Tra le persone più in vista per il loro impegno ambientale concreto negli ultimi anni ci sono Greta Thunberg e Alexandria Ocasio-Cortez. E tanto la capofila degli scioperi per il clima quanto la promotrice del Green New Deal sono state vittime di attacchi misogini per essersi esposte in prima fila per cambiare uno status quo che in tanti vogliono mantenere. Ma come Thunberg, anche le altre leader dei movimenti giovanili per il clima, sia in Europa che negli Stati Uniti, sono donne. Le attiviste, come emerge navigando online, si inseriscono anche nello spazio messo a disposizione dai social media per fare sensibilizzazione sulla crisi climatica. Nonostante le generazioni più giovani siano anche in questo più paritarie, esiste un divario nell’impegno ecologico tra uomini e donne. L’eco gender gap, come è stato definito, è infatti attestato da diverse ricerche: dai dati raccolti dalla società britannica di ricerche di mercato Mintel nel 2018 emerge che le donne sono più attente all’impatto ambientale delle proprie scelte quotidiane, oltre che a quelle lavorative, come le attività di stampo ecologico inaugurate da tante imprenditrici. La tendenza è confermata dal Nielsen Consumer Panel, per cui gli uomini, che parlano di più di ambiente e di come salvare il Pianeta, alla prova dei fatti sono superati dalle donne, che fanno della sostenibilità una pratica costante. Le motivazioni sono più radicate nella cultura di quanto si potrebbe pensare. Molti dei problemi più gravi che ci troviamo ad affrontare oggi sono infatti stati storicamente creati per lo più dagli uomini (perché avevano più potere), e oggi vengono affrontati nel concreto soprattutto dalle donne.
Sono di più le donne che all’automobile preferiscono i mezzi pubblici (il 30% – quasi dieci punti percentuali più degli uomini) e i prodotti naturali e meno inquinanti (il 37% – altri dieci punti in più); sono le donne a usare le borse riutilizzabili per fare la spesa (il 69% contro il 54% degli uomini); a essere disposte a pagare di più per prodotti etici e più rispettosi dell’ambiente (il 14% contro il 12% degli uomini); a dedicare più tempo e attenzione alla raccolta differenziata (il 77% delle donne la fa, anche qui altri dieci punti di vantaggio) e a incoraggiare amici e parenti a fare altrettanto.
Tra le motivazioni di questa disparità quella più lampante è che le donne restano, in media, sproporzionatamente responsabili della sfera domestica, ancora costrette nella rappresentazione di caregiver, della famiglia così come evidentemente del Pianeta. Come spiega l’analista Mintel Jack Duckett: “Molte donne gestiscono ancora il funzionamento della famiglia, come le faccende di casa, il bucato e perfino il riciclo di rifiuti. Tuttavia c’è anche una evidente e preoccupante frattura tra uomini e problemi ambientali, come se occuparsene in qualche modo possa minare la loro mascolinità”. La suddivisione del lavoro di cura, infatti, non esaurisce la spiegazione dell’indifferenza maschile verso l’ambiente. E se le agenzie di marketing cavalcano questa percezione, rivolgendo le loro campagne pubblicitarie eco-friendly prevalentemente al pubblico femminile, anche i marchi attenti a fare un marketing gender neutral rilevano che la maggior parte dei loro utenti sono donne.
In passato si è cercato di spiegare il senso di responsabilità delle donne con la loro tendenza alla socialità, all’empatia e all’altruismo, ma oggi si ritiene che il divario nella percezione della crisi climatica non sia completamente riducibile a queste – peraltro presunte – differenze. Da un lato è vero che le donne sono storicamente socializzate per prestare più attenzione all’altro – e quindi a ciò che le circonda – mentre il ruolo maschile tradizionale prevede un focus maggiore su se stesso, il proprio benessere e i propri obiettivi – un’impostazione che nel 2020 è ancora ben lungi dall’essere superata; dall’altro esiste anche un’associazione cognitiva molto radicata a livello inconscio tra femminilità e ambiente: questo, assurdamente, scoraggia gli uomini dal fare la loro parte nel concreto. A questo si connette, ad esempio, anche il fatto che la maggior parte di vegani e vegetariani – tra le cui motivazioni principali c’è proprio l’attenzione all’ambiente – siano donne, mentre la carne resta per molti uomini un legame stabile (arbitrario) con la propria identità di genere; lo sottolinea Richard Twine, docente di Scienze Sociali alla Edge Hill University, per il quale l’associazione è ancora molto forte, perché nella nostra cultura i significati associati al consumo di carne sono spesso connessi alla virilità.
Una motivazione interessante del divario nei comportamenti ecologici – molto indicativa dello stato della parità di genere – è che gli uomini, essendo storicamente più a loro agio nello status quo di una società che li favorisce, sono molto più inclini a credere che, se effettivamente c’è un problema, qualche governo o qualche innovazione tecnica o scientifica lo risolverà. Le donne al contrario, più svantaggiate, hanno meno fiducia nella capacità delle istituzioni e della tecnologia di risolvere i problemi concreti – perché le loro necessità ne sono state da sempre ignorate – e per questo sarebbero spinte a rimboccarsi le maniche.
Dall’incrocio di otto anni di dati raccolti sull’incidenza delle nozioni e della preoccupazione per la crisi climatica presso gli statunitensi dalla società di consulenza Gallup emerge inoltre che le donne conoscono meglio i dati scientifici sul tema rispetto agli uomini, eppure, tanto per cambiare, sottovalutano la propria conoscenza. A questo proposito è interessante notare che anche il negazionismo, la posizione che va oltre l’indifferenza per la crisi climatica non riconoscendone l’esistenza, è più forte tra coloro che sono più convinti di saperne di più sul tema. Questa opinione, non a caso, ha il suo maggiore bacino di consenso tra i maschi bianchi politicamente conservatori, una segmento di persone per le quali il mondo naturale e quello umano sono separati, in cui il primo sembra esistere affinché il secondo possa sfruttarlo, e la crescita economica è più importante della salvaguardia dell’ambiente. La scienziata politica Cara Daggett ha coniato un termine per descrivere l’insieme di queste caratteristiche: petro-masculinity (traducibile come “mascolinità petrolifera” o “del petrolio”, in riferimento al sostegno acritico per i combustibili fossili) e ne fanno parte gli esponenti di quella che i ricercatori Martin Hultmand e Jonas Anslhem chiamano industrial breadwinner masculinity (traducibile come “mascolinità del capofamiglia industriale”) ed è a loro si rivolgono i think tank conservatori con cui le grandi aziende inquinanti diffondono la disinformazione. L’associazione è motivata dal fatto che chi ha una visione della società e del mondo più gerarchica – e quindi patriarcale – più probabilmente minimizza i rischi del cambiamento climatico, vedendo invece nell’ecologismo una minaccia alle proprie prerogative e rigettandone quindi le idee per un meccanismo di difesa identitaria. L’archetipo di questi conservatori bianchi è senz’altro Donald Trump, che si è fatto portavoce di un certo trattamento nei confronti delle donne, tanto quanto della negazione della crisi climatica.
In questo quadro è possibile capire perché lo scorso anno, nel momento della sua massima esposizione mediatica – prima che la pandemia mettesse in ombra i movimenti dei Fridays for Future – Greta Thunberg fu vittima degli attacchi misogini di rancorosi maschi bianchi, coerentemente con la connessione tra questo segmento sociale e l’opposizione alla difesa del clima. Un legame indagato da anni dai ricercatori dell’università svedese Chalmers, tra cui Anshelm e Hultman, che nel 2014 sottolinearono che per gli scettici del clima non è l’ambiente a essere minacciato, ma un certo tipo di società industriale moderna costruita e dominata dalla loro forma di mascolinità, che sentono minacciata dall’uguaglianza di genere – il movimento #MeToo ha provocato un vero shock in questo senso – e dall’attivismo climatico che sfida il loro stile di vita. Antifemminismo, razzismo e negazionismo climatico finiscono così per sovrapporsi, e le scienze climatiche, per gli scettici appaiono come un’opposizione al primato maschile – per non parlare degli Studi di genere.
ll problema, però, non riguarda solo le frange più estremiste, perché gli stereotipi di genere modellano il modo in cui tutti viviamo e agiamo; per questo alcuni uomini, ad esempio, evitano comportamenti percepiti come “femminili”. Le conseguenze possono essere anche sociali, come sottolinea uno studio del 2019 dell’Università della Pennysilvania sulla relazione tra genere e comportamenti ambientalisti, per il quale gli uomini tendono a rifiutare le borse della spesa riutilizzabili e la raccolta differenziata – fattori percepiti come femminili – per paura di essere considerati effeminati o omosessuali. Si tratta di una conferma ai risultati di una ricerca pubblicata nel 2016 sul Journal of Consumer Research per la quale alcuni uomini eviterebbero o addirittura si opporrebbero a comportamenti green per salvaguardare la propria identità di genere.
I modelli comportamentali di genere rigidi, interiorizzati, si scontrano con stili di vita e azioni ecologiche, perché la cura dell’ambiente, anziché rafforzare i tratti maschili tossici come il dominio e la concorrenza, è cooperativa. Oggi le voci sempre più frequenti che finalmente incoraggiano a reinventare la mascolinità non possono non tenere conto delle implicazioni ambientali di una nuova visione più accogliente e flessibile del proprio ruolo. L’intersezionalismo nel movimento ambientalista rivela come questioni sociali apparentemente non correlate – come i modelli comportamentali che replicano la struttura sociale patriarcale – siano legati alla crisi climatica: se è vero che il comportamento di un singolo uomo non incide poi molto su un problema enorme come la crisi ambientale, una massa di uomini che smettono di affidarsi al potere della tecnologia e delle autorità aziendali e governative (come se fosse neutro), iniziando a fare pressione su di esse, probabilmente invece lo fa. Bisogna imprimere una svolta alla mentalità collettiva, perché ora sta causando danni sempre più gravi e tangibili, che coinvolgono tutti, senza distinzione di genere, classe o etnia.