Il 24 ottobre scorso il Parlamento europeo ha approvato una proposta di Direttiva, elaborata dalla Commissione, sulla riduzione del consumo in tutta l’Unione europea dei prodotti di plastica usa e getta. Secondo i calcoli, questa tipologia di oggetti costituisce il 70% dei rifiuti presenti negli oceani, motivo di diverse problematiche urgenti, prima di tutto in termini di salute. A causa della sua lenta decomposizione infatti, la plastica si accumula nei mari, rilasciando piccoli residui che vengono ingeriti dalle specie marine ed entrano nella catena alimentare, di cui ovviamente è parte anche l’essere umano. Inoltre, l’inquinamento dei mari ha un impatto economico: il costo per l’Ue dei danni dovuti al degrado causato dalla plastica che si deposita sulle spiagge è stimato tra i 259 e 695 milioni di euro all’anno, e provoca ingenti perdite principalmente al settore turistico. La nuova normativa vieterà, a partire dal 2021, la vendita all’interno dell’Unione di articoli in plastica monouso come posate, bastoncini cotonati, piatti, cannucce, miscelatori per bevande e bastoncini per palloncini. Gli Stati membri entro il 2025 dovranno ridurre del 25% il consumo dei prodotti in plastica per i quali non esistono alternative. Per quanto riguarda le altre materie plastiche, come le bottiglie per bevande, dovranno essere raccolte separatamente e riciclate al 90% sempre entro il 2025.
Tra gli europarlamentari contrari alla Direttiva – tra cui, tra gli italiani, alcuni esponenti del Partito democratico, di Forza Italia e della Lega – hanno denunciato l’eccessiva fretta, le mancate valutazioni sull’impatto economico e un presunto approccio ideologico della proposta di direttiva. Uno dei temi che sta più a cuore a questa strana triade è l’effetto del divieto sull’occupazione, dato che in Italia operano 25 imprese che producono unicamente prodotti monouso in plastica. La normativa europea, però, non si esaurisce nell’imposizione di divieti, ma prevede per gli Stati membri la necessità di elaborare piani nazionali per incoraggiare l’uso di prodotti adatti ad uso multiplo, nonché il riutilizzo e il riciclo. Proprio l’Italia, allora, potrebbe trarre grandi vantaggi dal promuovere l’avvio di nuove imprese nel settore delle bioplastiche, e questo perché la storia industriale italiana fornisce un interessante spunto: la filiera agroindustriale della canapa.
Agli inizi del Novecento l’Italia produceva più canapa di quanta se ne produca oggi in tutto il mondo, dedicando oltre 90mila ettari alla coltivazione di questo vegetale. Nel nostro Paese, in base alle diverse lavorazioni, se ne ricavavano fibre tessili, corde, carta e oli commestibili. A molti risulterà strano date le attuali controversie politiche, ma nel nostro recente passato, sicuramente di stampo non progressista, persino Benito Mussolini, in un primo momento, ne aveva riconosciuto le doti. “La Canapa è stata posta dal Duce all’ordine del giorno della nazione,” affermò nel 1925. “Per eccellenza autarchica è destinata ad emanciparci quanto più possibile dal gravoso tributo che abbiamo ancora verso l’estero nel settore delle fibre tessili. Non è solo il lato economico agrario, c’è anche il lato sociale la cui incidenza non potrebbe essere posta meglio in luce che dalla seguente cifra: 30mila operai ai quali dà lavoro l’industria canapiera italiana”. Ma dopo solo pochi anni aver diffuso questo annuncio, il regime fascista dichiarò l’hashish nemico della razza e droga da “negri”, contribuendo ai malintesi tutt’ora presenti nella nostra società, perché creò confusione tra i termini di cannabis, marjuana e hashish: la prima indica infatti la pianta nella sua totalità, la seconda intende i fiori mentre la terza consiste nella resina estratta dai fiori e solo gli ultimi due, se assunti in determinati modi, hanno effetti psicotropi. Negli anni Trenta anche gli Stati Uniti si resero conto delle enormi potenzialità della canapa: nel 1941, il famoso produttore di automobili Henry Ford realizzò la prima vettura interamente costituita di plastica di canapa, più leggera ma anche più resistente delle normali carrozzerie in metallo, e alimentata da etanolo prodotto dallo stesso vegetale. Lo stesso Henry Ford, per dimostrare ai giornalisti e al pubblico l’elasticità e la resistenza del nuovo tipo di carrozzeria, si fece filmare mentre colpiva violentemente con una mazza di ferro il retro della Hemp body car senza che questa neppure si ammaccasse.
Sia in Italia che negli Stati Uniti, però, dopo la seconda guerra mondiale iniziò un lungo periodo di diffidenza nei confronti della canapa, e non solo per le sue proprietà “ricreative”. Alcuni sostengono che il lungo periodo di proibizionismo che ha interessato la coltura di questo vegetale sia stato indotto dalle lobby del petrolio e della carta – per la fabbricazione dei giornali si richiedevano grandi quantità di solventi chimici a base di petrolio – che vedevano nel settore canapiero un nemico insidioso. Il dato storico è quello che testimonia, a partire dal dopoguerra, l’avvento nei mercati occidentali delle fibre sintetiche e la demonizzazione della marijuana a uso ricreativo: un mix che ha alimentato il progressivo indebolimento di questa industria.
Solo a partire dal 2012 l’atteggiamento di alcuni Paesi occidentali è mutato, spesso in concomitanza di una ritrovata coscienza sociale sui disastrosi problemi ambientali legati ai cambiamenti climatici. Sempre più nazioni si sono rese conto delle grandi potenzialità di questa pianta versatile e le tecnologie del nuovo millennio hanno riaperto le porte a infinite possibilità di utilizzo.
L’Italia si è parzialmente adeguata ai mutamenti politici in atto nel resto del mondo con la promulgazione della Legge 242 del 2016 che ha introdotto nel nostro ordinamento disposizioni per la promozione della coltivazione della canapa e della sua filiera agroindustriale. È il caso di dire che non si aspettava altro: la Coldiretti ha presentato pochi mesi fa uno studio intitolato La new canapa economy da cui si evince che, nel giro di cinque anni, l’Italia ha visto aumentare di dieci volte i terreni coltivati, dai 400 ettari del 2013 ai quasi 4mila stimati per il 2018. Sono campagne dove si moltiplicano le esperienze innovative, con produzioni che vanno dalla ricotta agli eco-mattoni isolanti, dall’olio antinfiammatorio alle bioplastiche, fino a semi, fiori per tisane, pasta, biscotti e cosmetici.
La bioplastica di canapa è quindi già una realtà, e non solo nei grandi Paesi industrializzati come Canada e Stati Uniti, ma anche qui in Italia. Nel 2015, in Sicilia, è stata fondata una piccola impresa, la Kanesis, creata da uno studente di Ingegneria dei materiali di 22 anni. Giovanni Milazzo ha brevettato un materiale plastico simile al polipropilene, ricavato dagli scarti di lavorazione della canapa. Il risultato è un composto di fibre naturali biodegradabile, riciclabile ed esente da tossine, prodotto a prezzi concorrenziali rispetto alla comune plastica. La pianta di canapa è inoltre molto facile da coltivare: è comunemente chiamata “erba” perché come le “erbacce” cresce molto velocemente e si è adattata a crescere in tutti i continenti tranne l’Antartide. Dal seme al raccolto, le piante impiegano solo 3 o 4 mesi per crescere e, una volta grandi, assorbono ingenti quantità di CO2 dall’atmosfera. Richiedono, inoltre, generalmente meno pesticidi, fertilizzanti e acqua rispetto ad altre risorse bioplastiche come il cotone e il legno, fornendo un raccolto più rispettoso dell’ambiente e a bassa manutenzione.
Se vogliamo continuare a vivere su questo pianeta non possiamo più girare la testa sui disastrosi problemi ambientali che abbiamo creato. Fortunatamente per noi, abbiamo sviluppato, tecniche, colture o tecnologie in grado di poter modificare il nostro impatto ambientale con meno sacrifici di quanti potevamo immaginare solo pochi anni fa. Serve però una grande volontà politica e lungimiranza. In Italia, purtroppo, rispetto ad altri Paesi occidentali, la situazione è tra le peggiori, in quanto il dualismo interno al governo, rappresentato da Lega e M5S, non offre una linea univoca sulle questioni legate all’ambiente. Inoltre, già da tempo, la scarsa volontà politica viene camuffata da ricatto occupazionale: sembra che non possiamo modificare le nostre economie perché si perderebbero posti di lavoro. Ma è falso. Le “economie green” creerebbero nuovi posti di lavoro fondando nuove imprese e riconvertendo quelle già esistenti, permettendo ai lavoratori di operare in ambienti più sani ed evitando di creare quegli abomini inquinanti come l’Ilva di Taranto.
Nel governo italiano il quadro è questo: mentre i Cinque Stelle si dicono favorevoli alla promozione della coltivazione della canapa, il ministro dell’Interno Matteo Salvini sta da tempo mettendo in discussione la legge 242/2016, ed è facile immaginare che una stretta repressiva per contrastare la vendita di cannabis light potrebbe avere ripercussioni anche sulle coltivazioni funzionali ad altri usi. In più, mentre il M5S sembra sensibile al tema dell’inquinamento dovuto alla plastica, gli europarlamentari della Lega hanno contestato la buonafede della Direttiva Ue e hanno votato contro. Per anticipare gli effetti delle decisioni prese in Europa, al contrario, il ministro Costa, del M5S, ha presentato la Legge Salvamare, finalizzata a promuovere il recupero dei rifiuti dispersi nelle acque nostrane, il cui iter parlamentare dovrebbe iniziare da gennaio 2019. La proposta ha già generato contrasti interni al governo, e la sottosegretaria leghista al ministero dell’Ambiente Vannia Gava ha prontamente espresso il suo disaccordo, chiedendo di coinvolgere anche “i numerosi operatori industriali nel settore delle plastiche”. Non si può dunque escludere che dal prossimo anno il tema dell’inquinamento delle plastiche usa e getta sarà un campo di battaglia su cui i partiti di governo Lega e M5S misureranno le loro forze. Purtroppo, sempre con un pietoso anacronismo e a nostro discapito.
Questo articolo è stato pubblicato la prima volta il 28 novembre 2018.