Tra le eredità della crisi economica iniziata nel 2008 si trova una nuova tendenza all’acquisto più consapevole e più ecologico. La moda del vintage, ormai consolidata da qualche anno, ne è stata un primo segnale: secondo i dati dell’Osservatorio 2017 Second Hand Economy di Doxa, il giro d’affari italiano per la compravendita di oggetti di seconda mano – che ha nei millennial la fascia di popolazione più attiva – ammontava nel 2017 a circa 21 miliardi di euro, grazie alla crescita costante per la diffusione del web. Alle origini di questo boom non c’è solo l’aspetto economico: dalla ricerca emerge che, tra le principali ragioni di questa compravendita, per oltre il 60% degli intervistati contano la tutela dell’ambiente e la lotta allo spreco, senza dimenticare (35%) la possibilità di trovare pezzi unici e non più in commercio, sottraendosi così agli stilemi delle mode passeggere. Che il second hand stia vivendo un momento florido è chiaro, ma lo è meno il fatto che sia visto come un modo per sfuggire alla pubblicità martellante e per limitare le ripercussioni del consumismo senza freni. Parlare della fine dell’epoca dell’usa e getta sarebbe eccessivo e ottimistico. Le file davanti ai negozi in occasione del Black Friday si formeranno ancora per molti anni, ma si sta diffondendo la consapevolezza che è possibile sottrarsi a tutto questo, acquistando con maggiore coscienza etica e ambientale, o non facendolo affatto. La possibilità di non comprare qualcosa è la prospettiva che sta emergendo negli ultimi anni, la più radicale e potenzialmente rivoluzionaria.
Se in una parte del mondo – soprattutto nei Paesi dove il boom economico è più recente, come la Cina – il consumismo ha ancora un immenso appeal, da noi iniziano a crescere nicchie sempre più numerose di persone che rifiutano lo stile di vita improntato allo spreco e alla dipendenza materiale e psicologica dagli acquisti e dalla novità. La passione per il decluttering lanciata da Marie Kondo non è che un sintomo del malessere che spesso sfocia in un cambiamento nello stile di vita, che non si limita al settore dell’abbigliamento, dove sono sempre più diffusi vintage e swap party. Si compra meno, infatti, anche nei settori un tempo considerati quelli degli investimenti a lungo termine, simbolo della conquistata indipendenza dell’età adulta: l’immobiliare e l’automobile. Stipendi bassi, precarietà e concorsi – tentati in tutto il Paese e che costringono spesso a trasferirsi da una città a un’altra – hanno tenuto lontano i millennial dalla casa di proprietà. Ma la novità è che i vantaggi dell’appartamento in affitto – dalla scelta del quartiere o della città più interessante dove abitare, all’evitare l’impegno di scelte a lungo termine, alla libertà dalle incombenze della manutenzione – vengono riscoperti anche dalle altre fasce di età, specialmente quella che più di tutte può permettersi di vivere come e dove vuole. Per il New York Times negli Stati Uniti si è infatti registrato un boom degli over 60 abbienti che prediligono l’affitto, che non è più percepito come la scelta obbligata di chi non può permettersi di comprare una casa; in Germania, dove l’economia è tra le più stabili d’Europa, grazie all’equilibrio tra intervento statale, investimenti privati e per effetto della legislazione in materia (ad esempio non ci sono detrazioni sul mutuo), il numero di affittuari è tra i più alti del continente.
Anche il mercato dell’auto deve adeguarsi alla nuova tendenza, che oltre al car sharing sta favorendo la diffusione del noleggio a lungo termine (soprattutto in America, ancora poco in Europa) in cambio del pagamento di una rata mensile in cui sono comprese tutte le spese, dal cambio gomme all’assistenza stradale, dal bollo all’assicurazione su furto e incendio. La novità sta prendendo piede anche in Italia, come emerge da un rapporto Aniasa: ogni giorno sarebbero circa 900mila le persone a usare il noleggio a lungo termine (che è cresciuto del 18% tra il 2016 e il 2017) e 130mila a breve termine. Accanto a queste possibilità si sta diffondendo anche il car sharing peer to peer, una sorta di Airbnb dell’auto in cui il proprietario di un veicolo può affittarlo nei periodi di inutilizzo.
Recentemente il The Guardian ha dedicato la sua attenzione a iniziative come la “biblioteca delle cose” (o Lot, Library Of Things) e altri progetti simili, dal canadese Thingery al “negozio”californiano che, inaugurato nel 1979, si vanta di essere uno dei primi di questo tipo al mondo. Si tratta di spazi in cui vengono raccolti oggetti di ogni tipo, dai tosaerba alle impastatrici, che possono essere presi in prestito da tutti gli iscritti, proprio come in una biblioteca. È un modello che funziona bene soprattutto per quei prodotti, anche costosi, che si utilizzano raramente. Anche nei casi in cui il servizio non è completamente gratuito ma prevede la sottoscrizione di una quota associativa per coprire i costi di manutenzione, prendere in prestito si è rivelato comunque conveniente. Oltre al vantaggio economico, però, c’è anche il risparmio di spazio in casa e, non ultimo, quello sui costi ambientali. L’idea del prestito, nata tra i figli dei fiori e le altre sottoculture negli anni Settanta, sull’onda della presa di coscienza contro il consumismo dilagante, si è rinnovata grazie al web, che permette di far pubblicità a questi progetti e ne facilita l’organizzazione. Anche la crisi economica ha contribuito a diffonderla, perché le persone hanno cominciato a chiedersi come risparmiare senza troppe rinunce. Un contributo fondamentale è arrivato anche dalla nuova coscienza ambientalista, soprattutto tra i più giovani.
Il prolungamento del ciclo di vita di un oggetto ha una grande influenza sul suo impatto ambientale, oltre a garantire un risparmio economico. Questo è tanto più vero per elettrodomestici ed elettronica la cui produzione necessita di sostanze anche preziose, spesso di difficile estrazione e che si trovano nei Paesi in cui le condizioni di lavoro sono pessime e la situazione politica ambigua, come nel caso del Venezuela. Si calcola che in Europa, riutilizzando i beni che ora vengono buttati, si risparmierebbero ogni anno quasi 6 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra e 44 milioni dimetri cubi di acqua. Lo smaltimento degli oggetti dismessi ha dei costi altrettanto pesanti: tra ferro, rame, alluminio e altri metalli, gettare elettrodomestici e prodotti tecnologici significa da un lato sprecare le materie preziose e la plastica con cui sono realizzati e dall’altro mettere in circolazione rifiuti pericolosi. Si calcola che in Europa circa un terzo dei prodotti gettati potrebbe essere riutilizzato se sottoposto a manutenzione e la situazione è tanto più drammatica se si considera il divario tra la durata ideale di un bene e quella effettiva. Secondo i calcoli del rapporto dell’Onu The long view. Exploring product lifetime extension, per ottimizzare l’impatto ambientale causato dalla sua produzione, uno smartphone dovrebbe essere utilizzato fino a 12 anni (contro gli uno o due anni di effettivo utilizzo) e un computer dai 7 agli 88 anni, a seconda dei parametri presi in considerazione; per quanto riguarda gli elettrodomestici, in media dovrebbero durare circa 10 anni, ma spesso si rompono o smettono di funzionare molto prima. Secondo l’Eurobarometro il 77% dei cittadini europei preferirebbe riparare i propri oggetti anziché sostituirli, ma non lo fa perché costa troppo, finendo per comprare un nuovo prodotto.
Questo meccanismo, noto come obsolescenza programmata, è stato dichiarato fuorilegge in Francia nel 2015, con l’introduzione di un’etichetta che attribuisce un punteggio al prodotto in base alla sua durata. L’allungamento del ciclo di vita dei prodotti, tra miglioramento della durata, manutenzione e riutilizzo, può avere effetti positivi non solo per il singolo consumatore, ma anche per le aziende stesse, che guadagnerebbero in fiducia e fidelizzazione degli acquirenti e quindi una maggiore competitività sul mercato. Ne beneficerebbe l’intera società, grazie alla creazione di nuovi posti di lavoro non delocalizzabili: circa 296 nel solo settore della riparazione ogni 10mila tonnellate di beni riutilizzati, secondo i dati della relazione redatta nel 2017 dalla Commissione per il Mercato Interno e la Protezione dei Consumatori presso il Parlamento Europeo. Nonostante il parere positivo dell’Unione europea, l‘organizzazione RReuse, che riunisce le imprese del continente impiegate nel riciclo e riutilizzo di prodotti, denuncia gli attuali ostacoli esistenti per la riparazione, dai costi elevati (talvolta superiori all’acquisto di un prodotto nuovo) alla scarsa accessibilità dei punti di riparazione, al design stesso che spesso rende difficile se non impossibile la riparazione di alcune componenti (ad esempio, negli elettrodomestici, la fusione di alcuni componenti anziché l’impiego di viti). Le istituzioni si stanno muovendo per tagliare gli sprechi soprattutto sul lato della qualità del prodotto: in Italia, ad esempio, il decreto 140/2016 ha chiesto ai produttori di implementare le strategie di eco-progettazione con accorgimenti che prolunghino la vita media dei prodotti e ne facilitino la riparazione, permettendone l’aggiornamento tecnico.
Nell’attesa di vedere effetti concreti dell’azione normativa, i cittadini da parte loro rispondono puntando sulla condivisione di oggetti, dall’auto all’attrezzatura per il giardino, verso cui emerge un nuovo approccio: quel che conta non è più possedere un bene, ma usufruire del servizio che garantisce. Negli ultimi anni sono aumentati anche i punti di freecycling e i repair cafè, negozi in cui si riparano, anche gratuitamente, gli oggetti che necessitano di manutenzione. Il ciclo acquisto-consumo-smaltimento può essere spezzato in più modi, producendo beni più duraturi e di migliore qualità, promuovendone la manutenzione, prolungando il periodo di garanzia e condividendoli con altre persone, con un grande risparmio ambientale oltre che economico. Un nuovo stile di vita e di acquisto è possibile, spostando il nostro focus dall’acquisto e possesso all’utilizzo. È l’economia circolare e può cambiare la tua vita e quella del pianeta.