Negli anni Settanta c’erano la corsa allo spazio, la guerra del Vietnam, la dittatura di Pinochet, Berlino era divisa in due dal Muro, le radio trasmettevano gli Abba, in Italia c’erano le Brigate Rosse e Giovanni Leone era Presidente della Repubblica. Era un mondo completamente diverso da oggi, ma si sapeva già che era in corso un cambiamento climatico, di cui il responsabile era con ogni probabilità l’uomo, e che le conseguenze sarebbero state gravi. Per decenni gli avvertimenti degli scienziati sono rimasti inascoltati e non si è fatto quasi nulla per cambiare la situazione, con i risultati che vediamo oggi. Eppure ci sono casi che dimostrano che muoversi in tempo funziona e che non saremmo dove siamo oggi se avessimo preso sul serio i report scientifici e non ci fossimo lasciati soggiogare dalla febbre del petrolio. Uno di questi casi è il buco nell’ozono. Nel ’74, infatti, gli scienziati capirono che lo strato di ozono che avvolge il Pianeta si stava assottigliando e che ne erano causa le attività umane, in particolare quelle che coinvolgono sostanze come i cloro-fluorocarburi, contenuti nelle bombolette spray, frigoriferi ed estintori. E decisero di fare qualcosa.
L’ozono, gas che si trova in stratosfera e atmosfera, protegge la Terra dai raggi ultravioletti del Sole, che senza questo filtro possono causare cali della produzione agricola, danni alla catena alimentare e agli equilibri biochimici della fauna acquatica e terrestre oltre che cancro alla pelle, cataratta e immunodeficienza. La quantità di ozono in atmosfera cambia al variare di diversi fattori geografici e ambientali, l’assottigliamento dello strato di ozono registrato dagli scienziati negli anni Settanta, però, era tale da non poter essere spiegato con nessuno di questi. Proprio negli anni Settanta infatti in frigoriferi, estintori e condizionatori vennero introdotte delle sostanze che sarebbero state poi ribattezzate ODS, cioè Ozone Depleting Substances (responsabili della riduzione dell’ozono). Si capì che era fondamentale regolarne la produzione e la circolazione, perché hanno un potente effetto sul clima, fino a 14mila volte più dannoso di quello del biossido di carbonio (CO2), e persistono nell’atmosfera per decenni. In corrispondenza del Polo Sud, come sappiamo, ormai si è formato un vero e proprio buco nello strato d’ozono, che aumenta tra fine inverno e inizio primavera (australi), ma livelli preoccupanti di assottigliamento si verificano anche sul Polo Nord e sull’Europa continentale.
Tutti i membri dell’Onu decisero di agire assieme per l’ambiente, sottoscrivendo, nel 1987, il Protocollo di Montréal, che, a 32 anni dalla firma e a 30 dall’entrata in vigore, resta il maggiore successo ambientale delle Nazioni Unite. Vietando la produzione e la vendita di sostanze chimiche ODS tra cui i clorofluorocarburi, infatti, ha portato all’eliminazione graduale, in refrigeratori, impianti di condizionamento e altri prodotti, del 99% delle sostanze chimiche dannose per l’ozono. Nel 2016 il Protocollo è stato rafforzato dall’Emendamento di Kigali, che ha preso di mira altre sostanze, gli idrofluorocarburi, evitando così un ulteriore aumento della temperatura terrestre di 0,5 gradi entro fine secolo e contribuendo a proteggere lo strato d’ozono. Molti dei Paesi più ricchi – come Stati Uniti e Unione Europea – hanno l’obbligo di iniziare ad abbandonare gradualmente queste sostanze quest’anno, mentre la maggior parte degli altri Paesi ha cinque anni di tempo in più e per gli Stati più caldi della Terra l’impegno scatta nel 2028.
Nel frattempo, il Protocollo di Montréal mostra i suoi frutti: grazie a esso in circa vent’anni 135 miliardi di tonnellate di gas serra non hanno raggiunto l’atmosfera e, a partire dal 2000, lo strato di ozono si è rigenerato dell’1-3% per decennio. Tutto ciò ci ha teoricamente evitato circa 2 milioni (14%) di casi di cancro alla pelle fino al 2030, oltre a scongiurare danni all’agricoltura per un complessivo risparmio economico e sanitario di oltre 2 miliardi di dollari. Senza il Trattato di Montréal, il buco nell’ozono nella regione antartica nel 2013 sarebbe stato del 40% più ampio: si tratta del più concreto sforzo fatto dall’umanità per contenere l’aumento della temperatura terrestre entro i 2 gradi. La riduzione dell’ozono, infatti, ha effetto sulla temperatura atmosferica, con conseguenze sulla circolazione dei venti e sul clima terrestre, e aumenta la quantità dei famigerati raggi UV che raggiungono la Terra, con rischi per umani, flora e fauna. Il buco nell’ozono ha raggiunto la massima estensione nel 1993, ma da quel momento l’effetto del Protocollo di Montréal ha iniziato a farsi sentire. Tanto che, secondo il Report del 2018 della World Meteorological Organization, nonostante persista, il buco nell’ozono nella regione antartica, dal 2000 a oggi, si è ridotto di 4 milioni di km quadrati e potrebbe addirittura chiudersi attorno al 2050. Si calcola che alle medie latitudini dell’emisfero boreale lo strato di ozono possa tornare ai livelli del 1980 attorno al 2030, cosa che accadrà vent’anni dopo anche nell’emisfero australe e negli anni 2060 circa nella regione antartica.
La normativa dell’Unione Europea è ancora più ambiziosa, con il Regolamento sull’ozono che, a differenza del Protocollo di Montréal, non disciplina solo la produzione di queste sostanze e il loro commercio all’ingrosso, ma ne vieta l’uso (almeno nella maggior parte dei casi) e oltre a regolamentare le sostanze all’ingrosso controlla anche quelle contenute nei singoli prodotti e apparecchiature. Stabilisce, inoltre, i requisiti per importazioni ed esportazioni di sostanze ODS e regola e controlla cinque ulteriori sostanze chimiche oltre alle 90 complessive già contemplate dal Protocollo di Montréal. Ma siccome dove ci sono leggi c’è la minaccia di azioni illegali, bisogna costantemente vigilare sulla corretta applicazione dei trattati e dei regolamenti, e verificare che lo stoccaggio delle sostanze pericolose avvenga nel rispetto dell’ambiente. E verificare che le nuove sostanze o tecnologie in fase di studio o di realizzazione non siano pericolose per l’ozono come quelle già vietate.
La riduzione del buco nell’ozono ha anche permesso di contenere, di diversi centimetri, l’innalzamento del livello degli oceani. È evidente che l’allarmante scenario che ci aspetta sarebbe nettamente peggiore se nessuno avesse fatto nulla per migliorare la situazione. Per questo bisogna agire. I trattati non sono parole scritte senza collegamento con la vita reale: se li si prende seriamente e li si fa seguire dall’azione congiunta del più ampio numero possibile di Paesi funzionano e i loro effetti sono preziosi. Ma, come dimostra l’andamento del buco nell’ozono, possono volerci decenni per riparare almeno in parte ai danni fatti, tempi che bisogna calcolare nella lotta ai cambiamenti climatici. Non possiamo permetterci di indugiare ancora, come abbiamo fatto per decenni.
Già negli anni ’50 – mezzo secolo prima che nascesse Greta Thunberg, trattata come una ragazzina dalla fantasia troppo fervida – gli scienziati predicevano un aumento della temperatura dovuto all’uso dei combustibili fossili. Anni dopo, nel 1972, John Sawyer, a capo delle ricerche dell’Ufficio Metereologico britannico, scrisse un documento che sintetizzava ciò che all’epoca si sapeva sul tema, prevedendo un aumento delle temperature medie di circa 0,6℃ entro la fine del XX secolo. Sono passati esattamente 40 anni dal primo riconoscimento scientifico ufficiale del climate change e delle attività umane come sue cause. Tra il 23 e il 27 luglio 1979, infatti, un gruppo di scienziati si riunì al Woods Hole Oceanographic Institution in Massachusetts e gettò le basi per lo studio “Carbon dioxide and climate: a scientific assessment”. Il documento, oggi noto come Charney Report, è la prima analisi scientifica del cambiamento climatico causato dalle emissioni di anidride carbonica. Riconosce che secondo nessuno dei vari modelli considerati – anche ammettendo l’ipotesi dell’errore di 1,5 gradi – l’aumento della temperatura dovuto all’immissione di anidride carbonica nell’atmosfera sarà trascurabile, e ipotizza un surriscaldamento di 3 gradi al raddoppio della quantità di anidride carbonica immessa; si dice anche che il fattore più difficile da prevedere è il riscaldamento degli oceani e che, con le conoscenze e gli strumenti a disposizione all’epoca, non si potevano prevedere localizzazione e intensità regionali del cambiamento climatico.
Questo studio rimase pressoché inascoltato e non portò a cambiamenti, né da parte del pubblico scientifico, né dei cittadini, né men che meno dai politici. Oggi è riconosciuto come un documento fondamentale, che pure rimase senza conseguenze per decenni. Per questo il successo del Protocollo di Montréal sul buco nell’ozono è solo parzialmente da festeggiare: poiché ci dà la misura di quanto tempo abbiamo perso e ci dice che non saremmo in questa situazione – ad affrontare eventi atmosferici estremi e migrazioni climatiche e a prendercela con una ragazzina che ha la sola colpa di ricordarcelo senza giri di parole – se avessimo agito prima, con la stessa decisione e la stessa strategia condivisa a livello mondiale.