Al termine del suo lungo viaggio dal campo alla tavola, dopo tanti processi di trasformazione, ai nostri occhi il cibo non dice niente di ciò che l’ha portato nel nostro piatto. A causa di questa distanza non abbiamo consapevolezza del suo impatto ambientale e delle conseguenze sociali ed economiche della sua produzione. Un po’ per moda, un po’ per paura delle malattie, delle calorie e delle conseguenze nefaste di tutto ciò che ci circonda, sono sempre più richiesti gli alimenti modificati, alleggeriti, privati di qualche componente o al contrario addizionati, insaporiti, comunque allontanati da ciò che il cibo dovrebbe essere: nutrimento frutto della terra. Nella guerra delle opposte fazioni – tra vegani, vegetariani, crudisti, e quant’altro – quel che conta è ritrovare l’orientamento perduto verso il “cibo vero”, come lo definisce l’economista e agronomo Andrea Segrè.
Ormai anche gli esperti più autorevoli confermano che per dare a tutti un’alimentazione sana, nutriente e che non distrugga l’ambiente dobbiamo cambiare radicalmente il sistema alimentare, che, così com’è, è destinato al collasso. La biodiversità – cioè la varietà della vita in quanto a geni, specie ed ecosistemi che contribuisce alla produzione agricola e alimentare – sta diminuendo a un ritmo drammatico. Fornendo servizi vitali come produzione e mantenimento di suolo, habitat per gli animali, impollinazione delle piante e controllo delle malattie, la biodiversità è indispensabile alla sicurezza alimentare e a un’economia sostenibile. Nonostante oggi si produca più cibo che in passato, esso è costituito da pochissime monocolture intensive: di tutte le specie vegetali coltivate nella storia, solo 200 di esse forniscono oggi la maggior parte del nutrimento e appena nove (canna da zucchero, mais, riso, grano, patate, soia, palma da olio, barbabietola da zucchero e manioca o cassava) forniscono il 66% della produzione vegetale totale. Basare alimentazione ed economia mondiali su poche specie determina un’enorme fragilità davanti a mutamenti climatici e malattie e, mai come oggi, nelle migrazioni climatiche sono chiare le implicazioni geopolitiche di questi problemi. Chi pensa si tratti di temi lontani e che la perdita di biodiversità non metta a rischio il suo piatto di pasta, sappia che anche il suo bicchiere di vino è minacciato dai mutamenti del clima: quelle caratteristiche che rendono speciale ogni bottiglia e fanno muovere l’economia, specialmente italiana, sono oggi incerte.
Tra i tentativi di nicchia di sottrarsi a questi pericoli c’è il ritorno dell’antica tradizione ebraica della shmita o shemittah (l’anno sabbatico), che preserva la fertilità del suolo tramite il periodico riposo completo dei campi; oggi è riscoperta da alcune aziende agricole che la combinano con agroforestazione e altre pratiche consigliate dalla Fao per preservare la fertilità, ma si tratta di esperimenti interessanti che per il momento sono impraticabili su vasta scala in ambito commerciale: è l’intero sistema di produzione alimentare a dover cambiare. Questo causa circa un quarto delle emissioni totali di gas serra, ma contribuire al surriscaldamento globale non è una conseguenza inevitabile di quella parte indispensabile dell’essere umani che è l’alimentazione, o almeno non del tutto.
Uno studio pubblicato su Science lo scorso anno ha rilevato l’incidenza di buone pratiche come l’auto-monitoraggio da parte dei produttori e la comunicazione ai consumatori circa il proprio impatto ambientale e ha misurato l’impatto ambientale di diversi alimenti. La carne di manzo è tra i cibi più deleteri per l’ambiente, dato che sono necessari 3 kg di grano, all’incirca, per produrre 1 kg di carne rossa, ma sono notevoli le differenze dovute alle modalità di allevamento: secondo alcuni studi sarebbe più ecologico nutrire il bestiame soltanto con i pascoli (che sarebbero il loro nutrimento naturale), per evitare la produzione di grandi quantità di soia. Anche il luogo incide: allevamenti realizzati su grandi estensioni di prateria naturale non pesano sull’ambiente come quelli per i quali sono state distrutte porzioni di foresta, come spesso in Brasile e Argentina. Una maggiore efficienza della nutrizione, delle cure veterinarie e dei pascoli dà al sistema di produzione della carne maggiore efficienza: ad esempio gli Stati Uniti producono oggi più chili di carne rispetto al passato, nonostante il numero di animali sia diminuito.
Il minore impatto l’hanno tofu, legumi e semi oleosi. Anche qui, ci sono differenze nella quantità di emissioni fino a 50 volte tra un’azienda e l’altra per uno stesso prodotto, ma in linea generale una dieta a base vegetale rappresenta uno stile alimentare più efficiente, avendo un impatto ambientale minore: se gli americani, tra i maggiori consumatori mondiali di carne, si limitassero all’equivalente di tre hamburger alla settimana, le emissioni mondiali sarebbero ridotte di oltre il 50%, con ulteriore risparmio in salute, dato che le linee guida dell’Oms di fatto coincidono con quelle per la salute del pianeta. Diventare vegetariani o vegani, tuttavia, oltre a essere una prospettiva irrealistica da estendere al globo intero, non è necessario, anche perché in molti casi il bestiame può essere allevato su terreni non adatti all’agricoltura. Inoltre, soprattutto nei Paesi più poveri, carne, latticini e uova sono fonti concentrate di nutrienti e vitamine fondamentali, difficili da introdurre altrimenti. Oggi, poi, c’è la possibilità concreta rappresentata dalla carne ottenuta in laboratorio, che certamente risolve il problema etico del benessere animale e che ha un impatto ambientale inferiore, poiché causa fino al 90% meno gas serra e necessita di oltre il 40% in meno di energia rispetto alla produzione di carne animale.
Riscoprire i cereali e i legumi che non rientrano tra le specie più coltivate è un’azione imprescindibile per incentivare una maggiore variabilità agricola. Tra i cibi raccomandati per salvare se stessi e il pianeta, partecipando anche alla difesa della biodiversità – scelti dal report Future 50 Foods redatto dalla Knorr e dal WWF sulla base di valore nutrizionale, basso impatto ambientale, gusto, accessibilità e basso prezzo – ci sono il fonio (un cereale senza glutine a basso indice glicemico), molti funghi, legumi vari, semi oleosi, tuberi, alghe e cactus. Tra questi bisogna scegliere in base alla propria collocazione geografica, per evitare agli alimenti un lungo viaggio, e alla stagionalità, ma sempre variando il più possibile la dieta. I legumi sono raccomandati dalla Fao anche perché sono poco costosi, molto resistenti e si adattano praticamente a ogni ambiente (non è un caso se praticamente ogni Paese ha almeno un piatto tipico a base di legumi).
Nonostante il trasporto non rappresenti la maggiore fonte di impatto ecologico degli alimenti, a far ricadere la scelta su prodotti locali e stagionali (quindi non trasportati da altre latitudini) entra in gioco un altro fattore: il sostegno all’economia locale. Supportare i produttori e i negozianti locali significa, da una parte, partecipare attivamente alla comunità di cui si fa parte, e dall’altro conoscere davvero la provenienza del proprio cibo. Un ulteriore beneficio è quello di poter acquistare prodotti unici, non appiattiti sugli standard del mercato e sui gusti di moda, un po’ come avviene con l’abbigliamento quando si opta per l’artigianato locale anziché acquistando nelle grandi catene multinazionali. Inoltre i piccoli esercizi, proprio per il loro minore potere economico e per il contatto diretto con il consumatore, hanno maggiore interesse a fidelizzare il cliente con la qualità.
Per incentivare un sistema di produzione alimentare equo, si dovrebbero penalizzare le aziende non trasparenti (come si dovrebbero punire quelle che, in altri settori, trasferiscono la produzione all’estero, dove il costo del lavoro è più basso), imporre etichette chiare sull’impatto ambientale che la produzione di quell’alimento ha comportato – come già sta facendo la Danimarca – su che tipo di azienda l’ha prodotto e su come è avvenuto il suo trasporto e vigilare più attentamente sulla pubblicità ingannevole. A un piano più alto, bisogna cambiare orientamento nella produzione alimentare mondiale, puntando sulla qualità più che sulla quantità, e contemporaneamente dimezzare gli sprechi, come chiarisce l’attivista e docente britannico Raj Patel. La politica ha il potere di farlo, come ce l’ha nella distribuzione dei sussidi all’agricoltura: una scarsa percentuale della Politica Agricola Comune (PAC) è oggi destinata al miglioramento ambientale dell’agricoltura e al benessere degli animali da allevamento, elementi su cui, assieme al sostegno alle piccole imprese, dovrà insistere maggiormente la riforma della PAC, il cui nuovo piano settennale entrerà in vigore nel 2021, anche per aderire agli obbiettivi dello sviluppo sostenibile indicati dall’Agenda 2030 dell’Onu. Con lo spettro di Brexit, però, si prospettano tagli ai fondi per la PAC, per cui resta da vedere se gli obbiettivi si tradurranno in politiche concrete o resteranno belle parole.
Da parte del consumatore c’è il dovere di una nuova consapevolezza, un orientamento verso la lista della spesa migliore per qualità della vita, sostenibilità ambientale, sociale ed economica, che Andrea Segrè definisce “intelligenza alimentare” e che significa capacità di scegliere i prodotti migliori e più trasparenti, anche premiando o punendo le aziende o i Paesi produttori attraverso i propri acquisti. E se fonio e alghe sono una novità, vale la pena di aggiornare la massima di Michael Pollan “non mangiare niente che tua nonna non riconoscerebbe come cibo”, in “non mangiare niente che tua nonna non mangerebbe se non le spiegassi da dove viene”.