Chiunque conosce, più o meno direttamente, quel senso di impotenza che si prova di fronte a una catastrofe sulla quale non si ha alcun controllo. La sensazione di trovarsi con le spalle al muro, vedere gli eventi scorrere inesorabili nella direzione sbagliata e non poter fare nulla per evitarlo. La consapevolezza che, a breve, la propria vita cambierà e la necessità di riorganizzare la propria quotidianità sulla base di fenomeni ingovernabili, indipendenti dalla propria volontà. Trovarsi costretti a modificare i propri progetti, ridimensionare le proprie prospettive o evitare di crearsele del tutto, per non rischiare di incorrere in una delusione all’apparenza inevitabile. Tentare in tutti i modi – senza riuscirci – di concentrarsi sul presente, finendo poi per rassegnarsi all’intrusività delle proprie preoccupazioni. È ciò che, per molte persone, sta accadendo oggi con il cambiamento climatico.
Nel 2017, l’American Psychological Association (APA) ha ufficialmente sdoganato il concetto di “eco-ansia”, definita come “una paura cronica di dominio dell’ambiente […] e un profondo senso di smarrimento e mancanza di speranza, causati dalla percepita incapacità, da parte dell’individuo, di agire sul cambiamento climatico”. Può riflettersi in nervosismo, disturbi del sonno, difficoltà a concentrarsi e pessimismo rispetto al futuro ma, in presenza di altri fattori di stress, può sfociare in attacchi di panico, disturbo da stress post traumatico, depressione e pensieri suicidi. All’origine di tutti questi sintomi si ritrova un profondo disagio psicologico legato alla crisi climatica, alla sempre più tangibile minaccia di disastri ambientali e alla conseguente impossibilità di proiettarsi nel futuro, fare programmi a lungo termine e immaginare di poter condurre una vita serena.
A soffrire di eco-ansia, oltre a chi risiede nei territori geograficamente più a rischio, sono soprattutto le persone giovani. A questo proposito, uno studio del 2021, pubblicato sul Lancet e definito dal Guardian “il più ampio studio di sempre sui giovani e l’ansia climatica”, ha coinvolto 10mila persone di età compresa fra i 16 e i 25 anni, residenti in dieci Paesi diversi: di queste, il 59% si è definito “estremamente preoccupato” per le conseguenze del cambiamento climatico sul proprio futuro; oltre il 50% ha dichiarato di provare tristezza, rabbia, impotenza e senso di colpa; mentre per il 45% delle persone intervistate l’eco-ansia influisce negativamente sulle proprie attività quotidiane, come studiare, mangiare o dormire. Per chi si trova in quella fase della vita in cui il proprio futuro è ancora tutto da scrivere alle difficoltà esperite nel presente si aggiungono, infatti, la preoccupazione per la propria salute (sulla quale l’impatto negativo dell’inquinamento si fa, ogni anno, sempre più drammatico); il timore di non potersi più permettere di vivere stabilmente nello stesso luogo (soprattutto se particolarmente esposto a incendi, alluvioni o siccità); e, più in generale, l’impossibilità di prospettare un futuro che non includa il rischio costante di incorrere in un disastro ambientale – ormai è sufficiente accendere la televisione o aprire un giornale per accorgersi che si tratta di prospettive tutt’altro che irrealistiche.
Per chi è nato negli ultimi trent’anni, la consapevolezza dei danni fisici e psicologici causati dai cambiamenti climatici si traduce spesso anche nella decisione di avere meno figli. In alcuni casi, alla base di questa scelta si ritrova un principio etico legato al desiderio di limitare al minimo la propria impronta ecologica, ovvero le emissioni di anidride carbonica legate alle attività che ogni persona esercita sul pianeta, come lavorare, mangiare, lavarsi o spostarsi, un impatto che, secondo uno studio condotto nel 2017 dall’Università di Lund, diminuirebbe di 58,6 tonnellate annue per ogni figlio in meno. Molto più comune del desiderio di contenere il proprio impatto ambientale, tuttavia, sembra essere la volontà di non condannare un altro essere umano a un disagio psicofisico ancora più debilitante di quello subito da se stessi o, peggio, al rischio di vivere in prima persona una qualche catastrofe ambientale causata dall’emergenza climatica.
In effetti, per le bambine e i bambini già nati, l’eco-ansia è già un problema. Già a fronte di eventi climatici catastrofici come inondazioni, frane o uragani – ma anche, per citare fenomeni purtroppo molto recenti, incendi o valanghe – i bambini rappresentano una delle categorie più esposte al rischio di sviluppare forme di PTSD o depressione, a causa della minor disponibilità di risorse cognitive necessarie a gestire il trauma, con il conseguente aumento della probabilità di riviverne gli effetti in futuro, l’incapacità di chiedere aiuto e, non ultimo, l’influenza del malessere dei genitori, spesso altrettanto coinvolti nella vicenda. Lo stress generato dall’eco-ansia si presenta con un’intensità più attenuata rispetto a quello provocato dai disastri naturali, ma è proprio questa sua iniziale impercettibilità a renderlo, agli occhi degli adulti, molto più difficile da riconoscere e, qualora risultasse evidente, più facilmente riconducibile a fenomeni più classicamente infantili come, nel caso dei disturbi del sonno, ai ben più comuni “incubi”.
Sarebbe assurdo pensare che le notizie del telegiornale, i video diffusi online o i discorsi degli adulti non raggiungano le orecchie dei più piccoli e, soprattutto, che questi si limitino a ignorare i messaggi che li circondano, senza introiettare la preoccupazione e l’ansia che li accompagnano. Per questo è essenziale, secondo la psichiatra e presidente della commissione per i cambiamenti climatici e la salute mentale dell’APA Elizabeth Haase, validare gli eventuali sentimenti di angoscia espressi dai bambini, evitando di patologizzarli – l’eco-ansia non implica necessariamente la presenza di una malattia mentale – senza però fingere che si tratti di paure infondate. Qualunque sentimento, anche se basato su percezioni esclusivamente soggettive, produce effetti reali sul vissuto personale e merita, quindi, di ricevere attenzione; a differenza dell’ansia patologica, tuttavia, l’ansia climatica si fonda su una minaccia reale, tangibile e oggettivamente drammatica, le cui conseguenze non riguardano solo chi ne soffre, ma qualsiasi essere umano sul pianeta.
Talvolta, il malessere non riguarda solo la paura delle conseguenze della crisi climatica nel futuro, ma anche i suoi effetti nel presente. Si parla, in questo caso, di solastalgia, un concetto sviluppato nel 2003 dal filosofo australiano Glenn Albrecht combinando la parola latina solacium (sollievo, conforto) con il suffisso greco -algia (mancanza). Riprendendo Albrecht, la solastalgia “È una sorta di nostalgia di casa, o di malinconia, che provi nonostante tu sia ancora a casa”, una sensazione di perdita simile al lutto che sopraggiunge nel momento in cui il proprio ambiente cambia repentinamente, compromettendo il proprio senso di appartenenza al luogo in cui si vive o in cui si è cresciuti. L’antropizzazione dei territori o fenomeni come l’innalzamento del livello del mare, l’aumento delle temperature o l’aridificazione – soprattutto se, come in questo periodo, si verificano in modo improvviso e violento – possono alterare, fino a stravolgere, i paesaggi che da sempre caratterizzano la quotidianità di migliaia di persone, alimentando in esse un profondo senso di desolazione e la sensazione di perdere il rapporto con un luogo importante per loro. All’angoscia del domani si aggiunge, così, la malinconia legata alla trasformazione di un ambiente che per anni ha rappresentato “casa” ma che, a causa dei cambiamenti climatici, pare ormai irriconoscibile.
L’unica soluzione definitiva all’ansia climatica o alla solastalgia sarebbe la possibilità di svegliarsi un giorno e scoprire che le temperature hanno smesso di crescere, la riforestazione dei territori occupa i primi posti delle agende dei governi di tutto il mondo e i ghiacciai stanno riacquistando il loro volume di cent’anni fa; è evidente, tuttavia, che almeno per il momento si tratta di un sogno destinato a rimanere tale. Ciò non significa, però, che limitarsi a prendere atto del proprio malessere rappresenti l’unica possibilità. Adottare comportamenti pro-ambientali, come prestare attenzione alle proprie scelte alimentari, preferire i mezzi pubblici o ridurre gli acquisti di fast fashion contribuirà da questo punto di vista ad alleviare il proprio senso di colpa legato alla consapevolezza del proprio impatto sull’ambiente, aumentando, nel frattempo, il proprio senso di auto-efficacia. Impegnarsi a livello sociale, sostenendo chi si occupa di portare le istanze ambientali sul piano politico e scegliendo di votare chi le accoglie, è inoltre essenziale non solo per contrastare il proprio disagio, ma anche per favorire un reale cambiamento. Ancora, aumentare il tempo trascorso a contatto con la natura non solo accresce il nostro senso di connessione con l’ambiente, ma è utile a ridurre i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress. Infine, evitare di immergersi in un eccesso di informazioni catastrofiche nel momento in cui ci si rende conto del loro impatto negativo sul proprio benessere non è sintomo di superficialità, ma un atto di cura nei confronti della propria salute mentale.
Ci sentiamo vulnerabili, perché lo siamo e le immagini dell’Universo recentemente diffuse dalla Nasa ce lo ricordano ancora una volta. Eppure, nonostante la dimensione del nostro Pianeta appaia insignificante, se paragonata a quella delle galassie che lo circondano, la Terra è casa nostra, oggi e nel futuro. È naturale, oltre che sano, essere preoccupati per le sorti del territorio che ci ospita: il passo successivo è trasformare la nostra angoscia in azioni concrete, che forse, un giorno, potrebbero addirittura fare la differenza.