Dopo la lettera della “pattuglia di coraggiosi” scienziati che contestano l’emergenza climatica e l’autorevole parere scientifico di Umberto Smaila, lo scorso 21 ottobre la crociata contro Greta Thunberg di Libero si è arricchita con la stoccata di Piero Angela. Il titolo dell’articolo è in linea con l’imparzialità a cui ci ha abituato il quotidiano di Vittorio Feltri: Greta Thunberg, Piero Angela la ridimensiona: “Non ha inventato niente. Sapete qual è il vero problema? Il vero problema è proprio quello che denunciano Greta Thunberg, gli attivisti di Fridays for Future e il 99% della comunità scientifica del Pianeta. Compreso Piero Angela, che da decenni ne è il portavoce. Nell’intervista che il divulgatore scientifico ha rilasciato al Messaggero – e riportata in parte anche da Libero, nonostante il titolo in aperta contraddizione – Angela ha dichiarato che “queste cose si sapevano anche trent’anni fa, ma nessuno le voleva ascoltare. I movimenti ecologisti sono sempre esistiti. Oggi, certo, le cose stanno peggiorando. Gli accordi di Parigi sono disattesi da Paesi che a parole dicono di rispettarli e poi non lo fanno. Oggi si vive nell’eterno presente”.
La devastazione di novembre con il 70% di Venezia allagata – e un bilancio di due morti e centinaia di milioni di euro di danni –, le strade di Matera trasformate in fiumi in piena e il Nord Italia messo in crisi dalle precipitazioni record sono solo il picco di quanto il nostro Paese affronta ormai quotidianamente. Le avvisaglie dell’emergenza climatica di questi anni sono note da decenni, ma i 60-70enni che oggi in Italia bersagliano i giovani manifestanti per il clima erano troppo impegnati a godersi il benessere illusorio ottenuto facendo esplodere il debito pubblico del Paese. Lusingati da una classe politica che si ricorda dei “nostri figli” solo nelle campagne elettorali, gli italiani hanno sempre seguito la filosofia del “dopo di noi, il diluvio”, scaricando il prezzo del loro egoismo sulle generazioni future. Se in tema economico e lavorativo il risultato è sotto gli occhi di tutti ed è difficile da negare, molti pensano però che gli effetti dell’emergenza climatica in Italia possano ancora essere ignorati o addirittura messi in dubbio. Invece il nostro Paese paga già oggi un prezzo di miliardi di euro e decine di vite umane per gli sconvolgimenti del clima. I dati raccolti dal Climate Index Risk 2020, pubblicato in occasione della Conferenza Onu sul Clima in corso a Madrid, dimostrano che l’Italia nel 2018 si è piazzata ottava nella classifica globale dei danni economici pro capite dovuti al maltempo, mentre è sesta in quella del numero di morti dovuti alle condizioni climatiche estreme nel periodo compreso tra il 1999 e il 2018.
Secondo un rapporto Coldiretti pubblicato ad agosto, negli ultimi dieci anni l’aumento delle temperature, insieme a quello esponenziale degli eventi climatici estremi, hanno causato danni al settore agricolo per 14 miliardi di euro. L’associazione degli agricoltori conferma anche che in meno di 20 anni l’Italia ha perso una pianta da frutto ogni quattro, in particolare pesche e nettarine (-38 %), uva da tavola (-35%), pere (-34 %), limoni (-27%), arance (-23%), mele (-17%), clementine e mandarini (-3%). Come sottolinea Coldiretti, non si tratta solo di un enorme danno economico e occupazionale, ma anche ambientale, vista l’importanza delle piante nel “ripulire l’aria da migliaia di chili di anidride carbonica e sostanze inquinanti come le polveri PM10. Basti pensare che la superficie italiana destinata a colture legnose (frutteti, vigneti, ecc.) è di circa 2,5 milioni di ettari, che corrispondono al 25% della superficie boschiva italiana”. La riduzione delle aree boschive e un clima sempre più tropicale hanno anche dimezzato in meno di un anno la produzione di miele nazionale, perché la maggior parte del miele prodotto è stato consumato dalle api per sopravvivere. Oltre al danno enorme per gli oltre 51mila apicoltori italiani, questo dato è un campanello di allarme per il futuro dell’intero ecosistema: le api sono responsabili dirette dell’impollinazione di 35 delle 100 specie di piante utilizzate per la produzione di cibo e una loro estinzione avrebbe conseguenze catastrofiche.
La denuncia di Coldiretti sull’emergenza agricola si sofferma anche sull’impennata dei fenomeni climatici estremi: secondo i dati forniti dall’European Severe Weather Database (Eswd), database meteorologico europeo, nel 2018 si sono verificati in Italia 1042 fenomeni come uragani, trombe d’aria, grandinate o ondate di calore. Un dato tre volte superiore rispetto a soli dieci anni fa e destinato ad aggravarsi, visto che a inizio ottobre 2019 se ne sono già rilevati 1354, di cui 760 concentrati nei soli mesi estivi. E se queste cifre già sembrano gravi, non sono nulla in confronto ad alcune proiezioni pubblicate da Science Advances che stimano un raddoppio a livello globale dei cataclismi entro il 2100. Nell’arco di meno di 80 anni nubifragi, siccità, grandinate e trombe d’aria potrebbero diventare così frequenti per l’Italia da essere la nuova normalità.
Vale lo stesso per le temperature, soprattutto nel periodo estivo. Forse i sostenitori nostrani di Donald Trump e della sua decisione di ignorare gli obiettivi fissati dagli accordi di Parigi sul clima per contenere il surriscaldamento globale non sanno che l’Italia è uno dei Paesi europei a maggior rischio anche su questo fronte. Se il luglio 2019 è stato il più caldo degli ultimi 140 anni, battendo il record del luglio 2016, superare la soglia dei 40 gradi nel periodo estivo diventerà presto la norma in gran parte delle città italiane. Già ora, 9 dei 10 mesi di luglio più caldi in assoluto si sono registrati dal 2005 al 2019. Secondo i ricercatori del progetto Future Cities del Crowther Lab entro il 2050 Milano e Torino avranno le stesse temperature che oggi si trovano nella città texana di Dallas, mentre Roma diventerà calda come Adana, in Turchia. Una prospettiva che sarà irreversibile in meno di 11 anni senza un’azione internazionale per contenere le temperature.
Mentre le città diventano fornaci, mezza Italia è a rischio desertificazione, con punte del 50% nelle regioni del Sud. Come spiega l’Associazione nazionale dei consorzi per la gestione e la tutela del territorio e della acque irrigue (Anbi), si può parlare di desertificazione “quando la sostanza organica presente nel suolo è inferiore all’1%, mentre generalmente può arrivare fino al 4% grazie al ciclo biologico dei vegetali, che necessitano di 500 chilogrammi d’acqua per produrre un chilo di sostanza organica”. Oggi, dati Cnr alla mano, questo vale per il 70% dei suoli disponibili in Sicilia, il 58% in Molise, il 57% in Puglia, il 55% in Basilicata, mentre Sardegna, Marche, Emilia-Romagna, Umbria, Abruzzo e Campania oscillano tra il 30 e il 50%.
Se colline e pianure rischiano presto di offrire paesaggi mediorientali, le cose vanno ancora peggio sulle nostre montagne. Perché si muovono a velocità doppia. Ogni grado in più di aumento delle temperatura sul livello del mare, infatti, corrisponde a due sull’arco alpino. Il risultato è che già nel gennaio del 2016 il consorzio Federfuni Italia, che riunisce circa 150 stazioni sciistiche su tutto il territorio nazionale, ha chiesto al governo di proclamare lo stato di calamità per “la difficile quanto critica situazione che moltissime località sciistiche, non solo venete ma anche di altre molte regioni d’Italia, stanno soffrendo per la perdurante mancanza di neve, elemento questo necessario quanto indispensabile per salvaguardare l’economia delle popolazioni che abitano in montagna”. Negli ultimi anni gran parte degli impianti sciistici sotto quota 2mila metri sono sopravvissuti grazie alla neve artificiale, spesso finanziata con il bilancio delle Regioni. Come fa notare il Wwf, “ogni anno sulle piste italiane vengono impiegati a questo scopo circa 95 milioni di metri cubi d’acqua e 600 gigawattora di energia, pari al fabbisogno di una città di circa 1 milione e mezzo di abitanti. I costi stimati per l’innevamento di un km di pista possono raggiungere i 45mila euro a stagione, dato puramente indicativo”. Non va meglio neanche in alta quota, come ci ha ricordato questa estate il ghiacciaio di Planpincieux del Monte Bianco che il 3 ottobre ha segnato un record “franando” di un metro verso valle in meno di un giorno.
Ricapitolando, i ghiacciai si sciolgono, le campagne si trasformano in deserti e le città saranno invivibili per periodi di tempo sempre più prolungati. Quindi non resta che rifugiarsi sulla costa. Peccato che anche quella si prepari a diventare un ricordo, almeno per come la conosciamo da secoli. Le stime più ottimistiche parlano di un aumento del livello dei mari entro i prossimi 30 anni di 20 cm, destinati a diventare 57 alla fine del secolo. Entro il 2050, potrebbero finire sott’acqua buona parte della costa di Liguria, Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Basilicata e Abruzzo. In Veneto il rischio non riguarda solo Venezia, ma anche città a decine di chilometri dall’Adriatico come Treviso e Rovigo. Se i laureati all’università della vita non si fidano delle proiezioni della comunità scientifica, possono sempre ripiegare sullo storico dell’acqua alta (+ 110 cm) a Venezia rilasciato dal Comune della città: tra il 1990 e il 2019 l’acqua ha invaso Piazza San Marco per 165 volte, 34 in più che nel periodo compreso tra il 1870 e il il 1989. Chi poi si ripara dietro al fatto che quello che è successo a Venezia a metà novembre è già accaduto in passato, farebbe bene a ricordarsi che l’acqua ha raggiunto questi livelli solo altre 5 volte in 1200 anni, ma tre si concentrano negli ultimi 20.
Se tutto questo non bastasse, vale sempre la pena sottolineare che iniziare a combattere seriamente l’emergenza climatica investendo su fonti energetiche rinnovabili e mezzi di trasporto green significherebbe anche liberare la pianura padana dal titolo di “camera gas d’Europa”, come è stata definita da diversi quotidiani. Secondo il rapporto 2018 sulla qualità dell’aria dell’Agenzia europea per l’ambiente (Aea), il Nord Italia è la regione più inquinata di tutto il continente, insieme alle aree industriali della Polonia. Questo costa ai 23 milioni di abitanti dell’area sei mesi in meno di vita in media, oltre a essere causa di 66mila morti premature l’anno per tumori e patologie respiratorie dovute a gas serra e particolati.
Mentre l’intero Paese e i suoi cittadini pagano già ora gli effetti di una crisi climatica destinata ad aggravarsi anno dopo anno, la politica è riuscita a trovare un raro accordo nel mostrarsi disinteressata, quando non apertamente ostile a chi denuncia l’emergenza. Lo scorso 18 ottobre Maurizio Gasparri di Forza Italia e Vito Comencini della Lega hanno presentato nelle sale del Senato la petizione di 91 “scienziati” dell’Associazione Scienziati e Tecnologi per la Ricerca italiana (Astri), che insiste nel sostenere che il surriscaldamento globale antropico sia “una congettura non dimostrata, dedotta solo da alcuni modelli climatici”. Che il forzista Gasparri viva in un altro secolo rispetto al Ventunesimo è cosa che ha già dimostrato in molte occasioni, ma si commenta da solo l’appoggio ai negazionisti climatici da parte di un partito come la Lega che alle urne viaggia oltre il 30% dei consensi. E poi i “Gretini” sarebbero i ragazzi del Fridays for Future.