Tra le rive della laguna di Korle, nella capitale ghanese di Accra, svetta con i suoi venti metri di altezza un’inquietante montagna di poliestere dalla quale si cibano una dozzina di buoi. I sedimenti in questione sono rifiuti tessili, per la maggior parte vestiti di seconda mano inviati dalle numerose organizzazioni caritatevoli occidentali – per intenderci, parte di ciò che finisce nei cassonetti gialli dedicati allo smaltimento dei capi di vestiario. Ogni settimana circa 15 milioni di capi arrivano da Europa, Regno Unito e Stati Uniti in Ghana, riversandosi nell’immenso mercato centrale della Capitale. Di questi, viene stimato che più del 40% presenti una qualità così bassa da non poter essere neanche utilizzato, finendo sulla cima del cumulo di Korle. Così, quelle che in teoria nascono come operazioni benefiche e solidali finiscono per apparire a tutti gli effetti esportazioni di rifiuti verso il Sud del mondo.
Parte di essi viene poi smaltito nei modi più approssimativi: ciò che non viene bruciato sarà trascinato direttamente in fiumi e mari ed essendo rifiuti tutt’altro che biodegradabili – considerato che il poliestere viene ormai utilizzato nella produzione di più di due terzi dei capi d’abbigliamento venduti globalmente – vanno ad aggiungersi alle cento milioni di tonnellate di microplastiche attualmente presenti nelle acque del mondo, parte delle quali finiscono poi nel nostro corpo. Quella di Accra non è l’unica discarica tessile a cielo aperto ma se ne trovano di dimensioni uguali se non maggiori anche in altri Paesi del mondo, tra cui il deserto cileno di Atacama. A causarne la formazione è la combinazione deleteria dell’aumento generalizzato della produzione di capi tessili e la simultanea riduzione dei loro tempi di utilizzo medi che, complice anche lo sviluppo dei marchi fast fashion, negli ultimi quindici anni si sono dimezzati.
Nonostante la dichiarata attenzione verso l’usato e la sostenibilità da parte delle nuove generazioni, la fast fashion risulta tutt’altro che in crisi. Se fino a un paio di anni fa diverse testate giornalistiche solevano parlare di crollo generalizzato del settore, ricordandoci le presunte débâcle finanziarie di grandi marchi come Forever21 e H&M, oggi, nel periodo di ripresa dai lockdown nazionali, i numeri raccontano un’altra storia. Secondo un recente report redatto da McKinsey, la produzione di vestiti continuerà a crescere in media del 3% almeno fino al 2030. Lo stesso documento riporta inoltre che negli ultimi vent’anni il numero di capi prodotti è raddoppiato. Il maggior contributo a queste statistiche proviene proprio dal settore della moda low cost, mai stato così florido dalla sua nascita, sulla fine degli anni ’90. A testimonianza di questo rinnovamento, che vedrà il giro d’affari complessivo aumentare dai 25 miliardi di dollari del 2020 ai circa 30 nel 2021, il recente successo globale del colosso cinese Shein. Con dieci miliardi di dollari di vendite registrate nel 2020, la multinazionale del fast fashion, fondata a Nanchino nel 2008, sta spopolando nel mondo. Gli ultimi otto anni hanno visto tassi di crescita del valore delle vendite pari ad almeno il 100%. Ad oggi, secondo il Wall Street Journal l’e-commerce di Shein avrebbe una valutazione di mercato ben superiore alla somma complessiva dei maggiori marchi di fast fashion internazionali, tra cui H&M e il gruppo Inditex – che comprende Zara, Bershka, Oysho e Pull and Bear.
La piattaforma si sviluppa totalmente sulla rete e non detiene negozi fisici in cui vendere la propria merce, che spazia dai vestiti alle scarpe, fino ai cosmetici. Il modello di business apparentemente vincente si fonda su tre elementi essenziali: costi ridotti al minimo, volumi di produzione elevati e soprattutto, l’adozione del modello just in time al fine di limitare gli scarti da inventario. Quest’ultimo elemento, nonostante possa suggerire una miglior gestione degli sprechi, è legato fondamentalmente alla necessità di proporre trend e collezioni a una velocità che persino Zara e H&M farebbero fatica a sostenere. Il catalogo online di Shein si aggiorna quotidianamente proponendo fino a mille nuove fantasie a distanza di ventiquattr’ore. Una volta introdotti i modelli, l’azienda ne testa la domanda e l’interesse producendo in quantità limitate. Qualora questi dovessero avere successo, la produzione ne verrebbe immediatamente incrementata adeguandosi alla richiesta. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, questo modello promuove enormemente la produzione industrializzata e massificata di capi tessili: la domanda, infatti, viene generata attraverso un utilizzo massiccio delle campagne di marketing sui social, dove gli utenti vengono ripetutamente invogliati a scoprire nuovi prodotti ancor prima di aver ricevuto i precedenti. Lo stesso frenetico ritmo di produzione si traduce spesso in condizioni lavorative al limite della legalità denunciate da organizzazioni investigative internazionali. Secondo un report di PublicEye, gruppo indipendente svizzero, i dipendenti di alcuni fornitori di Shein lavorerebbero dalle 12 alle 14 ore giornaliere, in improvvisati ambienti residenziali fuori norma e per circa 28 giorni al mese con due o, nei casi migliori, tre giornate di riposo.
Il capo d’abbigliamento viene quindi concepito come un vero e proprio strumento usa e getta dal ciclo vitale programmato a una manciata di giorni, in seguito ai quali l’utente potrà prontamente rifarsi gli occhi con migliaia di novità introdotte. La moda si adegua in questa maniera ai principi contemporanei legati al bisogno di una fruizione veloce e inconsistente del prodotto, andando a sovrapporsi all’ormai universalmente radicata logica del “più a meno”. Un’indagine condotta da un gruppo di ricerca anglosassone ha rilevato che una donna su tre considera vecchi – e quindi eliminabili o sostituibili – i vestiti utilizzati per un periodo inferiore alle tre volte. Si stima inoltre che un abitante statunitense compri in media 37 chili di abiti ogni anno – 26 per gli europei, gettandone circa la metà. L’unione di tutti questi fenomeni forma quella che ora viene definita l’evoluzione del fast fashion, ovvero l’ultra fast fashion, di cui Shein è il principale esponente. Azienda che, anche per quanto riguarda l’etica lavorativa, sembrerebbe tutt’altro che virtuosa.
Il processo sempre più velocizzato di creazione e consumo – coincidente spesso con l’usura – è responsabile della produzione di immensi danni ambientali causati dall’utilizzo di plastiche come il poliuretano e il poliestere unito a un intenso consumo d’acqua. Basti pensare che la produzione di un solo paio di jeans richiede in media 7500 litri d’acqua, l’equivalente di quasi cento docce consecutive. Anche sul fronte delle emissioni il settore della moda è ben lontano dal concetto di impatto zero, producendo da solo l’8% del totale dei gas serra del pianeta. Con i numeri e le stime attuali, si prevede che la quota di emissioni legate al mercato dell’abbigliamento possa raggiungere facilmente il 20% nel 2030. A tal proposito, la Commissione Europea ha recentemente approvato una strategia comunitaria inserita all’interno del pacchetto del Green Deal con lo scopo primario di allungare la vita media dei prodotti tessili. Le misure in questione saranno attuate entro la fine del decennio in corso e comprendono l’introduzione di standard obbligatori per l’intera filiera, dal produttore al singolo Stato in cui l’oggetto è venduto. I tessuti a cui si fa riferimento dovranno essere obbligatoriamente composti da fibre riciclate o prive di elementi chimici nocivi, mentre la distruzione degli stessi mediante incenerimento o conferimento in discarica sarà ridotta al minimo.
In un settore che genera ogni anno cento miliardi di capi – di cui appena l’1% viene correttamente riciclato – l’indifferenza generale sostenuta dalla frenesia dell’acquisto compulsivo è un pericolo reale. Fenomeni commerciali come quello di Shein ci ricordano che la forma mentis iper-consumistica legata al meccanismo dopante della gratificazione istantanea è ben radicata nella società. Nonostante l’incremento di consapevolezza tra i giovani unito agli ottimi risultati di crescita registrati dal mercato del second hand sia un dato incoraggiante, è decisamente prematuro parlare di crisi della moda veloce. La volontà di comprare meno e meglio soccombe di fronte ai prezzi e agli effetti del ciclo di produzione della dopamina sfruttato dal marketing e innescato dalla ripetizione continua di azioni stimolanti come l’acquisto di beni usa e getta. Inoltre, la libertà percepita dall’incremento della possibilità di scelta diventa fittizia e ingannevole: è proprio consumando, sentendoci puntualmente capaci di soddisfare ogni bisogno – sia esso diretto o meno – che i vincoli della nostra insoddisfazione si fanno ancora più opprimenti, rendendoci meri strumenti necessari al funzionamento del ciclo di produzione-distruzione. Valutare razionalmente le scelte che facciamo significa valutare chi siamo: un ripensamento individuale volto all’etica della responsabilità collettiva è fondamentale per potersi definire realmente liberi.