Costruita tra il 1987 e il 1991, Biosphere 2 è il più grande terrario mai costruito. La sua struttura in acciaio e vetro di 204mila metri cubi contiene al proprio interno sei diversi ecosistemi: la foresta tropicale, l’oceano – comprensivo di una barriera corallina –, la palude di mangrovie, il deserto, la savana ed ettari di terreno coltivabile, oltre a laboratori e spazi destinati a ospitare la vita umana.
L’idea di riprodurre una Terra in miniatura, sigillata e indipendente rispetto all’esterno, è venuta a John Polk Allen, ex scienziato specializzato in leghe metalliche, e alla sua compagna, la fotografa Marie Harding, durante l’esperienza delle residenze artistiche che ospitavano al Synergia Ranch, un ecovillaggio fondato da loro nel 1969 nei pressi di Santa Fe, nel New Mexico. Ispirata dal laboratorio di ricerca ambientale dell’Università dell’Arizona, la coppia ha coinvolto nel progetto l’architetto Phil Hawes e il magnate del petrolio Edward Bass, finanziatore con 150 milioni di dollari del lancio della joint venture Space Biosphere Ventures e della costruzione di Biosphere 2 a Oracle, in Arizona.
Lo scopo era quello di individuare possibili strategie per la futura colonizzazione di altri pianeti, ma anche di studiare la crescita e i cicli vitali di piante e animali, il riciclo di aria e acqua, e la possibilità di un gruppo di esseri umani di sopravvivere per due anni all’interno della struttura coltivando il proprio cibo e minimizzando l’interazione con l’esterno. L’esperimento doveva essere anche la conferma dell’ipotesi Gaia, inizialmente proposta dal biofisico James Lovelock e dalla microbiologa Lynn Margulis nel 1972, secondo cui la Terra, le piante e gli animali, si sono evoluti insieme in un sistema autoregolante. Per questo gli ecosistemi all’interno di Biosphere 2 erano stati ricreati importando più di tremila specie di piante e animali: tra le colture c’erano riso, patate dolci, arachidi, barbabietole, grano, carote, peperoni, banane, fichi, pomodori, cavoli ed erbe; tra gli animali maiali, capre, polli, scarafaggi, formiche, vongole e dozzine di pesci tropicali.
Il sogno di creare un nuovo mondo privo di inquinamento e l’utopia che in un futuro recente sarebbe stato possibile costruire ecosistemi artificiali anche sulla Luna e su Marte erano così elettrizzanti che la notte prima dell’inizio della missione, Space Biosphere Ventures diede una festa per duemila persone, facendo anche nascere dubbi sulla possibilità che l’esperimento fosse una costosa campagna di marketing. Il 26 settembre del 1991, un team composto da quattro uomini e quattro donne venne sigillato all’interno del terrario, dando inizio alla prima missione. Durante l’arco dei due anni, i “terronauti” – chiamati anche “biosferiani” – non ebbero quasi contatti con l’esterno se non attraverso comunicazioni telefoniche o tramite le telecamere di sorveglianza e non permisero a nessun elemento di entrare o uscire dalla biosfera. L’esperimento incontrò però diversi problemi: i terreni non producevano abbastanza alimenti a causa della mancanza di Sole, tanto che dovette essere utilizzata una scorta di cibo introdotta segretamente prima della chiusura delle porte; Jane Poynter, una delle scienziate del gruppo, venne trasportata in ospedale per essere medicata dopo il taglio di un dito e, al suo rientro, fu accusata di aver introdotto vari oggetti dall’esterno, come vivande, pellicole e altre strumentazioni tecnologiche; la maggior parte degli animali impollinatori, necessari allo sviluppo degli ecosistemi, morirono e le formiche e le blatte si riprodussero a una velocità tale da invadere tutti gli spazi disponibili.
Le difficoltà resero sempre più difficile la convivenza tra i membri del gruppo, tanto da farlo spaccare in due fazioni. Una era guidata da Jane Poynter, attuale co-fondatrice di World View, per cui l’abilità nel condurre la ricerca era più importante che mantenere il sistema completamente sigillato dall’esterno. L’altra, con a capo Abigail Alling, attuale co-fondatrice dell’organizzazione no-profit Biosphere Foundation, difendeva l’opinione che l’autonomia di Biosphere 2 era una condizione fondamentale per poter proseguire l’esperimento. La crisi più dura ebbe luogo sedici mesi dopo l’avvio del progetto, quando l’aumento massiccio di anidride carbonica portò i livelli di ossigeno a calare al punto da arrivare sotto la soglia di sicurezza stabilita dall’Osha, agenzia del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti. Ulteriore ossigeno venne così pompato dall’esterno, compromettendo ancora di più l’integrità dell’esperimento.
Insoddisfatto dei risultati e allarmato dalle perdite economiche, il magnate Edward Bass decise di cedere la gestione della struttura allo stratega elettorale di Donald Trump Steve Bannon, ai tempi produttore cinematografico ed ex banchiere di investimento. Gli scienziati riuscirono comunque nella missione, uscendo dalla struttura il 26 settembre 1993, due anni esatti dopo esservi entrati.
L’avvio di una seconda missione da parte di un team diverso venne annunciata nel marzo 1994, ma fu un disastro completo. Sotto la guida di Bannon, le ricerche si concentrarono più sui cambiamenti climatici e sull’inquinamento atmosferico che sulla colonizzazione spaziale. Il cambio di proprietà fu causa di diversi scontri con il comitato scientifico, composto principalmente dai membri della prima missione, tanto che, quando Abigail Alling scrisse un report sulla sicurezza di Biosphere 2, la risposta di Bannon fu che “glielo avrebbe ficcato dritto in gola”. Dopo soli trentadue giorni i membri della seconda missione arrivarono allo scontro diretto e due “biosferiani” della prima spedizione vennero arrestati per aver manomesso e distrutto parte della struttura. I sabotatori, Abigail Alling e Mark Van Thillo, temevano che l’ambiente all’interno della struttura potesse deteriorarsi e diventare pericoloso a causa di possibili negligenze sulla sicurezza da parte della proprietà. La missione terminò in via ufficiale cinque mesi dopo.
Nonostante ai tempi la stampa abbia definito l’esperimento “una bravata da 150 milioni di dollari”, come riporta Jane Poynter nel proprio memoir, e alcuni scienziati l’abbiano bollato come un grande fallimento, in quanto non si era riusciti “a generare abbastanza ossigeno, acqua potabile e cibo per sole otto persone”, Biosphere 2 si è comunque rivelato uno strumento di ricerca molto importante. Dopo essere appartenuta alla Columbia University fino al 2003, la struttura è stata donata all’Università dell’Arizona: aperta ai visitatori, viene utilizzata ancora oggi per condurre studi, tra gli altri, sui cambiamenti climatici, gli agenti atmosferici, l’evoluzione del paesaggio e l’effetto della siccità sulle foreste pluviali.
Oltre a questi campi di ricerca, nella Biosphere 2 vengono anche portati avanti test psicologici sulle dinamiche sociali e sulla nascita di conflitti tra esseri umani costretti a vivere nello stesso spazio. Gli ecosistemi di Biosfera 2 permettono anche di condurre esperimenti anche sulle principali conseguenze del climate change, come l’acidificazione degli oceani, le cui cause sono state comprovate da uno studio pubblicato su Science nel 1999 e condotto proprio nella zona dell’oceano ricreata all’interno della struttura. L’anidride carbonica emessa nell’atmosfera viene infatti assorbita dagli oceani, producendo una irreversibile modificazione del pH delle acque. Secondo uno studio pubblicato nel 2003 su Nature, un abbassamento dei livelli di pH sarebbe in grado di interrompere la calcificazione delle barriere coralline, portando alla loro estinzione e alla modificazione generale dei comportamenti della fauna marina.
Gli studi sono state confermati più di recente anche dal ricercatore Oliver Sulpis e dal suo team che nel 2018, sulla rivista ufficiale della United States National Academy of Sciences PNAS, hanno evidenziato come “l’aumento dell’acidificazione che risulta dall’attività umana rischia di compromettere la nostra capacità di comprendere la storia climatica della Terra”. In questo senso, Biosphere 2 diventa un’opportunità unica per accelerare gli esperimenti scientifici e trovare soluzioni per salvaguardare la barriera corallina e creare nuove specie di coralli in grado di resistere al cambiamento climatico. A causa dell’aumento di anidride carbonica durante la prima missione, infatti, “lo stato dell’ecosistema oceano di Biosphere 2 è quello che potrebbero raggiungere i nostri oceani in futuro”, ha affermato Diane Thompson, direttrice del centro di oceanografia della struttura.
Biosphere 2 lascia anche un’altra eredità, più etica. In un’epoca in cui è stato introdotto il neologismo Nature-Deficit Disorder (letteralmente, disturbo da deficit di natura) a indicare il cambiamento radicale intervenuto nel nostro rapporto con la natura, recuperare un’intesa con l’ambiente circostante sentendosi parte di un tutto più grande della sola razza umana sembra una spinta essenziale per salvaguardare il nostro Pianeta. Siamo così assuefatti dalla tecnologia e dal nostro delirio di onnipotenza che prestiamo sempre meno attenzione al mondo che ci circonda, finendo per vivere il nostro Pianeta più attraverso i documentari – bellissimi, senza dubbio – di David Attenborough che godendone in prima persona. Due degli scienziati della prima missione, Mark Nelson, nel libro Pushing our Limits: Insights from Biosphere 2 (Superare i nostri limiti: approfondimenti da Biosfera 2) e Jane Poynter, in un TedTalk sulla propria esperienza durante l’esperimento, si sono soffermati proprio sull’acquisita consapevolezza che è la Natura a mantenerci vivi e in salute e che a noi spetta il compito di ricambiarla. Ecco come, intrecciando le esperienze passate alle ricerche presenti, Biosphere 2 ha finalmente raggiunto un nuovo scopo, forse al momento più urgente e importante della colonizzazione dello Spazio: essere uno strumento fondamentale per conservare Biosphere 1, il nostro pianeta Terra.