenza del 2018 della Corte europea di giustizia, il Paese ha violato la legge comunitaria approvando disboscamenti su larga scala nella foresta di Białowieża, che dal 1993 fa parte delle Riserve della Biosfera, qualificazione Unesco che riconosce a certi ecosistemi uno status speciale in virtù del quale è necessaria la loro conservazione e quella della loro biodiversità, tramite la gestione sostenibile delle loro risorse. Davanti all’ammonimento, il nuovo ministro dell’Ambiente Henryk Kowalczyk e il primo ministro Mateusz Morawiecki hanno promesso di rispettare la legge europea.
Ma Białowieża non è comunque al sicuro: oggi gli alberi sono la fonte di bioenergia che serve alla Polonia per rispettare gli obiettivi europei, permettendole di sostituire il carbone su cui ancora si basa largamente il Paese. Un paradosso, dato che la distruzione della foresta mina la capacità di assorbire anidride carbonica e mitigare il clima tanto del Paese quanto dell’intera Europa. Per questo il Center for Climate Integrity a marzo ha chiesto all’Unione europea di eliminare la bioenergia dalla lista delle fonti rinnovabili.
Anche in Romania – casa di circa la metà delle foreste primigenie superstiti in Europa – mentre il governo afferma il proprio impegno, la sete di legname per la bioenergia, le costruzioni e altri impieghi è la stessa della Polonia. Ma qui sono i sindacati dei forestali a denunciare la mancanza di risorse per indagare sui traffici illeciti di legname, affiancati dai cittadini, e gli attivisti che protestano contro l’abbattimento di intere porzioni delle millenarie foreste del Paese est-europeo. La lotta ha anche preso una piega violenta: lo scorso 17 ottobre la guardia forestale Liviu Pop che indagava sul taglio illegale di legname nella regione montuosa di Maramures, nel nord del Paese, è stato ucciso da un colpo di fucile da caccia. È la seconda vittima in poco tempo: un mese prima è toccato a Raducu Gorcioaia, trovato morto nella propria auto a poca distanza dal sito di taglio illegale di Pascani, nel nord-est, ucciso da colpi alla testa probabilmente assestati con un’ascia. Gabriel Paun, capo dell’associazione ambientalista Agent Green, è scampato diverse volte agli agguati: quattro anni fa, durante le sue indagini nell’area del Parco Nazionale Retezat, è riuscito a sfuggire a un’aggressione che gli è costata diverse costole, una mano rotta e una grave contusione al cranio.
Romsilva, l’azienda statale che gestisce e salvaguarda la metà delle foreste romene, ha contato quest’anno 16 attacchi ai danni di agenti forestali, oltre ai sei con esiti mortali, nel corso degli ultimi anni. La velocità con cui la foresta viene distrutta è altrettanto allarmante: secondo le stime di Greenpeace Romania il Paese ne perde tre ettari ogni ora, a causa dell’incuria e della deforestazione legale e illegale. Nel 2017 le riprese di un drone vicino al confine con la Serbia, nel Parco Nazionale Semenic-Cheile Carasului – una delle più ampie faggete vergini d’Europa e area protetta – mostrarono la devastazione di circa 50 ettari di foresta. Grazie anche alle segnalazioni inviate dai cittadini tramite l’app Inspectorul Padurii, nel solo 2016 sono stati identificati 26 casi di disboscamento illegale al giorno, per un totale di 9 milioni di euro di danni per lo Stato, mentre l’anno dopo la guardia forestale di Timisoara ha sequestrato 85 camion di legname tagliato illegalmente, per un valore complessivo di oltre 220mila euro. Agenti forestali e attivisti continuano a chiedere maggiori risorse per fermare la strage di alberi e indagare sui responsabili, ma spesso vengono autorizzati solo a riparare ai danni, piantando alberelli e germogli, senza poter davvero bloccare la devastazione illegale in atto, che è aumentata del 32% nel solo 2017.
Se è vero che oltre la metà delle foreste europee si è persa nel corso di 6mila anni a causa di agricoltura e approvvigionamento di legname, la deforestazione maggiore si è avuta soprattutto nell’Età del Bronzo (3mila anni fa circa) e in epoca moderna. Lo rileva una ricerca dell’Università di Plymouth pubblicata su Scientific Reports e basata sull’analisi dei pollini di oltre 1000 siti e da cui emerge che circa 8mila anni fa si sarebbe potuta attraversare l’Europa da Lisbona a Mosca senza mai toccare terra, semplicemente passando da un albero all’altro. Oggi sappiamo quanto questi polmoni verdi siano importanti per l’equilibrio naturale e la mitigazione del clima e dobbiamo difenderli: la copertura boschiva è oggi solo un terzo di quella originaria e in alcuni Paesi copre solo il 10% del territorio. Gli scienziati concordano che preservare i polmoni verdi della terra e piantare quanti più alberi possibile – anche in città – è una delle strategie più importanti, assieme allo stop sulle emissioni di gas serra, per combattere il cambiamento climatico. L’Onu ha appoggiato l’indicazione promuovendo la Trillion tree campaign per la piantumazione di mille miliardi di alberi, che potrebbero assorbire il 25% delle emissioni mondiali di anidride carbonica annuali.
Nonostante gli sforzi di diverse istituzioni, in Europa la sopravvivenza stessa delle più antiche foreste vergini del continente continua a essere sotto minaccia, così come la vita di chi si impegna per difenderle. Gli omicidi compiuti dai trafficanti mossi dall’avidità non riguardano solo più luoghi lontani ed esotici come l’America latina, dove dai tempi di Chico Mendes la strage non si è fermata ma è proseguita con Berta Caceres in Honduras e più recentemente con Maxciel Pereira dos Santos tra Brasile e Colombia e Diana Isabel Hernández Juárez in Guatemala. Liviu Pop, Raducu Gorcioaia e i loro colleghi forestali romeni ricordano alla “verde” Europa che gli Accordi di Parigi e la sopravvivenza delle generazioni future si giocano anche nei nostri boschi.