Nell’estate del 2017 Roma si è trovata ad affrontare un’emergenza idrica, scongiurata solo dai temporali che l’hanno allagata a inizio settembre. Gli eventi climatici estremi – come le onde di calore prolungate ed estremamente siccitose sempre più frequenti anche alle nostre latitudini – non fanno che peggiorare la situazione di un sistema idrico con gravi problemi strutturali. Cattiva gestione delle risorse, impianti obsoleti e spreco diffuso sono le cause della scarsità di acqua nel nostro Paese. Se alcune città italiane d’estate devono fare i conti con l’erogazione ridotta del servizio, per una fetta consistente della popolazione mondiale la carenza d’acqua non è più un’emergenza, ma una realtà quasi quotidiana.
L’accesso all’acqua potabile e pulita è un diritto umano riconosciuto e tutelato dalle leggi internazionali, eppure il World Water Development Report dell’Onu ha rilevato che poco meno di due miliardi di persone vive in aree in cui la scarsità d’acqua è un rischio classificato come “elevato” (erano 240 milioni di persone un secolo fa). La cifra raddoppia se si contano tutti coloro che vivono questa condizione almeno un mese all’anno, mentre in 22 Paesi il rischio che questo accada supera il 70%. L’acqua non manca sul “Pianeta Blu” – che ne è costituito per il 70% – ma quella disponibile per l’alimentazione e l’idratazione umana e per l’agricoltura non ne è che una minima parte, dato che il 97,5% di tutta l’acqua esistente è salata e un altro 1,75 % si trova sotto forma di ghiaccio o permafrost.
Il ciclo dell’acqua che si studia a scuola sarebbe di per sé un sistema perfetto: l’acqua che evapora dai bacini idrici, dai laghi, dalle piscine o dalle cisterne raggiunge l’atmosfera e torna a terra sotto forma di precipitazioni che permettono all’acqua piovana di penetrare il terreno e rifornire le falde acquifere. Purtroppo questo sistema non basta a garantire sicurezza alla popolazione della Terra, che deve fare fronte all’aumento di richiesta dovuto a vari fattori, tra cui la sua crescita e il cambiamento climatico. Se pensiamo che la prospettiva è di arrivare a quota 9,7 miliardi di persone entro il 2050, e che il bisogno pro capite è di 50 litri giornalieri, che garantiscono corretta idratazione e igiene, abbiamo un quadro dell’emergenza che ci aspetta in futuro.
Del cambiamento climatico è difficile quantificare l’impatto sulla disponibilità d’acqua, ma stando agli studi un aumento di 2 gradi della temperatura rispetto ai livelli preindustriali esporrebbe un ulteriore 8% della popolazione mondiale a una nuova o più grave carenza idrica rispetto al 2000. Già oggi diverse regioni del mondo sono allo stremo a causa del clima, che rende le regioni umide sempre più umide e quelle aride sempre più aride. Nella regione del Sahel in Mauritania, ad esempio, negli ultimi anni si sono verificati ripetuti scontri tra pastori e agricoltori a causa della sempre più dura siccità. I pastori per salvare i propri animali sono costretti a spostarsi alla ricerca di acqua e pascoli, attraversando i campi degli agricoltori e danneggiandoli. La creazione di un corridoio sicuro di 2500 km per spostare le mandrie, grazie al progetto Braced per l’adattamento ai cambiamenti climatici, ha migliorato la situazione, mentre in Sudan solo l’intervento della Fao ha scongiurato il disastro umanitario, portando aiuti alimentari e veterinari ai 30mila capi di bestiame di 5mila famiglie. Procedure di emergenza come queste non potranno continuare a essere impiegate in situazioni che sono sempre più spesso la norma. Nel nordest del Brasile l’anno scorso il periodo di siccità – che normalmente dura 2 o 3 anni ogni 10 – è arrivato al settimo anno di fila prima di essere interrotto dalle precipitazioni. La situazione aveva raggiunto un livello di gravità tale da costringere alcune città a essere rifornite quotidianamente con le autobotti, a causa della durata del periodo arido che ha prosciugato tutte le riserve idriche della regione.
In altri casi sono le decisioni dei governi a far pagare all’ecosistema i danni della scarsità d’acqua. È il caso del lago d’Aral, che fino agli anni Cinquanta era tra i più grandi al mondo e fonte di sostentamento per la popolazione delle sue sponde in Uzbekistan e in Kazakistan, grazie alla pesca e all’industria turistica. La sua scomparsa in tempo record è dovuta alla decisione del governo sovietico di incrementare la produzione di cotone e riso nella regione, deviando i due affluenti dell’Aral. Negli anni Novanta il lago si era ridotto del 75%, fino a diventare una distesa di sabbia salata impregnata di fertilizzanti: oltre al crollo dell’economia legata alla pesca e al turismo, fu registrato anche un aumento vertiginoso dei casi di cancro alle vie respiratorie e della mortalità infantile, perché il vento disperdeva le sabbie nocive. La costruzione di una diga ha riportato in vita un “Piccolo Aral” sul lato kazako, mentre in Uzbekistan i fondi per riparare il danno più scarsi e un’economia ancora basata sulla coltivazione del cotone continuano a prosciugare l’acqua del lago.
Tra le aree più critiche per la scarsità di acqua ci sono Medio Oriente e Nord Africa, non solo per la siccità della regione, ma anche a causa dei conflitti che danneggiano la rete idrica e rendono più difficile ai cittadini accedervi: non a caso i Paesi che recentemente sono peggiorati di più in questo senso sono Siria e Yemen. Nonostante il supporto della Fao ai governi di queste regioni per riorganizzare il sistema idrico e di irrigazione, anni di guerra hanno causato perdite di acqua che raggiungono anche il 40% del totale in alcuni villaggi della Cisgiordania, con danni da migliaia di dollari per ogni singolo agricoltore.
Come accennato, lo spreco è un problema cronico non solo per aree di conflitto e in difficoltà economica come la Palestina , ma anche in Italia. Se la diminuzione della dispersione idrica della rete di Roma fa notizia, sono le cifre dello spreco ancora in corso a dover scandalizzare: c’è poco da festeggiare se in un Paese come il nostro, che deve fronteggiare il cambiamento climatico particolarmente duro delle regioni mediterranee, lo spreco idrico è passato nel 2018 dal 45 al 38%, come nel caso della rete Acea della capitale, grazie a centinaia di interventi di riparazione e bonifica.
Asit Biswas, docente della Lee Kuan Yew School of Public Policy di Singapore, sostiene che “questioni come la mancanza di soldi o la scarsità della risorsa sono tutte scuse. Il problema è ovunque la cattiva gestione”. In Italia più della metà delle infrastrutture del sistema idrico ha oltre 30 anni e avrebbe bisogno di più attenzioni; la manutenzione richiede circa 80 euro all’anno per singolo cittadino, ossia più del doppio degli attuali investimenti, già aumentati rispetto al disinteresse degli anni passati. Il risultato è che tra giunture difettose, danni del tempo non riparati e consumi non autorizzati, in media in Italia gli sprechi ammontano al 47,9% dell’acqua prelevata dalla fonte, per una perdita di circa 3,45 miliardi di metri cubi di acqua e 4 miliardi di euro l’anno, più di quelli che servirebbero per rinnovare l’intera rete. Sul nostro territorio, oltre alla manutenzione dei sistemi idrici inefficienti, alcune soluzioni possono essere lo studio di mezzi per riciclare e riutilizzare le acque piovane e grigie, l’ottimizzazione dell’acqua dei sanitari (in Italia lo sciacquone usa spesso acqua potabile) e l’impiego delle smart technologies per registrare eventuali anomalie di consumo per intervenire in modo mirato, obiettivo del progetto Green Smart Technology for Water dell’Università di Bologna e di Ferrara.
Sprechi delle reti urbane a parte, ad assorbire la maggiore quantità di acqua al mondo è il settore agricolo, che oggi usa circa il 70% del prelievo globale d’acqua, principalmente per l’irrigazione. È su questo settore che serve fare gli investimenti più urgenti prima che il mondo intero resti a secco, come ha già fatto chi i vi è costretto dal clima (e può permetterselo economicamente), come Israele, dove lo sviluppo di sistemi sofisticati per ottimizzare le risorse, dalla desalinizzazione dell’acqua marina all’irrigazione goccia a goccia, ha messo le basi di un comparto agricolo all’avanguardia.
Anche se non sono i consumi individuali a incidere sul bilancio idrico mondiale, dobbiamo comunque ricordare che le nostre scelte quotidiane – specie se si tratta di abitudini e non di strappi alla regola – hanno un peso sulle risorse di tutti: basti ricordare che il comparto dell’abbigliamento usa circa 2700 litri d’acqua per produrre una singola t-shirt e il panino del fast food ha un impatto molto simile. Detto questo, non possiamo illuderci che la salvezza delle risorse idriche del Pianeta sia garantita da atti virtuosi come chiudere il rubinetto lavandosi i denti. Come singoli dobbiamo impegnarci anche per chiedere una rete idrica che non faccia letteralmente acqua da tutte le parti, chiedendo alla politica di agire prima che sia troppo tardi.