A volte si pensa, erroneamente, che il colonialismo sia l’unica forma di controllo su un territorio, quindi la coscienza degli italiani si sente in pace avendo ormai superato da svariati decenni la propria fase coloniale e sue azioni poco nobili in Africa durante il fascismo. In realtà continuiamo da anni a depauperare ampie aree di Paesi stranieri, causando danni ambientali, economici e sociali. Gli scandali che hanno travolto l’Eni sono uno degli esempi principali di come sia stato possibile far passare sotto traccia, e con la connivenza dello Stato, tutto questo.
L’Eni s.p.a. nasce come ente pubblico nel 1953 grazie al genio di Enrico Mattei, per poi diventare società per azioni nel 1992, trent’anni dopo la morte – anzi, l’omicidio – del suo fondatore. La partecipazione pubblica all’interno della multinazionale è tuttora in primo piano, dato che il ministero dell’Economia e delle Finanze e la Cassa Depositi e Prestiti ne risultano azionisti al 30,33%. Lo Stato ha dunque a tutti gli effetti una responsabilità giuridica e morale per tutte le operazioni discutibili dell’Eni. L’Italia, insieme all’Eni, sta quindi dissipando da anni le ricchezze del continente africano.
L’Eni opera in 67 Paesi, e il 52% delle riserve di idrocarburi di sua proprietà si trova in Africa. Il primo problema riguarda l’impatto ambientale, con Legambiente che ha lanciato l’allarme mostrando come la multinazionale non stia adottando adeguate politiche per fronteggiare i cambiamenti climatici. Come sappiamo è necessario e sempre più urgente ridurre drasticamente i consumi di petrolio e di gas indirizzando le proprie politiche sulle fonti rinnovabili, ma il dossier di Legambiente stigmatizza la condotta dell’Eni, che nel 2018 ha investito solo 143 milioni di euro (su un fatturato di 75,8 miliardi) in sviluppo di progetti su rinnovabili ed economia circolare, aumentando invece la sua produzione di petrolio: 1,9 milioni di barili al giorno. Tutto questo oltre alla salute del pianeta, e quindi la sopravvivenza dell’uomo, continua a danneggiare nel presente intere popolazioni africane che subiscono le sopraffazioni dell’Eni.
La nazione chiave di questo scandalo è la Nigeria, e in particolare la zona riconducibile al delta del fiume Niger. Qui, negli anni Cinquanta, sono stati scoperti numerosi giacimenti di petrolio, attirando i grandi nomi del settore come Shell, Eni, Repsol, Chevron e tanti altri. L’80% del Pil della Nigeria deriva dall’estrazione del greggio, ma la ricchezza del sottosuolo non porta alcun vantaggio alle popolazioni locali, che invece ne subiscono gli effetti negativi da anni. La dispersione del greggio e le emissioni di gas nell’aria hanno comportato gravi conseguenze per gli abitanti del delta del Niger, in primis un’aspettativa di vita più bassa rispetto al resto della nazione, ovvero di 40 anni rispetto alla media di 53/55 del resto della nazione – che comunque nel 2018, secondo i dati della Who si attestava al 178 posto. In un rapporto del PNUE (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) sono esposti i risultati dei campioni esaminati in 780 pozzi della zona, dove l’acqua usata dalla popolazione locale ha livelli di tossicità 900 volte superiori a quanto consentito dall’Oms. Con i pozzi contaminati dal benzene, gli abitanti sono costretti a scavare in zone ad alto rischio di frane per raggiungere l’acqua potabile. Anche il cibo che mangiano è contaminato, in particolar modo il pesce, e l’incidenza di malattie è estremamente elevata. Ne deriva una fuga di massa. Molte persone che raggiungono le nostre coste provengono proprio da quelle zone che noi stessi abbiamo contribuito a distruggere. “Aiutiamoli a casa loro” perde dunque ogni significato, dato che quella casa l’abbiamo già devastata.
Amnesty International ha realizzato Decode Oil Spills, un’indagine in cui Eni e Shell vengono accusate per le fuoriuscite di petrolio nel delta del Niger. I dati dell’indagine smentiscono in particolar modo la giustificazione delle multinazionali secondo cui la maggior parte delle perdite sono causate dai furti della popolazione locale. I ricercatori hanno analizzato migliaia di fuoriuscite di greggio, tra queste 89 (di cui 43 dell’Eni) sono state collegate a malfunzionamenti del gasdotto e alla corrosione degli impianti. L’Eni sembra però abbia preferito attribuire la colpa ai furti che subirebbe invece che risarcire le comunità locali. La denuncia di Amnesty continua con un’analisi sui ritardi in seguito alle segnalazioni delle fuoriuscite. Secondo le regole nigeriane, le aziende devono recarsi sul luogo entro 24 ore dalla segnalazione per ripulire la zona e impedire che il petrolio contamini le falde acquifere. Amnesty riporta che nella provincia di Bayelsa, 700 km a Sud di Abuja, l’Eni si sarebbe attivata a seguito della segnalazione dopo 430 giorni. Più di un anno, quando per legge bisogna intervenire entro un giorno. Negligenze del genere, come è evidente, sono la causa di ingenti danni all’ambiente.
Non stiamo parlando di un’area trascurabile o desertica, perché nella zona del delta del Niger abitano ben 27 milioni di persone. Qui l’aspettativa di vita si aggira intorno ai 40 anni e il tasso di disoccupazione varia tra il 75 e il 95%, poiché i lavori nei pozzi petroliferi vengono affidati alla manodopera specializzata che viene dall’estero, soprattutto dall’Europa. C’è però chi ha reagito. La comunità Ikebiri nel 2018 ha portato a processo l’Eni grazie al sostegno della ong Friends of the earth. L’accusa riguarda uno sversamento di petrolio avvenuto nel 2010 a Clough Creek, nel Bayelsa, e sono stati richiesti 2 milioni di euro di risarcimento danni per disastro ambientale, più la bonifica del territorio – ovvero cifre irrisorie rispetto al giro d’affari della società. L’Eni ha riconosciuto l’incidente ma ha tentato di diminuirne l’entità, calcolando danni meno ingenti. Le dichiarazioni degli abitanti dei villaggi, in prevalenza pescatori e contadini, portano però alla luce un quadro diverso: allevamenti distrutti, effetti devastanti sui raccolti e problematiche fisiche a causa del fumo respirato dopo l’incidente. Sarà la giustizia a far luce sulla vicenda, ma nelle aule dei tribunali gli avvocati dell’Eni hanno già altri problemi da risolvere. Abbiamo infatti parlato dei problemi ambientali; è arrivato il momento di concentrarci su tangenti e corruzione.
Quest’estate il pm di Milano Fabio De Pasquale ha chiesto di condannare a otto anni di reclusione l’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi e l’ex ad Paolo Scaroni per corruzione. Secondo le ricostruzioni della pubblica accusa, Eni e Shell avrebbero pagato una tangente da 1,3 miliardi di dollari a personaggi vicini al governo nigeriano per l’acquisto del giacimento Opl 245. È stata inoltre chiesta la confisca di 2,1 miliardi di dollari tra le società e gli imputati. I soldi versati per il controllo del giacimento non sono mai rimasti in Africa, ma sono finiti in conti in giro per il mondo e nelle tasche di dirigenti a vario titolo. L’accusa illustra un sistema in cui l’Eni ha per anni svolto le sue operazioni non soltanto danneggiando l’ambiente e le popolazioni locali, ma corrompendo i politici del luogo. Anche in questo caso sarà la giustizia a fare il suo corso, ma ricordiamo ancora che l’Eni non è una semplice azienda privata: è una Società per Azioni a partecipazione pubblica.
Lo scorso anno il governo ha approvato la legge 92/2019, che riporta nelle scuole l’educazione civica e la potenzia con una sensibilizzazione sui cambiamenti climatici. Una grande vittoria, se non fosse per un dettaglio che rende l’intera vicenda grottesca, se non raccapricciante: l’Associazione Nazionale Presidi ha realizzato un programma di incontri sui temi della sostenibilità ambientale, e l’accordo l’ha siglato con l’Eni.
I primi seminari si sono svolti a gennaio del 2020, e fa sorridere che a spiegare agli studenti i metodi efficaci per affrontare i cambiamenti climatici sia proprio una multinazionale del petrolio accusata di disastri ambientali, di sfruttamento delle popolazioni locali e di corruzione. Qualora si pervenisse a condanne definitive, sarebbe come se a un convegno sul messaggio di pace di John Lennon avessero invitato Mark Chapman. Con ogni probabilità agli studenti non spiegheranno che i pozzi dei nigeriani sono avvelenati, che gli abitanti si lavano con acqua contaminata e che mangiano pesce al benzene; non spiegheranno in quale modo siano state sfruttate le risorse dell’Africa e in quale modo sia stato possibile arricchirsi sulle spalle dei più deboli; non verrà svelato il male della corruzione. E, soprattutto, sembra prevedibile che non racconteranno nulla riguardo la connivenza dello Stato in questi crimini.