Tra jet privati, greenwashing e lobby del petrolio, Cop27 è solo bla bla bla mentre la terra brucia - THE VISION
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Questa settimana è in corso a Sharm el-Sheik la ventisettesima Conferenza delle Parti sul clima delle Nazioni Unite. Governi, imprese ed organizzazioni non governative si incontrano per fare il punto sulla crisi ecologica e trovare accordi su mitigazione e adattamento. Tuttavia, nonostante la morbosa attenzione ricevuta dai media, le Cop diventano sempre più simili a passerelle per i leader internazionali e trampolini di lancio per progetti di greenwashing. Per dirla con le parole di Greta Thunberg, si tratta di un “bla bla bla” che mira a delegittimare le istanze più radicali dei movimenti ambientalisti attraverso la vuota promessa di riuscire a salvare l’umanità senza dover mettere in discussione i paradigmi che l’hanno portata fin qui. 

Abdul Fattah Al Sisi

Il legame tra Cop27 e greenwashing è reso palese dall’ambientazione nell’Egitto di Al-Sisi, dove si sono investite grandi energie e risorse per astrarre la giustizia climatica da quella sociale. Non solo si tratta di un Paese in cui i diritti civili e sociali riconosciuti dalla comunità internazionale vengono sistematicamente violati, ma anche di uno dei luoghi più difficili al mondo per l’attivismo ambientale. A partire dal 2014, infatti, il regime ha portato avanti una legislazione che restringe la possibilità per i movimenti ambientalisti di accedere a fondi e donazioni provenienti dall’estero. Inoltre, dal 2019 il procedimento per ottenere lo status di organizzazioni non governative è stato complicato al punto che nella pratica è impossibile ottenere l’approvazione del regime. A tutto ciò si unisce l’opera di censura che ha portato alla chiusura di migliaia di siti web, alla scomparsa delle testate indipendenti e alla persecuzione di diversi giornalisti. In vista della Conferenza alcuni attivisti hanno testimoniato ritardi nell’ottenimento dei visti per entrare nel Paese e difficoltà a essere accettati dagli hotel per via di “regole di sicurezza”.

Il giornalista Mahmoud Abu Zied

I leader mondiali sfilano in questi giorni a Sharm el-Sheik per stringere la mano certamente non santa del dittatore egiziano. Persino “il Presidente” Meloni, che ha fatto della difesa degli italiani la sua principale bandiera politica, sorride a favore di telecamera dimenticandosi dell’uccisione di Giulio Regeni e della lunga detenzione di Patrick Zaki. Il greenwashing dello stato di polizia a cui lavora Al-Sisi serve a far apparire l’Egitto come una accettabile fonte di gas per le democrazie occidentali alla disperata ricerca di soluzioni rapide alla crisi energetica. Nel video trailer di Cop27 Sharm el-Sheik appare come una città verde e progressista, con tanto di attori che impersonano gli “ambientalisti” soddisfatti e che somigliano, paradossalmente, proprio ad alcuni dei più illustri prigionieri politici egiziani. I loro volti ricordano quello di Abd El-Fattah, uno dei nomi più noti della primavera araba. El-Fattah, che si trova in carcere per il suo attivismo pro-democratico ed è in sciopero della fame dallo scorso aprile, aveva recentemente parlato del collasso ecologico nella corrispondenza che mantiene con la sua famiglia. Misteriosamente il testo non è mai stato ricevuto, nonostante nella successiva lettera El-Fattah abbia specificato di aver fatto attenzione a non nominare né il governo né l’imminente conferenza. 

Alaa Abd el-Fattah

Dentro l’Egitto di Al-Sisi si censurano lettere e torturano prigionieri, ma da fuori il Paese si presenta sotto la luce verde concessa dalle Nazioni Unite come uno spazio democratico e all’avanguardia. Cop27 è la prima a dedicare un intero padiglione ai giovani affinché questi possano “dire la verità al potere e partecipare ai processi decisionali”, ma questo non è sufficiente per dimenticare che quando si varca la soglia dei resort “green” sul Mar Rosso e delle conference room senza plastica c’è la dittatura nata dal tradimento dei giovani egiziani. Gli adolescenti che nel 2011 erano in piazza Tahrir a chiedere la fine del regime di Mubarak e l’inizio di un governo democratico sono oggi prigionieri politici adulti senza tutela. La voce delle nuove generazioni resta tollerabile, dunque, solo finché si muove nei ristretti spazi a essa concessi, come quello di un padiglione con regole e programmi definiti, ma non quando preme per cambiamenti profondi seguendo principi e strategie d’azione altrettanto radicali. In quest’ultimo caso i giovani devono scontrarsi con l’impossibilità di ottenere il visto o con il rischio di essere arrestati per un post sui social media. La generazione al potere detta il limite tra le richieste legittime e accettabili e quelle etichettabili come “terrorismo”. Si può fare la raccolta differenziata e promuovere l’uso della bicicletta, ma non si può chiedere la giustizia climatica se contemporaneamente si vuole anche l’uguaglianza sociale con il presupposto della libera espressione. 

Hosni Mubarak

Il coinvolgimento dei giovani non è meno problematico di quello dei soggetti privati. In un mondo in cui il 70% delle emissioni globali è responsabilità di 100 aziende e spesso multinazionali e banche hanno disponibilità di investimento più ampie rispetto agli stessi stati, il coinvolgimento dei grandi attori del settore privato è inevitabile e necessario. Tuttavia, il privato dovrebbe essere parte delle discussioni sempre in un’ottica di subordinazione alla volontà della comunità internazionale, con l’obiettivo ultimo di raccogliere tutte le energie disponibili per contrastare le conseguenze dei cambiamenti climatici. Al contrario, le aziende partecipano a Cop27 con obiettivi di marketing o lobbismo. Al primo caso appartiene senza dubbio il controverso coinvolgimento di Coca-Cola, scelta come main sponsor nonostante il suo primato nella produzione di plastica monouso. Per Coca-Cola Cop27 è il riflettore per pubblicizzare progetti “green” come la neutralità carbonica entro il 2040 e le bottigliette in plastica riciclata, anche se ancora oggi è responsabile di oltre 14 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno.

In realtà, è ormai da diversi anni che le Nazioni Unite offrono spazi per premiare progetti virtuosi che odorano di greenwashing. Basti pensare che tra i vincitori del UN Global Climate Action Award  ci sono state aziende come Apple, i cui sforzi verso una “green technology” convivono con violazioni di diritti umani e sfruttamento insostenibile di risorse naturali. Altra questione nell’ambito del rapporto pubblico-privato è quella della finanza climatica per penalizzare un’economia estrattivista a favore di progetti più sostenibili. Questi massicci flussi di denaro dovrebbero dirigersi verso i Paesi in via sviluppo per sostenere strategie di crescita che non siano la replica dell’ascesa “climafreghista” dell’occidente. Tuttavia, rimane fondamentale vigilare affinché la finanza possa essere vero strumento di emancipazione e non una forma di neocolonialismo green. In questo contesto, poco convincente è la presenza di oltre 636 lobbisti dell’industria fossile distribuiti tra le varie delegazioni. Sono aumentati del 25% rispetto allo scorso anno e, se sommati, rappresentano la più grande delegazione della conferenza. La Russia conta un lobbista fossile ogni 5 delegati e nella rappresentanza degli Emirati Arabi, dove si sposterà la Cop il prossimo anno, le personalità legate al petrolio sono ben 70. Questa ingombrante presenza risalta ancor di più alla luce degli avvertimenti dell’IEA e del recente report dell’ONU in cui è chiaramente dichiarato che anche il solo mantenimento dell’infrastruttura fossile già esistente comprometterebbe l’obiettivo del +1.5°.  Aprire le porte di una conferenza sul clima a chi vuole continuare a estrarre combustibili fossili è come invitare le aziende del tabacco a scrivere leggi sulla prevenzione del cancro.

Mentre una parte dei giornali la chiama “la Cop dell’Africa” forse sarebbe meglio prendere atto che questa è la Cop del fallimento di tutte le Cop. Le Conferenze celebrano quest’anno trent’anni, durante i quali le emissioni di CO2 hanno continuato a crescere. Questa edizione rischia però di essere la più fallimentare di tutte, per via del pericolo che i negoziati si chiudano con una marcia indietro sull’obiettivo di contenere il surriscaldamento entro la soglia di +1.5°C alla fine del secolo. Il traguardo era stato precedentemente stabilito da un’altra Cop nel 2015, ma ora è rimesso in discussione per via dei forti dubbi sulla concreta possibilità di raggiungerlo. Secondo gli analisti è infatti probabile che il documento finale di Sharm el-Sheik parlerà di mantenere la temperatura globale “ben al di sotto di 2°C”, diluendo i precedenti accordi presi a Parigi.

Alok Sharma, presidente uscente della Conferenza, ha ricordato che 1.5°C è la soglia che “fa la differenza tra un’esistenza tollerabile e un futuro impossibile”. Preservare la possibilità di “un’esistenza tollerabile” per le future generazioni non dovrebbe certo essere un obiettivo particolarmente difficile da raggiungere, neanche in un contesto come la Cop in cui ogni decisione richiede un consenso unanime. Tuttavia, la comunità internazionale è in disaccordo su quasi tutto, motivo per il quale è sempre più necessario trovare strade alternative. Dalla letteratura giuridica viene la proposta di negoziare in contesti più ristretti, come i G20 o  trattati internazionali tra poche parti. Non si può però ignorare che proprio nell’ambito dello scorso G20 è stato approvato il fondo loss and damagee che i 100 miliardi da destinare alle nazioni più colpite dal collasso climatico sono ancora oggi lettera morta. La verità è che tutte le varie tipologie di vertici internazionali condividono il comune problema di escludere la società civile o di relegarla al ruolo di semplice relatrice priva di potere decisionale. Specialmente quando si guarda al sud globale, la rilevanza di attori politici che per l’occidente sono “non convenzionali” – dai leader religiosi ai capi tribù – non può essere ignorata

Valutare quanto siano efficaci le Cop rispetto ad altri strumenti di politica internazionale è superfluo se non si pensa anche, più in generale, a  quanto possa avere successo il solo approccio top-down alla crisi climatica. Mentre le Conferenze dell’ONU rimangono un’occasione per richiamare i potenti del pianeta a confrontarsi con il tema ambientale, sono prive della forza dei movimenti bottom-up della società civile. Cop27 è un fallimento perché non riesce a farsi portavoce di un’alternativa radicale al mondo della crisi ecologica. Una trasformazione così profonda non può essere prodotta rimanendo ciechi davanti alla necessità di vivere un domani che sia veramente migliore dell’oggi. Si tratta di un’urgenza che non può nascere se non ci si espone prima di tutto all’ingiustizia. In un articolo che mappa le comunità resistenti d’Italia, l’attivista Diletta Bellotti scrive che “poche cose sono violente come sentire un’urgenza e non percepirne neanche il seme negli occhi dell’altro”. La sua riflessione richiama quella del giornalista Christian Parenti che in Tropic of Chaos parla di come la guerra climatica sarà più probabile laddove il benessere confina con la miseria, perché non c’è provocazione più forte di vedere una vita migliore a pochi centimetri dal proprio naso. Tutto questo ci ricorda che qualsiasi atto di insurrezione non è altro che un atto di disperazione ma è, allo stesso tempo, anche l’unica fonte di speranza. Proteste in piazza, disobbedienza civile, azioni giudiziarie, comunità ecologiche, informazione, sensibilizzazione e cambiamento degli stili di vita sono le armi più grandi per esprimere le necessità del presente ed elaborare le soluzioni del futuro. Istituzioni vecchie e sempre più instabili, spesso scollegate dal piano della realtà, hanno dunque bisogno di appoggiarsi e farsi accompagnare da movimenti e comunità dinamiche e operose.

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