Dal 14 al 17 settembre si terrà una plenaria particolarmente importante per il Parlamento europeo che, tra le altre cose, si occuperà di discutere e approvare il bilancio a lungo termine e il piano per la ripresa economica proposto dalla Commissione a maggio e approvato un mese fa dal Consiglio.
Raggiunto dopo estenuanti ore di discussione in cui si sono scontrate visioni dell’Europa molto diverse tra loro, il risultato è stato definito storico dalla maggior parte dei leader e dei commentatori. Per la prima volta nella storia il fondo verrà finanziato attraverso l’emissione sul mercato di titoli comuni. Per arrivare a questa conclusione, tuttavia, si sono resi necessari tagli al bilancio a lungo termine dell’Unione europea, che hanno sottratto fondi a diversi programmi di investimento nel settore della ricerca, della promozione e diffusione del digitale e della transizione ecologica.
Subito dopo aver acclamato il raggiungimento di un accordo, il presidente del Parlamento europeo David Sassoli ha fatto sapere che i deputati di Strasburgo intendono battersi per ottenere un patto migliorativo, anche dal punto di vista del sostegno alla svolta sostenibile. Anche se sembra passata in secondo piano di fronte alla più imminente emergenza sanitaria, la crisi climatica rimane infatti attuale. Quest’anno, a causa dello stop forzato agli spostamenti e alle attività produttive, abbiamo terminato le risorse che la Terra può riprodurre in un anno con tre settimane di ritardo rispetto al 2019, ovvero il 22 agosto. Non possiamo però contare su una pandemia per cambiare il nostro stare al mondo, e abbiamo comunque divorato beni naturali che potrebbero essere rigenerati in 12 mesi se avessimo 1,6 pianeti – e ne abbiamo soltanto uno.
Mentre eravamo concentrati su un’emergenza che appariva più imminente, perché intasava gli ospedali e impediva il normale funzionamento della nostra società, i fuochi devastavano il Circolo polare artico, emettendo il 35% in più di anidride carbonica rispetto all’anno scorso, e distruggevano la California e l’Australia, infiammando una grossa parte dell’habitat naturale di decine di specie animali, molte delle quali già in via d’estinzione. Il riscaldamento globale causava lo scioglimento del manto ghiacciato della Groenlandia, che secondo uno studio ha raggiunto quest’anno un punto di non ritorno, ovvero continuerebbe a perdere massa anche se tornassimo ai livelli di emissione di 20 o 30 anni fa. Faceva lo stesso con l’ultima piattaforma di ghiaccio canadese, fusa da temperature di 5 gradi più alte della media. Vicino a noi, il ghiacciaio di Tourtemagne, sulle Alpi svizzere, si spezzava in due e si teme possa presto avvenire lo stesso con il Planpiecieux, in Valle d’Aosta.
Sono solo alcuni delle decine di esempi che si possono fare per dimostrare che la crisi climatica è altrettanto imminente e più pericolosa della pandemia – che oltretutto è legata a doppio filo con il rapporto predatorio che l’uomo ha instaurato con l’ambiente. Fino a oggi però, l’emergenza climatica non è stata trattata come tale. Non si può dire che non sia stato fatto nulla, ma si è trattato perlopiù di azioni troppo deboli e astratte per avere un impatto su un fenomeno che accelera ogni anno di più. Un esempio su tutti: l’anno scorso è stato l’anno delle dichiarazioni di “stato di emergenza climatica”: tra gennaio e dicembre 2019 le autorità che hanno preso questa posizione sono passate da 233 a 1.288, facendo sì che una persona su 10 sul Pianeta vivesse in uno Stato che aveva riconosciuto la gravità e l’imminenza del problema del clima. La maggior parte di queste dichiarazioni, però, sono solo istituzionali, vaghe, non sono legalmente vincolanti e difficilmente si traducono in misure che abbiano effetti concreti.
Il modo in cui la maggioranza dei governi si è comportato durante la pandemia ci ha dato un assaggio di quanto può essere deciso l’intervento della politica quando c’è un consenso diffuso sulla necessità di azioni radicali, e non si può dire che lo stesso approccio sia generalmente usato contro il cambiamento climatico. Se da un lato c’è difficoltà a contrastare gli interessi economici di coloro che vorrebbero che tutto rimanesse com’è, dall’altro ci sono governi che negano persino l’esistenza del problema e abbandonano gli accordi per il clima. L’Europa, tra le grandi potenze mondiali, è forse l’unica che ha messo al primo posto delle sue priorità la gestione dell’emergenza climatica. Con il Green Deal l’Unione punta ad azzerare le emissioni nette di gas serra entro il 2050, trasformando l’impegno ecologico in un obbligo di legge per gli Stati membri attraverso un’apposita normativa europea, l’European Climate law, che dovrebbe essere votata a ottobre. Il piano è quello di investire nella ricerca e nella realizzazione di tecnologie ecosostenibili, supportare le aziende in un processo di innovazione che le renda sempre meno inquinanti, impegnarsi a rendere il trasporto pubblico più ecologico e il nostro sistema di approvvigionamento dell’energia sempre meno dipendente dai combustibili fossili. Per raggiungere questi obiettivi senza rischiare di impoverire regioni che basano su questi le loro economie è stato pensato il Just Transition Mechanism, un fondo che punta ad assicurare l’equità e l’assottigliamento delle disuguaglianze, considerato fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi ecologici. La prima proposta della Commissione prevedeva di stanziare a questo scopo 7 miliardi di euro, una cifra molto criticata in quanto inadeguata. La seconda, di 40 miliardi, è stata accolta benissimo, ma è risultata dimezzata dall’accordo del Consiglio di luglio.
“Molta enfasi è stata messa sui tagli apportati al Just Transition Fund,” ci spiega Simone Tagliapietra, del think tank Bruegel, di Bruxelles. “Noi abbiamo fatto due diversi rapporti per il Parlamento europeo su questo tema, uno per la Commissione budget e uno per la Commissione regioni. Da questi è emerso che JTF è di fatto un frammento rispetto ai grandi fondi regionali e di coesione che l’Europa mette a disposizione, che rappresentano un’importante voce del bilancio comunitario. Noi pensiamo che molto si possa fare sul tema di un’equa transizione anche usando direttamente questi strumenti.”
I fondi di coesione e il Fondo europeo per lo sviluppo regionale di cui parla sono due dei cinque fondi strutturali dell’Unione europea, che sostengono direttamente gli Stati membri e rendono possibili progetti che con le sole risorse nazionali sarebbero difficili da ultimare. I primi sono soldi messi a disposizione per quei Paesi in cui il reddito pro capite è inferiore al 90% della media europea e possono essere utilizzati per progetti di sviluppo del settore dell’energia e dei trasporti, che offrano vantaggi dal punto di vista ambientale (l’incremento dell’offerta di trasporti pubblici, il rafforzamento di infrastrutture di trasporto meno inquinante, ecc). I secondi servono a finanziare progetti di innovazione tecnologica, per l’agenda digitale, per il supporto alle Pmi e per il sostegno all’economia sostenibile. Rispetto all’anno scorso la proposta di oggi prevede tagli anche a questi fondi – una decisione a cui il Parlamento europeo si è sempre opposto, anche prima del coronavirus – ma il dibattito è ancora in corso e proseguirà anche dopo la plenaria di settembre.
I fondi regionali e di coesione sono già stati utilizzati per promuovere politiche verdi in passato, e continueranno a farlo anche nel prossimo bilancio pluriennale, molto probabilmente in proporzione maggiore anche se il totale dei fondi dovesse essere ridotto. Il Parlamento europeo potrebbe decidere di vincolare ulteriormente l’accesso a questi meccanismi di finanziamento alle politiche sostenibili, in modo che gli Stati debbano dare maggiori garanzie di sostenibilità, impegnandosi a usarli in un’ottica ambientalista, senza dover ricorrere a un aumento dei soldi stanziati.
Certo, la sfida non si conclude in Europa. Se Strasburgo dovesse riuscire a salvare l’impegno per il clima, in Italia dovremmo fare molto per farci trovare pronti. Secondo un’analisi di Francesco Foglia, ricercatore dell’Università di Reggio Calabria, il nostro Paese è stato il principale beneficiario delle risorse stanziate dall’Unione a favore del clima negli ultimi anni, con 19 miliardi di euro, l’11% del totale. Il problema, però, è che dei soldi ricevuti ne abbiamo spesi poco più di 5 miliardi, il 28%. Questo non perché non ci sia necessità di risorse per contrastare il cambiamento climatico, ma perché siamo arenati nelle difficoltà della nostra pubblica amministrazione, vecchia, poco qualificata e in sottonumero, oltre che ostaggio della malapolitica. Su di noi pendono 17 procedure di infrazione per violazione di norme ambientali, oltre alle 4 relative all’energia (dato aggiornato a marzo 2019). Per esempio, abbiamo disatteso i termini per valutare lo stato ecologico delle acque marine, superato i valori massimi di Pm10 e di biossido di azoto, mancato di rispettare la direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane e ci siamo “dimenticati” di istituire le Zone speciali di conservazione per la tutela e il ripristino di habitat naturali a rischio. Ci sono poi la procedura che riguarda l’Ilva di Taranto, una ferita aperta per il territorio, e quella per la non corretta applicazione delle norme sui rifiuti pericolosi e sulle discariche.
A metà giugno Faith Birol, il direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale dell’energia, aveva dichiarato che all’umanità restavano solo sei mesi per mettere in campo misure che avessero un impatto concreto sulla curva delle emissioni dei prossimi anni. Proprio a causa della pandemia, infatti, sono stati immessi sul mercato migliaia di miliardi di dollari, che plasmeranno l’economia dei prossimi decenni. Le decisioni che verranno prese in questi mesi influiranno molto sugli anni a venire e scelte sbagliate rischiano di vanificare gli sforzi fatti fin qui. In un momento delicato come quello che stiamo attraversando, il Parlamento europeo è chiamato a giocare un ruolo fondamentale, emblema dell’importanza che ricopre e miglior risposta contro tutti gli euroscettici. Strasburgo è l’istituzione sulla quale si impernia l’essenza democratica delle istituzioni europee e in quanto tale è quella che meglio si presta a difendere non solo le istanze dei cittadini del proprio Stato, ma anche gli interessi della comunità europea in generale, che oggi passano necessariamente per la prioritizzazione della lotta contro il cambiamento climatico. Una lotta che non può essere messa in secondo piano di fronte a nulla.