Ridurre emissioni e sprechi non è un obbligo dall’alto ma un obiettivo necessario per sopravvivere - THE VISION
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Quando si parla delle strategie da adottare per contenere i danni legati al cambiamento climatico, sempre più spesso si ricorre al concetto di “neutralità carbonica”, una condizione in cui la stessa quantità di CO2 rilasciata nell’atmosfera da industrie attive in un qualsiasi settore dell’economia – dalla telefonia al trasporto aereo, dagli elettrodomestici al settore automobilistico – viene poi riassorbita grazie l’utilizzo della tecnologia. A dispetto di quanto suggerirebbe un’interpretazione letterale del termine, in questo caso l’azzeramento delle emissioni generalmente associato alla neutralità carbonica non implica, quindi, la completa eliminazione dell’impronta ecologica legata ai comportamenti individuali – come, appunto, telefonare, viaggiare o cucinare –, ma si riferisce piuttosto al concetto “emissioni nette zero” (net zero emissions), vale a dire una condizione per cui, per ogni tonnellata di gas serra prodotto, se ne rimuovono altrettante. 

Mentre l’impatto dell’essere umano sull’ambiente, in termini di emissioni di anidride carbonica, è impossibile da annullare – si pensi che la sola quantità di CO2 espulsa attraverso la respirazione è dieci volte superiore a quella normalmente presente nell’aria –, la rimozione tecnologica del gas serra emesso nell’atmosfera può avvenire in due modi: intercettandolo immediatamente dopo averlo prodotto all’interno degli stabilimenti industriali, per poi immagazzinarlo in alcuni “siti di stoccaggio sotterranei” o, se possibile, riutilizzarlo; oppure estraendo la CO2 direttamente dall’atmosfera attraverso alcune ventole, per poi iniettarla nel sottosuolo (una tecnologia denominata Direct Air Capture, o DAC). Si tratta, in entrambi i casi, di metodi estremamente costosi, motivo per cui gli stabilimenti di “cattura dell’anidride carbonica” attualmente in funzione sono pochi e il loro contributo sulla quantità di CO2 complessivamente presente sul pianeta quasi impercettibile. Per ridurre drasticamente le emissioni di gas serra e avvicinarsi il più possibile agli obiettivi stabiliti dai 195 Paesi firmatari dell’Accordo di Parigi del 2015 – dal contenimento del riscaldamento globale entro la soglia di 1.5°, fino al raggiungimento della neutralità carbonica entro il 2050 –, l’unica strategia davvero efficace rimane quindi la sostituzione dei combustibili fossili con fonti di energia rinnovabile, come quella solare, eolica, geotermica, idroelettrica o ricavata da biomasse.

Nonostante la ratifica europea dell’Accordo di Parigi risalga a ottobre 2016, nell’UE il raggiungimento della neutralità carbonica entro trent’anni – compresa la riduzione delle emissioni di gas serra del 55% entro il 2030, da perseguire attraverso l’adozione di un pacchetto di riforme noto come Fit for 55– è divenuto vincolante solo a partire da luglio 2021, grazie all’entrata in vigore della legge UE sul clima approvata dal Parlamento Europeo il mese precedente. Il provvedimento, in linea con gli accordi stipulati nell’ambito del Green Deal europeo del 2019, si propone di ridurre drasticamente la quantità di gas serra presente nell’aria, sia limitandone la produzione – promuovendo, per esempio, lo sviluppo di combustibili sostenibili per navi e aerei e imponendo limiti più stringenti alle emissioni di auto e furgoni, responsabili di circa il 15% dell’anidride carbonica prodotta nell’UE; sia tutelando la conservazione di vegetazione, suolo e oceani – i cosiddetti “pozzi di assorbimento del carbonio”, complessivamente in grado di assorbire fino a un terzo della CO2 presente nell’atmosfera – attraverso il ripristino delle zone umide, il rimboschimento e l’arresto della deforestazione; infine, rendendo sempre meno vantaggiosi, anche da un punto di vista economico, sia il ricorso ai combustibili fossili nel territorio europeo, sia l’importazione di prodotti provenienti dall’estero la cui realizzazione non abbia rispettato gli standard ambientali previsti dall’UE.

In linea con quest’ultimo obiettivo, domenica 18 dicembre il Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa hanno raggiunto un accordo per l’introduzione di una border carbon tax, con lo scopo di adeguare il prezzo dei prodotti importati dai Paesi extra-Europei a quello che le aziende importatrici avrebbero pagato se lo stesso prodotto fosse stato realizzato entro i confini dell’Unione –  generalmente più alto, a causa delle norme UE che impediscono alle industrie di risparmiare sui costi di produzione adottando soluzioni più inquinanti. L’iniziativa, denominata Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) e definita dal capo negoziatore dell’europarlamento Peter Liese “la più grande legge sul clima che l’UE abbia mai adottato”, prevede l’imposizione di un’imposta variabile a seconda delle tonnellate di CO2 prodotte nei settori ritenuti “a più alta intensità di carbonio” – principalmente ferro e acciaio, cemento, fertilizzanti, alluminio, elettricità e idrogeno. L’accordo include, inoltre, anche un’ulteriore riduzione delle emissioni concesse dal cosiddetto “Sistema di scambio delle emissioni” (Emission Trading System, ETS), un meccanismo che prevede, in alcuni settori produttivi (principalmente energetico, aereo e manifatturiero), l’imposizione di un “tetto massimo” di emissioni consentite, oltre al pagamento di una quota per ogni tonnellata di gas serra rilasciato nell’atmosfera.

Parallelamente alla limitazione delle emissioni legate alla realizzazione ex novo di prodotti o materie prime, una strategia recentemente valorizzata dalla istituzioni europee per contenere l’impronta ecologica dell’essere umano sull’ambiente riguarda il rafforzamento della cosiddetta “economia circolare”, definita “un modello di produzione e consumo che prevede la condivisione, il leasing, il riutilizzo, la riparazione, la ristrutturazione e il riciclaggio di materiali e prodotti esistenti il più a lungo possibile”. Si tratta, in altre parole, di un sistema volto ad allungare al massimo il ciclo di vita dei prodotti riducendo al minimo gli sprechi, fortemente in contrasto sia con il consumismo indotto dalla società capitalista – inteso come la propensione, da parte dei consumatori, ad acquistare prodotti non necessari nella convinzione di averne bisogno o, in alternativa, con l’unico fine di possederli – sia con la cosiddetta “obsolescenza programmata”, la tendenza cioè a progettare i prodotti in modo che questi presentino una durata limitata, in modo da costringere i consumatori a riacquistarli periodicamente. 

Con l’obiettivo di promuovere questo cambio di paradigma, a febbraio 2021 il Parlamento Europeo ha accolto e integrato il Circular Economy Action Plan (CEAP), un piano d’azione elaborato dalla Commissione Europea a marzo dell’anno precedente per rendere sempre più sostenibile la produzione di alimenti, materiali, dispositivi tecnologici e oggetti di uso comune, promuovere la creazione di modelli di business circolari e, non ultimo, responsabilizzare le persone a proposito dell’importanza di contribuire, ognuno secondo le proprie possibilità, alla transizione verde. In Italia, quest’ultima intenzione ha recentemente preso forma nella campagna di comunicazione “Voglio un pianeta così”, giunta quest’anno alla terza edizione. Diffusa fra giugno e luglio 2022 nei canali social dell’europarlamento, la campagna si proponeva di raccontare, attraverso il coinvolgimento di alcuni testimonial, alcune realtà italiane ancora poco conosciute, ma meritevoli di aver reso la lotta al cambiamento climatico un elemento strutturale del proprio progetto. Utilizzando l’hashtag #vogliounpianetacosì, gli utenti erano inoltre invitati a condividere a loro volta la propria “idea green”, nella consapevolezza che, nella transizione verso la neutralità carbonica, ogni persona detiene la propria porzione di responsabilità.

Ancora, fra le misure approvate dall’europarlamento nell’ambito del CEAP si ritrova una modifica delle norme sugli inquinanti organici persistenti (POP), sostanze chimiche tossiche e resistenti alla decomposizione che, una volta disperse nell’ambiente, tendono ad accumularsi al suolo, nell’acqua, nell’aria e negli organismi viventi, compresi gli esseri umani. Con l’introduzione delle nuove regole, i livelli di POP consentiti nei prodotti vendibili verranno ulteriormente abbassati, mentre nuove sostanze chimiche entreranno a far parte dell’elenco delle sostanze nocive, aumentando così il numero di prodotti interamente riciclabili. Il 9 dicembre, su iniziativa del socialdemocratico italiano e capo negoziatore sul clima dell’europarlamento Achille Variati, è stato inoltre raggiunto un accordo provvisorio con il Consiglio d’Europa per una regolamentazione più stringente per l’intero ciclo di vita di ogni tipo di batteria (portatili, industriali, destinate all’illuminazione, all’avviamento o ai mezzi di trasporto), dalla progettazione allo smaltimento. Nell’ultimo anno, infine, la lotta all’obsolescenza programmata ha assunto la forma di una proposta legislativa finalizzata a introdurre, in tutto il territorio europeo, un nuovo “diritto alla riparazione”, obbligando i produttori a offrire gratuitamente le informazioni di manutenzione della propria merce, finanziando una parte della riparazione dei dispositivi difettosi o estendendone i periodi di garanzia. 

Da inizio 2022 la crisi energetica, la crescita dell’inflazione e il rincaro delle bollette conseguenti all’invasione russa in Ucraina hanno rappresentato ostacoli non indifferenti per il mantenimento di una discreta qualità della vita da parte della popolazione: se nel 2021 le famiglie italiane incapaci di accedere ai servizi energetici di base erano 2,2 milioni – un valore comunque molto alto, parzialmente influenzato anche dalle conseguenze della pandemia di Covid-19 – nei primi nove mesi del 2022 circa 4,7 milioni di persone avrebbero infatti mancato il pagamento di una o più bollette e, di queste, due su tre non l’avevano mai fatto prima – un trend condiviso anche dagli altri Paesi europei. Anche per questo motivo, lo scorso novembre i deputati dell’europarlamento hanno ribadito la necessità di includere le misure per il risparmio energetico e il passaggio alle rinnovabili definite nel progetto RePowerEU all’interno dei Recovery Fund dei singoli Paesi, con lo scopo di accelerare il percorso verso l’indipendenza dai combustibili fossili russi e contrastare, nel frattempo, la povertà energetica abbassando il costo dell’energia.

La necessità di fare in modo che tutta la popolazione – e non, come nota l’eurodeputata olandese Esther de Lange, solo “pochi fortunati” – disponga delle risorse necessarie per partecipare attivamente alla transizione verde è anche il principio alla base dell’istituzione di un Fondo sociale per il clima, approvato dal Parlamento Europeo nella giornata di sabato. Se da un lato, infatti, il taglio delle emissioni e la creazione di un’economia il più possibile circolare costituiscono passaggi cruciali per la salvaguardia del pianeta e delle nostre vite, è altrettanto importante che ciò non favorisca l’ampliamento delle disuguaglianze sociali già esistenti, pena l’attivazione di un circolo vizioso difficilmente colmabile. Investire nelle rinnovabili, limitare le emissioni e ridurre gli sprechi non rappresentano prescrizioni imposte dall’alto, ma obiettivi funzionali alla nostra stessa sopravvivenza: per questo motivo è essenziale che tutti, nessuno escluso, prendano parte a questo processo.

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