Il cibo a basso prezzo è uno dei pilastri della nostra economia. L’impulso a riempirsi la pancia spendendo il meno possibile è antico e irresistibile e, girando tra i banchi del supermercato o passando davanti a un fast food, la tentazione di cedervi è forte. Ma se è vero che un prezzo salato non è necessariamente sinonimo di alta qualità e maggiori garanzie, è assai più probabile che i prodotti a pochi euro siano di pessima categoria. Se non in termini qualitativi, probabilmente non rispettano gli standard etici – quando non sono scadenti da entrambi i punti di vista. Per sostenere un prezzo stracciato infatti deve essere inevitabilmente sacrificata almeno una delle variabili che fanno il prezzo finale di un prodotto: la materia prima, il tempo, l’energia o i mezzi impiegati nella produzione e nella lavorazione, oppure, non ultima, la manodopera. Se nell’immediato ci sembra di risparmiare qualche euro sulla spesa, è quindi scontato che, come ci avverte il giornalista Michael Pollan, in realtà ci perdiamo sul medio e lungo periodo. Prima di tutto in termini di tasse – che vanno ad esempio perse in sussidi agli agricoltori o nella sanità per sopperire i danni di un’alimentazione sbagliata – e poi in salute.
La prima variabile che compone il prezzo finale è la materia prima. Se parliamo di carne di pollo ad esempio – secondo il giornalista britannico Raj Patel uno degli esempi più lampanti per spiegare come funziona questo meccanismo – potremo essere sicuri che provenga da allevamento intensivo. Quella che comunemente si trova al supermercato e in rosticceria è una delle carni più a buon mercato e meno sostenibili in assoluto: selezionato per crescere in pochi giorni e sviluppare principalmente petto e cosce, imbottito di antibiotici in allevamenti sovraffollati, il bestiame conduce una vita indegna e arriva sulle nostre tavole sotto forma di carne poco nutriente e poco saporita. Non va meglio con altri animali, come manzo e maiale, cresciuti a forza di antibiotici e ormoni della crescita. Invece che a foraggio – ossia ciò per cui lo stomaco dei ruminanti è predisposto – il manzo è nutrito a mais e soia. Delle circa 36 milioni di tonnellate di soia di fabbisogno annuo in Unione europea – che ne produce internamente 1,4 milioni di tonnellate – la stragrande maggioranza è importata da Stati Uniti e Brasile, dove è principalmente prodotta a monocoltura intensiva e con impiego di Ogm.
Ma nemmeno su ortaggi, cereali e legumi il prezzo conveniente è un buon segno: quelli impiegati nei prodotti industriali sono prevalentemente importati da Paesi in cui la sicurezza alimentare è inferiore rispetto al livello italiano, il più alto d’Europa, con il rischio di mangiare fagiolini con residui chimici o pasta realizzata con grano contaminato da muffe. Oppure ancora provengono da Paesi in cui gli Ogm sono permessi. È tramite l’agricoltura intensiva che viene prodotta la maggior parte dei cereali, degli ortaggi e dei legumi destinati all’alimentazione umana e animale. Le conseguenze sono la distruzione dell’habitat di diverse specie e l’espropriazione delle terre dei piccoli agricoltori per farne grandi estensioni a monocoltura.
C’è poi il danno all’agro-biodiversità connessa alla sostituzione delle coltivazioni locali da parte delle poche dominanti, più remunerative. Circa il 70% del nostro cibo è ottenuto da appena nove specie vegetali e la metà dei prodotti utilizzati dall’uomo è riconducibile ad appena quattro prodotti agricoli: riso, mais, grano e patate. Questa selezione è all’origine dell’immane perdita di patrimonio genetico vegetale a cui assistiamo. Le conseguenze sono disastrose, poiché la biodiversità garantisce al sistema agricolo una migliore resistenza agli attacchi di insetti, malattie ed eventi atmosferici. Più varietà ci sono di una stessa pianta infatti, più alta sarà la possibilità che, di fronte a un pericolo, almeno una di queste sopravviva. Pesticidi, diserbanti e insetticidi chimici causano poi un aumento della resistenza dei parassiti e un maggiore rischio di malattie anche nell’uomo, per effetto della biomagnificazione – per cui i prodotti tossici presenti nel terreno aumentano concentrazione man mano che si sale nella catena alimentare.
Il risultato di tutto ciò – unito agli effetti del cambiamento climatico che tali metodi agricoli incrementano – alla lunga è l’impoverimento del terreno e, quindi, un calo della produzione: l’opposto rispetto ai motivi che ci hanno spinto a preferire questo tipo di agricoltura. La larga dipendenza della produzione agricola dai carburanti, inoltre, fa sì che l’intera industria sia soggetta a equilibri geopolitici precari. Quando, per motivi legati agli eventi atmosferici estremi o all’aumento del prezzo carburante, si hanno impennate dei prezzi dei cereali – come avvenuto tra il 2010 e il 2011 – le rivolte del pane diventano talvolta la miccia d’innesco per l’esplosione di malesseri più ampi. Un esempio sono le Primavere arabe, che otto anni fa hanno sconvolto il Nord Africa.
Un’altra variabile dell’“economia del pollo fritto”, come appunto l’ha definita Patel, è la sua lavorazione, fondata su velocità ed efficienza: come la catena di montaggio insegna, più è vasta la scala di produzione, più basso sarà il costo per singolo pezzo prodotto. I due mattoncini di questa costruzione sono l’energia a basso costo – uno dei carburanti che alimenta il fuoco dei conflitti in Medio Oriente – e lo sfruttamento della manodopera, che è alla base tanto del ristorante di fast food quanto della fornitura di fresco del supermercato. Patel sottolinea come la manodopera nell’industria del fast food negli Stati Uniti sia costituita dalle categorie sociali più facilmente ricattabili: immigrati e donne. Accade lo stesso a casa nostra, dove ci sono comparti agricoli – in particolare nelle raccolte stagionali, come pomodori, fragole e uva – in cui il lavoro grigio è la norma: la manodopera, tramite accordi informali, accetta di mettere sulla carta un numero di giorni lavorati inferiore alla realtà, che permette di incassare il sussidio di disoccupazione, a danno della collettività che lo paga in tasse. Il salario, spesso a cottimo, è decurtato della percentuale intascata dal caporale reclutatore.
Il paradosso è messo in luce da un rapporto di Oxfam del 2018, per cui nel mondo il salario degli agricoltori, cioè coloro che forniscono il cibo, è a livello “insicurezza alimentare”. In Italia la cosiddetta legge anticaporalato ha dato una svolta positiva alla lotta al fenomeno, che tuttavia non può dirsi vinta, tanto più la stessa legge sembra di tanto in tanto messa in dubbio. Ma a livello mondiale il problema si è addirittura aggravato: la percentuale del prezzo finale che spetta ai piccoli agricoltori è passata dall’8,8% del biennio 1996-98 al 6,5% del 2015. Viceversa, quella che va al supermercato è passata dal 43,5% al 48,3%.
All’origine vi è il fatto che la Grande Distribuzione Organizzata spunta prezzi sempre più bassi ai fornitori per offrire sconti e offerte agli acquirenti. I fornitori, di conseguenza, per guadagnare abbassano il salario dei braccianti. Non solo: non possono permettersi di investire per innovare e migliorare il prodotto, determinando uno schiacciamento della qualità verso il basso.
Così, tramite quel trasporto su gomma che contribuisce largamente all’inquinamento dell’aria, i prodotti arrivano al supermercato. E da lì, infine, nel piatto del consumatore, che a volte non si può permettere di scegliere di acquistare un prodotto migliore e punta quindi sui prodotti meno costosi, quelli industriali, più ricchi di calorie e poveri di nutrienti. In questi alimenti peraltro l’abbondanza di grassi, sale, zucchero e additivi inducono una dipendenza che spinge a mangiarne sempre di più, con il noto meccanismo del pacchetto di patatine: impossibile fermarsi una volta che si inizia a mangiarle. Nel carrello della spesa uno snack industriale ipercalorico costa meno di un mazzo di carote, nonostante sia più lavorato. Questo distacco si fa più netto se si considera il prezzo per caloria: motivo per cui l’obesità sta diventando una piaga laddove la povertà è un problema endemico.
Siamo abituati a vedere un prodotto finito come se crescesse tale e quale sui banchi del supermercato e, assuefatti dagli sconti pubblicizzati ovunque, abbiamo perso la percezione del valore del cibo. Ma, come sottolinea Raj Patel, questo sistema capitalista dell’industria alimentare non è inevitabile. Essere consapevoli delle fasi che una materia attraversa per arrivare in tavola e del numero di persone che sono coinvolte nella sua produzione, imparare a leggere le etichette e comprare di conseguenza sono i primi cambiamenti da adottare nello stile di vita.
Un acquisto sbagliato è un danno non solo per tutti gli attori coinvolti nella produzione, ma anche per noi consumatori. Perché siamo quello che mangiamo quindi, prima ancora, quello che compriamo.