In assenza di studi mirati sul’impatto di certi agenti inquinanti, risulta più facile ignorarli. Tra questi spicca il metano. Se è vero che la pandemia ha temporaneamente ridotto le emissioni di CO2, quelle del metano hanno invece sempre continuato a salire. Nonostante riceva poche attenzioni, il metano è responsabile per circa un quarto dell’innalzamento delle temperature globali. Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), per limitare il riscaldamento globale a 1.5-2ºC, come stabilito dall’accordo di Parigi, è necessario che le emissioni di metano diminuiscano del 35% rispetto ai livelli del 2010 entro il 2050. Dopo un plateau iniziato nel 1999, le concentrazioni di metano hanno preso ad aumentare a partire dal 2007, continuando fino a oggi. Al momento attuale, 300 milioni di tonnellate di metano sono prodotte ogni anno a causa dell’attività dell’uomo e tale tendenza è destinata ad aumentare ancora. Di conseguenza, le concentrazioni di metano sono ora pari a 2.5 volte quelle del periodo precedente alla rivoluzione industriale. La brutta notizia è che il metano ha un effetto riscaldante nettamente maggiore della CO2 nella stessa unità di tempo: in un periodo di vent’anni, una tonnellata di metano riscalderà l’atmosfera circa 80 volte una tonnellata di CO2.
Politici e pubblico tendono a preoccuparsi delle emissioni di diossido di carbonio trascurando gli effetti di una riduzione delle emissioni di metano. L’International Energy Agency (IEA), ha stimato che il 75% delle emissioni prodotte dal settore dell’Oil & Gas (il 16.5% delle emissioni antropiche totali) oggi potrebbe essere evitato grazie a tecnologie ormai disponibili e che il 40% di queste potrebbe peraltro essere eliminato a costo zero per le imprese. Essendo il metano un prodotto relativamente prezioso, infatti, grazie alle tecnologie contemporanee, se raccolto può essere venduto. Un’ampia gamma di ormai note e ben comprese tecnologie sono quindi in grado di assicurarci una riduzione notevole delle emissioni di metano dall’industria petrolifera e del gas. Un compito più difficile rappresenta ridurre le emissioni degli allevamenti intensivi e dell’agricoltura industriale. Adottare misure volte a ridurre queste emissioni ci permetterebbe di ridurre anche i numeri degli altri gas serra. Le emissioni globali derivanti dall’allevamento intensivo sono infatti paragonabili a quelle dell’intero settore dei trasporti (14,5% delle emissioni complessive di gas serra) e allevamento e agricoltura intensivi rappresentano insieme due terzi della totale emissione di metano legata alle attività umane. In Italia, circa il 10% dei gas serra viene prodotto dal settore agricolo, ma sono l’Asia, l’Africa e il Medio Oriente le zone in cui le emissioni di questo settore sono aumentate maggiormente.
Il metano degli allevamenti industriali è prodotto da batteri presenti negli intestini dei ruminanti e nelle loro feci in decomposizione. Se attaccare i metanogeni stessi o nutrire gli animali da allevamento con alghe contenenti bromoformio sembrano essere soluzioni efficaci nell’immediato, una soluzione più efficace e certamente in grado di assicurare risultati, mentre i governi temporeggiano, è legata alle nostre scelte alimentari. Una commissione di esperti ha pubblicato su The Lancet una stima relativa ai consumi di cibo di origine animale che ci permetterebbero di evitare il collasso dell’ecosistema. Per carne e pesce si parla di circa 200 grammi a settimana.
L’obiettivo di stabilizzare il clima è in forte conflitto con il modo in cui l’uomo moderno sceglie di nutrirsi. Un report pubblicato su Nature riporta come spingere verso diete prevalentemente a base vegetale ci permetterebbe di contenere, entro il 2050, il riscaldamento globale, facendoci risparmiare 332-547 milioni di tonnellate di CO2 e raggiungere gli obiettivi fissati con l’accordo di Parigi. A oggi, l’agricoltura industriale è responsabile del 33% delle emissioni di CO2 a livello mondiale. Ma contrariamente a quanto in molti sono portati erroneamente a credere, eliminare gli allevamenti intensivi ci permetterebbe di ridurre anche il consumo di terreno per il semplice motivo che non ci servirebbe foraggio. Il bestiame produttivo sfrutta infatti più del 70% delle terre agricole del pianeta tra pascoli e terreni per coltivare mangimi, producendo solo il 18% del fabbisogno calorico globale: un animale da reddito produce a tutti gli effetti meno di quanto consuma.
Il cibo destinato al bestiame potrebbe nutrire direttamente l’uomo limitando drasticamente l’incidenza di fattori collaterali come, tra i tanti, la deforestazione. Per citare un esempio, il 70% della soia coltivata nel mondo è destinata agli animali da allevamento e la sovrapproduzione di questo legume ha un costo altissimo in termini di impatto ambientale. Le coltivazioni di soia, la cui richiesta cresce parallelamente al consumo della carne, sta portando progressivamente alla deforestazione della foresta amazzonica. Non solo: in questa regione l’allevamento di bovini è la causa primaria di deforestazione, e nel 2006 la Fao ha stimato che, complessivamente, il 70% delle terre deforestate dell’Amazzonia è stato trasformato in pascoli bovini e la produzione di mangime occupa gran parte del restante 30%. La distruzione di questa area geografica impedisce alle piante di assorbire la CO2 trasformando la foresta, a oggi, in un catalizzatore del riscaldamento globale. Per cambiare il corso degli eventi in merito alla deforestazione, diversi timidi tentativi hanno aiutato a recuperare ciò che restava delle foreste del mondo. Tra questi, numerosi programmi di rimboschimento in America, Cina, Europa e India. Simili risultati non raccontano però la storia nella sua interezza: la verità è che ci troviamo di fronte alla favola distorta di Robin Hood che, confuso, ruba ai poveri per dare ai ricchi – è la Cina, di nuovo, il principale Paese al mondo importatore di soia destinata alle mangiatoie, in particolare dei maiali, di cui è il principale allevatore.
Per ogni albero piantato nei propri territori, i Paesi ricchi continuano a radere al suolo vaste aree di foresta in quelli più poveri. Nei Paesi del G7, per esempio, le aree coperte da foreste sono cresciute ogni anno tra il 2001 e il 2015, ma allo stesso tempo questi Paesi, solo nel 2015, hanno contribuito a una perdita netta di 20mila chilometri quadrati di foresta nel resto del mondo. Una foresta però non vale l’altra. L’impatto ambientale della perdita di tre alberi della foresta amazzonica corrisponde a un danno maggiore della perdita di quattordici alberi in una taiga qualsiasi. Garantire la conservazione di un ecosistema apparentemente stabile in casa propria non è di certo la migliore tra le soluzioni.
E ancora, come ormai per forza di cose è apparso chiaro a tutti, cambiamenti della superficie forestale sono associati a epidemie di malattie zoonotiche e trasmesse da vettori e la sempre crescente richiesta di alimenti di origine animale, con la conseguente e inevitabile crescita del numero di allevamenti intensivi, ci espone maggiormente al rischio di fenomeni di antibiotico-resistenza. Dobbiamo iniziare a considerare l’ipotesi che se non ci decidiamo ad agire adesso saremo presto colpiti da altre pandemie, magari peggiori della Covid-19. Senza una presa di posizione ci troveremo più in fretta di quanto siamo disposti a immaginare in un pianeta gravemente degradato, in cui la maggior parte di noi soffrirà di malnutrizione e malattie oggi ancora prevenibili.
Sarebbe ora di sostituire la dicitura “cambiamento climatico” con “emergenza climatica”, perché le parole contano e bisogna adeguare la comunicazione all’entità del problema. Usare le parole giuste conta tanto quanto indirizzare le persone verso scelte consapevoli e adeguate. Se le parole aiutano a sensibilizzare, la scelta del singolo perde valore nel momento in cui l’azione dei Paesi diverge dalle premesse. Gli Stati più vulnerabili necessitano di supporto economico da parte dei finanziatori più ricchi per potersi trovare nella situazione in cui i finanziamenti vengono utilizzati per sviluppare resilienza climatica. Inoltre, le importazioni e le esportazioni devono garantire la sostenibilità mettendo da parte ogni tipo di conflitto di interesse.
Ormai i governi del mondo dovrebbero aver capito che certi problemi gravi ed endemici andrebbero risolti, e se questi, da cui dipendono le nostri sorti, fanno finta di non vedere dovremmo essere noi cittadini a esigere delle risposte. In un sistema in cui tutti i fattori sono interdipendenti è necessaria un’azione coordinata: la molteplicità delle parti rende necessario lo sviluppo di soluzioni coerenti con la complessità del fenomeno.