Il 25 luglio scorso, il mercantile giapponese Wakashio, battente bandiera panamense, si è arenato sulla barriera corallina delle Mauritius, nell’Oceano Indiano, con il suo carico di 200 tonnellate di gasolio e 3800 di olio combustibile. La nave, lunga 300 metri, è stata costruita nel 2007 e viaggiava tra il Brasile e la Cina quando, per cause ancora sconosciute, si è arenata a circa un miglio dalla costa di Pointe d’Esny, in una zona poco distante dalla riserva marina di Blue Bay. L’area è nota non solo per la sua elevata biodiversità ma anche per la presenza di un corallo di circa 5 metri di diametro e dell’età stimata di mille anni. L’equipaggio della Wakashio è stato subito tratto in salvo e la nave, a causa del mare mosso, è stata lasciata per quasi due settimane sul luogo dell’incidente. Pochi giorni dopo, anche a causa delle pessime condizioni del mare, lo scafo ha iniziato a fratturarsi e alcune immagini satellitari hanno mostrato la fuoriuscita di una sostanza oleosa.
“È la prima volta che ci troviamo a fronteggiare una catastrofe di queste proporzioni, e non siamo sufficientemente equipaggiati per affrontarla”, ha detto Sudheer Maudhoo, il ministro della Pesca di Mauritius. Nonostante gli sforzi, compiuti sia dalle autorità che da molti volontari, di arginare la perdita di carburante con filtri e barriere artigianali costruiti con capelli, collant e foglie di canna da zucchero, quasi mille tonnellate di petrolio si sono riversate in mare, causando un disastro ecologico senza precedenti in una Nazione insulare che vive di turismo proprio grazie alle acque trasparenti che la circondano e agli organismi che popolano la barriera corallina.
Il vicepresidente della Mitsui OSK Lines, responsabile dell’attività della nave, si è scusato pubblicamente in una conferenza stampa a Tokyo e ha detto che la compagnia farà il possibile per risolvere il problema insieme all’azienda giapponese proprietaria del mercantile, la Nagashiki Shipping. Sia il governo giapponese che quello francese hanno inviato personale specializzato per far fronte all’emergenza.
Quasi tutto il carburante rimasto nella nave è stato rimosso proprio da un’imbarcazione giapponese, ma le tonnellate già fuoriuscite hanno danneggiato in modo grave la barriera corallina e la costa antistante. “Oggi possiamo confermare che, sulla nave, è rimasta solo una minima quantità di carburante. Non ci saranno ulteriori disastri”, ha dichiarato Jean Hugue Gardenne, referente della Mauritian Wildlife Foundation. “Tuttavia, il danno che si è già verificato è ingente. C’è molto lavoro che deve essere fatto urgentemente, altrimenti il danno alla barriera corallina potrebbe essere irreversibile”.
Il 16 agosto scorso, infine, la nave si è spezzata in due parti, rendendo ancora più difficili le operazioni di rimozione e di contenimento del carburante rimasto al suo interno, costringendo il governo delle Mauritius a dichiarare lo stato di emergenza. Proprio sui tempi di azione delle autorità non sono mancate le polemiche: molti dei residenti, infatti, si sono lamentati della lentezza con cui il governo ha preso provvedimenti e dei tentativi – spesso inutili – di allontanare i volontari dal luogo dell’incidente. Inoltre, restano poco chiare anche le circostanze del disastro: alcuni dati satellitari, infatti, mostrano che la nave era da giorni in rotta di collisione con il reef anche se, secondo la compagnia, doveva rimanere ad almeno dieci miglia dall’isola di Mauritius. In quel lasso di tempo non solo non è stato fatto nulla per correggere la rotta, ma la velocità non è stata rallentata neanche al momento dell’impatto. Sembra anche che, quando la nave è entrata in collisione con la barriera corallina, a bordo ci fosse una festa di compleanno e la cabina di comando fosse deserta. Le circostanze sono ancora tutte da chiarire e, per il momento, il comandante della Wakashio è stato arrestato.
Secondo Happy Khambule, responsabile per il clima e l’energia di Greenpeace, migliaia di specie sono in pericolo. “Ancora una volta vediamo quali sono i rischi legati a un’economia basata sul petrolio”, ha detto, “non solo peggiora la crisi climatica, ma distrugge gli oceani e la biodiversità, e minaccia le fonti di sussistenza di chi vive vicino alle lagune coralline”. L’isola di Mauritius, a circa 1200 miglia dalla costa est dell’Africa, è abitata da 1,3 milioni di persone ed è nota per le sue foreste tropicali, la barriera corallina e le spiagge bianche che l’hanno resa una meta privilegiata per i sub e per i turisti. Nel 2019, secondo i dati del ministero del Turismo, quasi un milione e mezzo di persone hanno visitato l’isola principale e il resto dell’arcipelago. La nazione, in cui abitano molte specie rare o a rischio di estinzione, quest’anno ha già subito un grave contraccolpo economico dovuto alla pandemia, che ha drasticamente ridotto la presenza dei turisti.
Quello della Wakashio non è il primo grave danno ecologico subito dalla barriera corallina delle Mauritius. L’arcipelago, infatti, è molto vulnerabile all’impatto dell’emergenza climatica, tanto che il World Risk Report già nel 2018 lo metteva al sedicesimo posto tra le aree del mondo più a rischio. A causa dell’uso massiccio dei combustibili fossili, infatti, e del loro impatto sulla crisi climatica, le barriere coralline dell’arcipelago erano già state minacciate dallo sbiancamento dei coralli: quando questi animali sono stressati dall’aumento della temperatura o da un cambiamento dell’acidità dell’acqua, infatti, espellono l’alga simbionte che vive al loro interno, diventando completamente bianchi. Questo non li uccide subito, ma li rende più sensibili allo stress, aumentandone la mortalità nel lungo periodo. La perdita delle barriere coralline non danneggia solo l’ecosistema, ma anche le popolazioni che vivono sulle coste. Si calcola che, nel mondo, oltre un milione di persone dipenda proprio da questi ambienti per la pesca e per l’approvvigionamento alimentare. Per non parlare poi del turismo: alle Mauritius l’industria turistica rappresenta il 36% del Pil nazionale, e impiega circa il 20% della popolazione.
In più le barriere coralline sono fondamentali per proteggere la linea di costa da tempeste, cicloni ed eventi meteorologici estremi, sempre più frequenti da quando, sempre a causa della crisi climatica, si è verificato un innalzamento del mare e un aumento degli eventi estremi: tra il 2013 e il 2019 diversi cicloni hanno colpito le isole dell’arcipelago, provocando gravi danni alle infrastrutture e alla popolazione. Negli ultimi anni, inoltre, alcune spiagge delle Mauritius si sono ridotte di oltre 20 metri a causa dell’erosione dovuta proprio all’aumento del livello del mare. Secondo l’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change dell’Onu, in assenza di misure radicali contro il riscaldamento globale, le barriere coralline spariranno nel giro di 50 anni. Se ora non viene fatto nulla per mantenere l’aumento della temperatura sotto il livello fissato dagli accordi di Parigi, qualunque misura successiva sarà comunque inefficace. Tra il 1998 e il 2010, i coralli nelle acque che circondano le Mauritius sono già diminuiti di quasi il 70%, tanto che, lo scorso anno, il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite ha stanziato 10 milioni di dollari per un progetto di recupero dei coralli, piano che potrebbe essere vanificato proprio dal disastro della Wakashio.
Lo sversamento di olio in mare, infatti, ha effetti a breve e a lungo termine sulla vita marina: oli pesanti come quelli contenuti sulla Wakashio sono meno tossici nel breve periodo, ma rimangono nell’ambiente più a lungo, causando la distruzione dell’habitat e interferendo con le funzioni fisiologiche degli organismi, limitandone la crescita e lo sviluppo, oltre a ridurre l’aspettativa di vita.
Secondo gli scienziati, l’effettivo impatto della perdita d’olio non è ancora del tutto quantificabile, ma il danno potrebbe pesare sull’economia delle Mauritius per decenni. Anche Greenpeace condivide questa previsione: “Sappiamo che questo disastro avrà conseguenze significative sulla biodiversità delle Mauritius”, ha affermato Tal Harris, responsabile dell’ufficio comunicazione dell’organizzazione ambientalista. “È necessario che venga fatto quanto prima un monitoraggio del danno e una valutazione di cosa può essere recuperato e in quanto tempo, e quanto petrolio resterà nell’ambiente nel lungo periodo”. Solo così potremo evitare di perdere completamente un ecosistema che è fondamentale tanto per la sopravvivenza di molte specie animali e vegetali che per il sostentamento di intere comunità, oltre che per l’equilibrio sempre più fragile dell’intero Pianeta.